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Messaggi del 28/10/2014

Alcuni detti romani

Post n°572 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

Alcuni detti romani

A ciccio de sellero = Cosa capitata al momento giusto: il sellero (sedano) era un ortaggio abbastanza raro alla fine del cinquecento e veniva considerato un'autentica primizia 

Fà come l'antichi = E' un'espressione di cui solitamente si usa solo la prima metà, essendo per esteso: fà come l'antichi, che magnaveno la còccia e buttaveno li fichi. Stando a questo detto, gli antichi erano soliti mangiare la buccia (còccia), gettando via la parte più pregiata del frutto. Viene sempre riferita a chi fa le cose in modo strampalato o controproducente

Morisse de pizzichi = Annnoiarsi a morte

Pijà d'aceto, pijà cicoria = Andare in collera a seguito di osservazioni o rimproveri ritenuti ingiusti

Restà come l'aretino Pietro = L'espressione per esteso è "restà come l'aretino Pietro: co 'na mano davanti e n'antra de dietro", ma in genere, dell'espressione si usa solo la prima metà, essendo il seguito fin troppo noto. Vuole indicare una situazione, in cui il soggetto a cui è riferita si ritrova preso tra due fuochi, o subisce danno in tutti i casi, sia che le cose vadano in un certo modo che nel modo opposto 

Ai tempi de Checchennina (di Checco e Nina) = Come ai tempi in cui si faceva tutto alla buona, senza pericoli nascosti

Annà pe' fratte = Andare verso una situazione pericolosa

Chi magna da solo se strozza = Invito a dividere qualcosa

Dìssene un sacco e 'na sporta = Scambiarsi insulti senza misura

Va cercanno Maria pe' Roma = Vuol dire cercare un ago in un pagliaio, ossia compiere una ricerca inutile e pertanto perdere tempo

Brontolà come na pila de facioli = Lamentarsi di qualcosa in continuazione

Esse er fijo dell'oca bianca = Avere particolari privilegi rispetto a chi non ne ha

Chi cià le corna è l'urtimo a sapello = Chi è cornuto, è sempre l'ultimo a sapere del tradimento

Esse come la sóra Camilla = Il modo di dire per esteso è: èsse come la sóra Camilla, che tutti la vònno e nisuno se la piglia (cioè "essere come la signora Camilla, che tutti vogliono ma che nessuno si prende") Questo motto si basa su un fatto storico: donna Camilla, sorella di Felice Peretti cioè Sisto V, ebbe diversi pretendenti, ma alla fine entrò in convento Di qui l'espressione, che ironizza sulla vicenda, e che per traslato viene usata anche in altri contesti: per esempio, a chi riceve diverse proposte di lavoro ma non viene mai assunto

Esse cornuto e mazziato = Portare le corna ed esserne pure canzonato

Chi te loda in faccia, te dice male de dietro a le spalle = Chi ti loda apertamente ti dice male dietro alle spalle

A quattro cose nun portate fede: sole d’inverno, nuvole d’estate, pianto de donna, carità de frate = Non bisogna mai fidarsi delle cose che non durano

D’una bella scarpa ce resta sempre una bella ciavatta = Anche le belle donne prima o poi invecchiano

Se magna pè campà, no' pe' crepà = Non si può sempre rinunciare alle cose che piacciono

Voja de lavorà sarteme addosso = È il rimprovero per gli oziosi e i nullafacenti, cui segue spesso "e tu pigrizzia nun' m'abbandonà e famme lavorà meno che posso"

Li guadagni de Maria Cazzetta = Maria Cazzetta è un personaggio ipotetico, il cui nome dispregiativo è un evidente segno di scherno: l'espressione viene usata per bollare un affare solo in apparenza vantaggioso, ma che in realtà non lo è affatto

Nun c'è sta trippa pe' gatti = Espressione che equivale a "non c'è niente da dare" Il modo di dire risale ai primi del '900, allorché il sindaco Nathan cancellò dal bilancio del Comune l'acquisto di trippa destinata a sfamare i gatti, utilizzati tenere lontani i topi dal Campidoglio. Ma a fronte degli scarsi risultati del provvedimento, la spesa venne annullata e sul libro del Bilancio Comunale venne scritto: Non c'è trippa per gatti

Quanno er diavolo te lecca, è segno che vò l'anima = Il potere è come il diavolo, quando adula qualcuno vuole qualcosa in cambio

Roma è 'na città devota: 'gni strada un convento, 'gni casa 'na mignotta = Il detto corrisponde al fatto che nella seconda metà del XVI secolo Roma aveva circa 60.000 abitanti. Di essi, circa 20.000 facevano parte del clero e le prostitute censite erano circa 7.000. La ragione di una così alta densità di queste professioniste nella città dei papi stava nel fatto che Roma era piena di celibi, di uomini in attesa di essere avviati alla carriera ecclesiastica: le "donne di piacere" trovavano qui grande mercato e affluivano da ogni parte d'Europa, attirate dal lusso e dal denaro che scorreva copioso in alcuni ambienti della società romana

Annà all'arberi pizzuti - annà a fa' terra pe ceci - annà a ingrossà le cucuzze - stirà le cianche - annàssene all'antri carzoni = Se il romanesco si preoccupa di non menzionare la malattia, figuriamoci quando è l'ora di fare i conti con la commare secca (ovvero la morte): le perifrasi sono ancora più numerose e variopinte. Fra quelle usate ancora oggi c'è "l'andare agli alberi pizzuti" cioè "ai cipressi" (albero notoriamente cimiteriale). Ma anche "l'andare a far terra per i ceci" e/o "a far a concime alle zucche" testimonia come persino di fronte agli eventi più ineluttabili il romano non rinuncia mai ad assumere una posizione distaccata e beffarda. E l'espressione "stirà (cioè distendere) le cianche (gambe)" ne è un ulteriore esempio. Il quinto modo di dire, divenuto abbastanza infrequente, si trova nei testi di Giggi Zanazzo, e probabilmente si riferisce all'uso di vestire la salma col "vestito bbòno", quindi anche con un paio di calzoni che in vita non indossava spesso

E bonanotte ar secchio - avemo chiuso le messe a S. Gregorio = Essere giunti alla fine.

 
 
 

A Piero Manelli

Post n°571 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

XXXVIII.
A Piero Manelli

Poi che mi dié natura a voi simile
forma e materia, o fosse il gran Fattore,
non pensate ch'ancor disìo d'onore
mi desse, e bei pensier, Manel gentile?

Dunque credete me cotanto vile,
ch'io non osi mostrar, cantando, fore,
quel che dentro n'ancide altero ardore,
se bene a voi non ho pari lo stile?

Non lo crediate, no, Piero, ch'anch'io
fatico ognor per appressarmi al cielo,
e lasciar del mio nome in terra fama.

Non contenda rea sorte il bel desìo,
che pria che l'alma dal corporeo velo
si scioglia, sazierò forse mia brama.

 

XXXIX.
Allo stesso

Amore un tempo in così lento foco
arse mia vita, e sì colmo di doglia
struggeasi 'l cor, che quale altro si voglia
martir, fora ver lei dolcezza e gioco.

Poscia sdegno e pietate a poco a poco
spenser la fiamma, ond'io più ch'altra soglia
libera da sì lunga e fera voglia,
giva lieta cantando in ciascun loco.

Ma 'l ciel né sazio ancor (lassa) né stanco
de' danni miei, perché sempre sospiri,
mi riconduce a la mia antica sorte;

e con sì acuto spron mi punge il fianco,
ch'io temo sotto i primi empii martiri
cader, e per men mal bramar la morte.

 

XL.
Allo stesso

Qual vaga Filomela, che fuggita
è da l'odiata gabbia, e in superba
vista sen va tra gli arboscelli e l'erba,
tornata in libertate e in lieta vita;

er'io da gli amorosi lacci uscita,
schernendo ogni martìre e pena acerba
de l'incredibil duol, ch'in sé riserba
qual ha per troppo amar l'alma smarrita.

Ben avev'io ritolte (ahi stella fera!)
dal tempio di Ciprigna le mie spoglie,
e di lor pregio me n'andava altera;

quand'a me Amor: le tue ritrose voglie,
muterò, disse; e femmi prigioniera
di tua virtù, per rinovar mie doglie.

 

XLI.
Allo stesso

Felice speme, ch'a tant'alta impresa
ergi la mente mia, che ad or ad ora
dietro al santo pensier che la innamora,
sen vola al Ciel per contemplare intesa.

De bei disir in gentil foco accesa,
miro ivi lui, ch'ogni bell'alma onora,
e quel ch'è dentro, e quanto appar di fora,
versa in me gioia senz'alcuna offesa.

Dolce, che mi feristi, aurato strale,
dolce, ch'inacerbir mai non potranno
quante amarezze dar puote aspra sorte;

pro mi sia grande ogni più grave danno,
che del mio ardir per aver merto uguale
più degno guiderdon non è che morte.


XLII.
Allo stesso

S'io 'l feci unqua che mai non giunga a riva
l'interno duol, che 'l cuor lasso sostiene;

s'io 'l feci, che perduta ogni mia spene

in guerra eterna de vostr'occhi viva;

s'io 'l feci, ch'ogni dì resti più priva
de la grazia, onde nasce ogni mio bene;
s'io 'l feci, che di tante e cotai pene,
non m'apporti alcun mai tranquilla oliva;

s'io 'l feci, ch'in voi manchi ogni pietade,
e cresca doglia in me, pianto e martìre
distruggendomi pur come far soglio;

ma s'io no 'l feci, il duro vostro orgoglio
in amor si converta: e lunga etade
sia dolce il frutto del mio bel disire.

 

XLIII.
Allo stesso

Se ben pietosa madre unico figlio
perde talora, e nuovo, alto dolore
le preme il tristo e suspiroso core,
spera conforto almen, spera consiglio.

Se scaltro capitano in gran periglio,
mostrando alteramente il suo valore,
resta vinto e prigion, spera uscir fuore
quando che sia con baldanzoso ciglio.

S'in tempestoso mar giunto si duole
spaventato nocchier già presso a morte
ha speme ancor di rivedersi in porto.

Ma io, s'avvien che perda il mio bel sole,
o per mia colpa, o per malvagia sorte,
non spero aver, né voglio, alcun conforto.

 

XLIV.
Allo stesso

Se forse per pietà del mio languire
al suon del tristo pianto in questo loco
ten vieni a me, che tutta fiamma e foco
ardomi, e struggo colma di disire,

vago augellino, e meco il mio martìre
ch'in pena volge ogni passato gioco,
piangi cantando in suon dolente e roco,
veggendomi del duol quasi perire;

pregoti per l'ardor che sì m'addoglia,
ne voli in quella amena e cruda valle
ov'è chi sol può darmi e morte e vita;

e cantando gli di' che cangi voglia,
volgendo a Roma 'l viso, e a lei le spalle,
se vuol l'alma trovar col corpo unita.

 

XLV.
Allo stesso

Ov'è (misera me) quell'aureo crine
di cui fe' rete per pigliarmi Amore
ov'è (lassa) il bel viso, onde l'ardore
nasce, che mena la mia vita al fine?

Ove son quelle luci alte e divine
in cui dolce si vive e insieme more?
ov'è la bianca man, che lo mio core
stringendo punse con acute spine?

Ove suonan l'angeliche parole,
ch'in un momento mi dan morte e vita?
u' i cari sguardi, u' le maniere belle?

Ove luce ora il vivo almo mio sole,
con cui dolce destin mi venne in sorte
quanto mai piovve da benigne stelle?

Tullia d'Aragona

 
 
 

'N'antr'occasione

Post n°570 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

'N'antr'occasione

Quanno che la tua vita l'hai bbuttata,
nun è che devi ppiù stà a ppreoccupatte,
nimmanco ciài bbisogno d'ammazzatte,
risparmia, armeno, l'urtima cazzata.

Ricordi quanno 'sta cratura è nnata?
Staveno tutti attorno a spupazzatte
e doppo, grannicello, ad educatte,
fino a quanno tu' moje l'hai trovata.

Sei stato pure 'n omo de successo,
si tte movevi, c'era 'na raggione,
ma tutto, 'n giorno, l'hai bbuttato ar cesso,

solo per un momento da cojone.
Mettite 'n testa, sempre come adesso:
la vita è una e 'n c'è 'n'antr'occasione.

Valerio Sampieri
28 ottobre 2014

 
 
 

Li carciofoli a' la giudia

Post n°569 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

Li carciofoli a' la giudia

Quattro carciofoletti a' la giudia
fritti dorati, bionni, scrocchiarelli
so' stati sempre la passione mia,
cento vorte più mejo de cervelli.

Io benedico Sare e Samuelli
ch'hanno inventato 'sta ghiottoneria,
che' so' proprio 'na vera sciccheria
pe' chi vò rillegrasse li budelli.

E me ne faccio certe padellate
da fa' paura; e poi piano pianino
me li sciroppo come un padre abbate.

Quanno a' la fine, poi, me sento sazzio,
ce manno sopra un ber bicchiere d vino,
'na fumata... e Signore t'aringrazzio!

Antonio Spinola (1882 - 1952)

 
 
 

Tre sonetti di Tullia d'Aragona

Post n°568 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

XXXV.
A Bernardo Ochino

Bernardo, ben potea bastarvi averne

co 'l dolce dir, ch'a voi natura infonde,

qui dove 'l re de fiumi ha più chiare onde,

acceso i cuori a le sante opre eterne:

che se pur sono in voi pure l'interne
voglie, e la vita al vestir corrisponde,
non uom di frale carne e d'ossa immonde,
ma sete un voi de le schiere superne.

Or le finte apparenze, e 'l ballo, e 'l suono,
chiesti dal tempo e da l'antica usanza,
a che così da voi vietati sono?

Non fora sanà, fora arroganza
torre il libero arbitrio, il maggior dono
che Dio ne dié ne la primiera stanza.


XXXVI.
Ad Emilio Tondi

Siena dolente i suoi migliori invita
a lagrimar intorno al suo gran Tondi,

al cui valor ben furo i cieli secondi,
poscia invidiaro l'onorata vita.


Marte il pianger di lei col pianto aìta,
morto 'l campion, cui fur gli altri secondi;
io prego i miei sospir caldi e profondi,
ch'a sfogar sì gran duol porgano aìta.

So che non pon recar miei tristi accenti,
a voi, messer Emilio, alcun conforto,
che fra tanti dolori il primo è 'l vostro.

Ma 'l duol si tempri; il suo mortale è morto;
vive 'l suo nome eterno fra le genti:
l'alma trionfa nel superno chiostro.

XXXVII.
A Tiberio Nari

Se veston sol d'eterna gloria il manto
quei che l'onor più che la vita amaro,
perché volete voi, gentil mio Naro,
render men bella con acerbo pianto

quella lode immortale e chiara tanto,
di cui mai non sarà chi giunga al paro
del valoroso vostro fratel caro,
che morendo portò di morte 'l vanto?

Scacciate 'l duol e rasserenate il volto;
e le unite da lui nemiche spoglie
sacrate a lui, che già trionfa in cielo,

E da questo mortal caduco velo
più che mai vivo, omai libero e sciolto,
par ch'a seguirlo ogni bell'alma invoglie.

Tullia d'Aragona
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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