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Messaggi di Ottobre 2014

A Piero Manelli

Post n°571 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

XXXVIII.
A Piero Manelli

Poi che mi dié natura a voi simile
forma e materia, o fosse il gran Fattore,
non pensate ch'ancor disìo d'onore
mi desse, e bei pensier, Manel gentile?

Dunque credete me cotanto vile,
ch'io non osi mostrar, cantando, fore,
quel che dentro n'ancide altero ardore,
se bene a voi non ho pari lo stile?

Non lo crediate, no, Piero, ch'anch'io
fatico ognor per appressarmi al cielo,
e lasciar del mio nome in terra fama.

Non contenda rea sorte il bel desìo,
che pria che l'alma dal corporeo velo
si scioglia, sazierò forse mia brama.

 

XXXIX.
Allo stesso

Amore un tempo in così lento foco
arse mia vita, e sì colmo di doglia
struggeasi 'l cor, che quale altro si voglia
martir, fora ver lei dolcezza e gioco.

Poscia sdegno e pietate a poco a poco
spenser la fiamma, ond'io più ch'altra soglia
libera da sì lunga e fera voglia,
giva lieta cantando in ciascun loco.

Ma 'l ciel né sazio ancor (lassa) né stanco
de' danni miei, perché sempre sospiri,
mi riconduce a la mia antica sorte;

e con sì acuto spron mi punge il fianco,
ch'io temo sotto i primi empii martiri
cader, e per men mal bramar la morte.

 

XL.
Allo stesso

Qual vaga Filomela, che fuggita
è da l'odiata gabbia, e in superba
vista sen va tra gli arboscelli e l'erba,
tornata in libertate e in lieta vita;

er'io da gli amorosi lacci uscita,
schernendo ogni martìre e pena acerba
de l'incredibil duol, ch'in sé riserba
qual ha per troppo amar l'alma smarrita.

Ben avev'io ritolte (ahi stella fera!)
dal tempio di Ciprigna le mie spoglie,
e di lor pregio me n'andava altera;

quand'a me Amor: le tue ritrose voglie,
muterò, disse; e femmi prigioniera
di tua virtù, per rinovar mie doglie.

 

XLI.
Allo stesso

Felice speme, ch'a tant'alta impresa
ergi la mente mia, che ad or ad ora
dietro al santo pensier che la innamora,
sen vola al Ciel per contemplare intesa.

De bei disir in gentil foco accesa,
miro ivi lui, ch'ogni bell'alma onora,
e quel ch'è dentro, e quanto appar di fora,
versa in me gioia senz'alcuna offesa.

Dolce, che mi feristi, aurato strale,
dolce, ch'inacerbir mai non potranno
quante amarezze dar puote aspra sorte;

pro mi sia grande ogni più grave danno,
che del mio ardir per aver merto uguale
più degno guiderdon non è che morte.


XLII.
Allo stesso

S'io 'l feci unqua che mai non giunga a riva
l'interno duol, che 'l cuor lasso sostiene;

s'io 'l feci, che perduta ogni mia spene

in guerra eterna de vostr'occhi viva;

s'io 'l feci, ch'ogni dì resti più priva
de la grazia, onde nasce ogni mio bene;
s'io 'l feci, che di tante e cotai pene,
non m'apporti alcun mai tranquilla oliva;

s'io 'l feci, ch'in voi manchi ogni pietade,
e cresca doglia in me, pianto e martìre
distruggendomi pur come far soglio;

ma s'io no 'l feci, il duro vostro orgoglio
in amor si converta: e lunga etade
sia dolce il frutto del mio bel disire.

 

XLIII.
Allo stesso

Se ben pietosa madre unico figlio
perde talora, e nuovo, alto dolore
le preme il tristo e suspiroso core,
spera conforto almen, spera consiglio.

Se scaltro capitano in gran periglio,
mostrando alteramente il suo valore,
resta vinto e prigion, spera uscir fuore
quando che sia con baldanzoso ciglio.

S'in tempestoso mar giunto si duole
spaventato nocchier già presso a morte
ha speme ancor di rivedersi in porto.

Ma io, s'avvien che perda il mio bel sole,
o per mia colpa, o per malvagia sorte,
non spero aver, né voglio, alcun conforto.

 

XLIV.
Allo stesso

Se forse per pietà del mio languire
al suon del tristo pianto in questo loco
ten vieni a me, che tutta fiamma e foco
ardomi, e struggo colma di disire,

vago augellino, e meco il mio martìre
ch'in pena volge ogni passato gioco,
piangi cantando in suon dolente e roco,
veggendomi del duol quasi perire;

pregoti per l'ardor che sì m'addoglia,
ne voli in quella amena e cruda valle
ov'è chi sol può darmi e morte e vita;

e cantando gli di' che cangi voglia,
volgendo a Roma 'l viso, e a lei le spalle,
se vuol l'alma trovar col corpo unita.

 

XLV.
Allo stesso

Ov'è (misera me) quell'aureo crine
di cui fe' rete per pigliarmi Amore
ov'è (lassa) il bel viso, onde l'ardore
nasce, che mena la mia vita al fine?

Ove son quelle luci alte e divine
in cui dolce si vive e insieme more?
ov'è la bianca man, che lo mio core
stringendo punse con acute spine?

Ove suonan l'angeliche parole,
ch'in un momento mi dan morte e vita?
u' i cari sguardi, u' le maniere belle?

Ove luce ora il vivo almo mio sole,
con cui dolce destin mi venne in sorte
quanto mai piovve da benigne stelle?

Tullia d'Aragona

 
 
 

'N'antr'occasione

Post n°570 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

'N'antr'occasione

Quanno che la tua vita l'hai bbuttata,
nun è che devi ppiù stà a ppreoccupatte,
nimmanco ciài bbisogno d'ammazzatte,
risparmia, armeno, l'urtima cazzata.

Ricordi quanno 'sta cratura è nnata?
Staveno tutti attorno a spupazzatte
e doppo, grannicello, ad educatte,
fino a quanno tu' moje l'hai trovata.

Sei stato pure 'n omo de successo,
si tte movevi, c'era 'na raggione,
ma tutto, 'n giorno, l'hai bbuttato ar cesso,

solo per un momento da cojone.
Mettite 'n testa, sempre come adesso:
la vita è una e 'n c'è 'n'antr'occasione.

Valerio Sampieri
28 ottobre 2014

 
 
 

Li carciofoli a' la giudia

Post n°569 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

Li carciofoli a' la giudia

Quattro carciofoletti a' la giudia
fritti dorati, bionni, scrocchiarelli
so' stati sempre la passione mia,
cento vorte più mejo de cervelli.

Io benedico Sare e Samuelli
ch'hanno inventato 'sta ghiottoneria,
che' so' proprio 'na vera sciccheria
pe' chi vò rillegrasse li budelli.

E me ne faccio certe padellate
da fa' paura; e poi piano pianino
me li sciroppo come un padre abbate.

Quanno a' la fine, poi, me sento sazzio,
ce manno sopra un ber bicchiere d vino,
'na fumata... e Signore t'aringrazzio!

Antonio Spinola (1882 - 1952)

 
 
 

Tre sonetti di Tullia d'Aragona

Post n°568 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

XXXV.
A Bernardo Ochino

Bernardo, ben potea bastarvi averne

co 'l dolce dir, ch'a voi natura infonde,

qui dove 'l re de fiumi ha più chiare onde,

acceso i cuori a le sante opre eterne:

che se pur sono in voi pure l'interne
voglie, e la vita al vestir corrisponde,
non uom di frale carne e d'ossa immonde,
ma sete un voi de le schiere superne.

Or le finte apparenze, e 'l ballo, e 'l suono,
chiesti dal tempo e da l'antica usanza,
a che così da voi vietati sono?

Non fora sanà, fora arroganza
torre il libero arbitrio, il maggior dono
che Dio ne dié ne la primiera stanza.


XXXVI.
Ad Emilio Tondi

Siena dolente i suoi migliori invita
a lagrimar intorno al suo gran Tondi,

al cui valor ben furo i cieli secondi,
poscia invidiaro l'onorata vita.


Marte il pianger di lei col pianto aìta,
morto 'l campion, cui fur gli altri secondi;
io prego i miei sospir caldi e profondi,
ch'a sfogar sì gran duol porgano aìta.

So che non pon recar miei tristi accenti,
a voi, messer Emilio, alcun conforto,
che fra tanti dolori il primo è 'l vostro.

Ma 'l duol si tempri; il suo mortale è morto;
vive 'l suo nome eterno fra le genti:
l'alma trionfa nel superno chiostro.

XXXVII.
A Tiberio Nari

Se veston sol d'eterna gloria il manto
quei che l'onor più che la vita amaro,
perché volete voi, gentil mio Naro,
render men bella con acerbo pianto

quella lode immortale e chiara tanto,
di cui mai non sarà chi giunga al paro
del valoroso vostro fratel caro,
che morendo portò di morte 'l vanto?

Scacciate 'l duol e rasserenate il volto;
e le unite da lui nemiche spoglie
sacrate a lui, che già trionfa in cielo,

E da questo mortal caduco velo
più che mai vivo, omai libero e sciolto,
par ch'a seguirlo ogni bell'alma invoglie.

Tullia d'Aragona
 
 
 

A Girolamo Muzio (tre sonetti)

Post n°567 pubblicato il 27 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

XXXII.
A Girolamo Muzio

Voi ch'avete fortuna sì nimica,
com'animo, valor e cortesia,
qual benigno destino oggi v'invia
a riveder la vostra fiamma antica?

Muzio gentile, un'alma così amica
è soave valore a l'alma mia,
ben duolmi de la dura e alpestra via
con tanta non di voi degna fatica.

Visse gran tempo l'onorato amore
ch'al Po già per me v'arse. E non cred'io
che sia sì chiara fiamma in tutto spenta.

E se nel volto altrui si legge il core,
spero ch'in riva d'Arno il nome mio
alto sonar ancor per voi si senta.

 

XXXIII.
Allo stesso

Fiamma gentil che da gl'interni lumi
con dolce folgorar in me discendi,
mio intenso affetto lietamente prendi,
com'è usanza a tuoi santi costumi;

poi che con l'alta tue luce m'allumi
e sì soavemente il cor m'accendi
ch'ardendo lieto vive e lo difendi,
che forza di vil foco nol consumi.

E con la lingua fai che 'l rozo ingegno,
caldo dal caldo tuo, cerchi inalzarsi
per cantar tue virtuti in mille parti;

io spero ancor a l'età tarda farsi
noto che fosti tal, che stil più degno
uopo era, e che mi fu gloria l'amarti.

 

XXXIV.
Allo stesso

Spirto gentil, che vero e raro oggetto
se' di quel bel, che più l'alma disìa,
e di cui brama ognor la mente mia
essere al tuo cantar caro suggetto;

se di pari n'andasse in me l'affetto
con le tue lode, onor render potria
mia penna a te; ma poi mia sorte rìa
m'ha sì bramato onor tutto interdetto.

Sol dirò, che seguendo la sua stella,
l'anima tua da te fece para,
venendo in me, com'in sua propria cella;

e la mia, ch'ora è teco insieme unita,
ten può far chiara fede, come quella,
che con la tua si mosse a cangiar vita.

Tullia d'Aragona

 
 
 

Er Diddittì

Post n°566 pubblicato il 27 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

Er Diddittì

Nun è che te servisse 'r diddittì?
Metti che ddrento casa ciài 'n inzetto,
petulante e 'n bèr po' fastidiosetto,
pe' ttojello de torno, pô sservì.

Er tàfano te ronza tutt'attorno
e ppare che 'n c'è ggnente p'azzittillo,
si nu' spruzzaje 'r fritte ed ammazzallo,
così l'azzitti e nun te piji scorno.

Mica lo devi fà p'esse cattivi,
perciò, si nun te piace, lassa perde,
ce stà 'n'antra maniera che lo schivi.

De solito, l'inzetto pija 'r volo,
poi ronza e va a posasse su le merde:
lassalo fà, che schiatterà da solo.

Valerio Sampieri
25 ottobre 2014

 
 
 

Dottor Carlo Poma di Mantova

Riporto ancora un episodio da "I martiri di Belfiore: letture patriottiche per giovinetti italiani" di Francesca Zambusi Dal Lago, G. Franchini, Verona, 1900. Carlo Poma è oggi noto, tristemente direi, perché a lui è intitolata la Via nella quale, quasi 25 anni fa, fu consumato un delitto tuttora irrisolto. Carlo Poma fu un patriota e quella che segue è la sua storia.

Sulle ginocchia materne si formano gli eroi.

Carlo Poma, valente in medicina e chirurgia, sagrificato dagli Austriaci a Belfiore, nacque a Mantova l' anno 1823 il sette dicembre, e fu spento pure nel fatal sette dicembre del 1852.

Gli fu padre il giudice Leopoldo Poma, consigliere di Tribunale, uomo riverito per rettitudine, dottrina, e patriottici sentimenti. Sua madre fu la illustre Anna Filippini, donna di antica virtù, e di cui non saprebbesi se più ammirare l' altezza della mente o quella del cuore.

Morto di crudel morbo l' anno 1836 ai figli ancor teneri il genitore, ella si strinse più fortemente alla numerosa giovane famiglia, e con essa abbandonò il luogo natio, per recarsi in Pavia a compiervi l' educazione dei figli maschi. Ritornò a Mantova quando Carlo, il minore di tutti, aveva già côlta laurea in medicina e chirurgia.

Salito ben presto per il suo merito in alta fama, venne invitato a prestare la generosa opera sua nel patrio ospitale, quel santo albergo degli umani patimenti.

E tanto intelletto di amore egli vi pose, che dir solevasi, avere per i suoi malati il cuore di un padre e le viscere di una madre! Di ciò sia prova, che spento egli già da tanti anni, la sua memoria benedetta viene colà tramandata di bocca in bocca, e ai visitatori del pio luogo si mostrano con reverenza le stanze che esso occupava, i suoi libri e quanto ancora di lui parla al cuore degli infelici, che la sua carità sapea confortare!

Le azioni del medico Carlo Poma erano improntate di quell' ardore disinteressato, che distinguer deve i seguaci di quell' arte che più accosta l' uomo a Dio. E quando stanco delle fatiche del giorno, cercava riposo fra le pareti domestiche, divider soleva le brevi ore fra le amorose accoglienze della pia genitrice, e l' occuparsi in severi o più ameni studi. Profondo conoscitore delle scienze naturali, trasfonder sapeva ne' suoi giovani allievi, col sapere, lo zelo di giovare all' umanità sofferente, onorando in pari tempo la patria. Seguace del poetico genio materno era buon poeta come buon prosatore, e bene istrutto in varie lingue straniere.

Tutto ciò congiunto a un illibato carattere, lo faceva ricercato in ogni più culto ritrovo, e in lui posero ben presto fidanza i più atti patriotti italiani.

Eravamo al 1850, epoca delle cospirazioni per iscacciare d' Italia lo Straniero. Si formarono, come sopra dicemmo Comitati, e questi divisi in Circoli, ognuno de' quali presieduto da uno de' più forti nostri campioni.

Carlo Poma veniva a ciò destinato. Scopertasi la congiura e per la colpevole debolezza di alcuni anche il nome de' compromessi, si passò tosto agli arresti.

Era una notte buia, buia, e Carlo immerso in profondo sonno, sognava di rivedere la madre, che tornar doveva col nuovo giorno dalla campagna.

Fra il terrore della desolata famiglia, veniva strappato dalle braccia de' fratelli e condotto alle prigioni della Mainolda, da cui poscia al castello di S. Giorgio. E là rinchiuso in umida stanzaccia, dalle mura insudiciate, il soffitto a vôlta, ove la curva incominciava dal pavimento a fare di quell' antro un vero soggiorno di morte!

Soli arredi, un duro pagliericcio, due olle una per l' acqua, l' altra per le immondizie. A sei ore del mattino vi entravano due soldati con un secondino, slucchettavano la finestruola togliendone per pochi istanti le impannate. Il prigioniero, impedito dalle catene di sollevarsi da solo, si faceva da essi prestare aiuto, e correva a bevere da quell' abbaino qualche boccata d' aria, di cui sentiva irrefrenabile il bisogno. Sparite le guardie, rimaneva là solitario per ore e ore, a misurare il tempo che lo avvicinava all' eterno! …

La madre di Carlo, all' improvviso annunzio della carcerazione del figlio, non mandò pure un lamento, perchè le spie dei carnefici non si pascessero delle lagrime materne.

Nel segreto però della vedova stanza, schiacciata, i giorni e le notti, sotto un pensiero unico, desolante, non ebbe più momento di pace! … Dal suo cuore stillava sangue, ma ella trovava pur nondimeno parole di speranza per il suo prigioniero! E che non immaginava a confortarne la solitudine? …

Le quante sere, fratelli e amici passavano e ripassavano sotto le cupe vôlte di quel suo carcere, facendo penetrare alle sue orecchie le sospirose lor voci!

E beata più ancora quella relitta se ascoso fra le pieghe di qualche veste al prigioniero concessa, poteva fargli giungere un solo fiore! …

Era poi una festa per tanti cori, se per ingegnosi ritrovati del chimico carcerato, egli riusciva a imprimere su di una camicia riportata alla famiglia, i suoi confidenti caratteri, sfuggiti a profano sguardo. E queste preziose memorie, gelosamente custodite dall' amor de' parenti, con altre de' compagni sagrificati, sono ora glorioso retaggio di tutto un popolo!

Come onda incalzata dall' onda, pensieri e affetti del condannato si combattono entro il suo cuore, e ne fanno strazio. La terra e il cielo, il mortale e l' eterno, tutto a un punto gli si affaccia! …

Se a chi versa in pericolo della vita, pur confortato dalla speranza che mai non abbandona, è doloroso il morire, che non sarà mai di chi nella pienezza della vigoria, vede avvicinarsi ineluttabile l' ora suprema? E questa non confortata dal sorriso d' amici volti, ma fatta più cruda dal ceffo rude del carnefice! …

Quando tutti aspettavano la grazia sovrana, fatta sperare ai prigionieri politici, ecco piombare come folgore sentenza di morte su vile patibolo, a Carlo Poma e quattro compagni suoi. Invano nobili matrone si portano in Verona ai piedi di Radeschi, e ne tornano sconosolate!

Chè la settantenne madre del Poma, affranta più che dagli anni dai patimenti, nel più crudo di un rigido verno, vuole trascinarsi a Vienna ai piedi dell' augusta Regnante, che pur essa è madre, a implorare dalla sua intercessione la vita del figlio! …

Ahi, non sapeva la misera che i despoti non hanno un cuore!

Giunta a Trieste, le si ingiunge di rifar la sua via, e quando a Mantova ella ritorna … non trova più che un cadavere! …

E il derelitto figlio, ottenuto di rivedere i suoi cari, non vide fra essi la madre, ch' era in cima dei suoi pensieri, il sogno delle sue notti, il sospiro de' numerati suoi giorni! … Lei sempre chiamava, e benedicimi diceva, che io voglio morire di te degno!

Tu con l' esempio e col precetto mi inspirasti la religione del dovere, la carità per gl' infelici, l' amor del lavoro, e tutto il poco che io sono, a te sola lo debbo! Tu fosti sempre un libro aperto per i figli tuoi, che furono le sole tue gioie, e ahi me misero, che con la mia morte ne fo' il tuo martirio!

Perdono, o madre, chè se io volli far libera l' Italia a prezzo della mia vita, non macchiai le mie mani dell' altrui sangue, ma come meglio seppi, salvai da morte il mio stesso nemico!

Carlo, era di que' forti caratteri che col sagrificio di loro medesimi, cercavano educare il popolo alla virtù. Voleva la concordia degli animi, che sola dar poteva alle moltitudini quella forza morale, a cui nessun despota saprebbe resistere. Confidava sopratutto nel progredire dell' idea, che qual fiume giù giù scende, e a poco a poco s' ingrossa, finchè supera ogni argine, e tutto trascina nel vorticoso suo corso.

Rammentava i primi albòri di libertà, il 21, 31, 48. Vedeva gli antesignani del nostro politico risorgimento, andar carponi fra le tenebre, poi a capo chino e finalmente sollevare le fiere teste alle forche di Belfiore!

Da ciò intravedeva non lontana la libertà e l' unione d' Italia, sotto un Re italiano!

Tradotto, dopo la condanna, dal Castello di S. Giorgio al Confortatorio di S. Teresa, chiese di un amico sacerdote, che gli fosse a canto nel duro passo. A questo pietoso confidò tutto sè stesso, e l' ultimo bacio per la pia genitrice che andrebbe a precedere in paradiso!

Quel giorno e molti altri appresso, furon giorni di italiano lutto! I cittadini di Mantova, scontrandosi per via, si salutavano con un sospiro.

Un tristissimo caso rese più straziante il transito dei cinque, dal Confortatorio di S. Teresa a Belfiore. Fatalmente la casa dei Poma era posta in contrada larga, a cui il funebre corteo passar doveva vicino Da una finestra spalancata si udì un orribile grido: era di una sorella del Poma, a cui fino a quel giorno si era lasciato sperare nella grazia sovrana!

Alla nota voce, Carlo abbrividì, venne meno! … Ma un de' compagni gli susurrò all' orecchio che tutta Italia era a' suoi martiri intenta, e tornò nel martire la virtù sopita!

Nè più il commossero, il rullar de' tamburi, le stridule voci delle guardie, nè quella dell' auditore che sotto le forche rilesse la sentenza di morte.

Carlo Poma, fu dalla sorte destinato a essere l' ultima vittima, e così quest' anima pietosa agonizzò non una, ma cinque volte. Le sue estreme parole furono: Signore, vi raccomando la madre e la patria mia!

--E la madre? …

Il suo immenso cordoglio, compresso al di dentro, scavò più profondo un abisso in quel delicato suo cuore. Visse anni di una vita peggior che morte! Si strusse invano nell' ansia brama di portare lagrime e fiori sul cenere del figlio! Nel suo dolore senza speranza, invidiava alle molte madri, meno di lei sventurate, cui ogni giorno novello avvicinava all' istante di veder libero il prigioniero! …

Insopportabili le divennero que' luoghi testimonî delle sue gioie materne, e che echeggiare or parevano dei gemiti del figlio suo! Si ritrasse a vivere in un suo recinto, nel silenzio de' campi, ove sfogare lontana da umano sguardo la piena del materno dolore!

Il 15 giugno 1863, stanca dell' umano patire, volò al suo martire in cielo!

--Deh, che le inenarrabili angoscie di tante itale madri, non tornino infeconde a questa patria con tanto sangue redenta, e risollevando lo sguardo alle forche di Belfiore, duri virtuosa e forte, sotto lo scettro del magnanimo Re italiano, all' ombra della gran Croce Sabauda!

 
 
 

Tito Speri di Brescia

"I martiri di Belfiore: letture patriottiche per giovinetti italiani" è il titolo di un libro pubblicato nel 1900 (G. Franchini, Verona), scritto da Francesca Zambusi Dal Lago, nata nel 1827, morta in data imprecisata. Il libro è composto da vari episodi che narrano le vicende tragiche di altrettanti patrioti. Ho trovato molto bello l'episodio relativo a Tito Speri, che esalta sentimenti ormai sconosciuti.

"Biondo era e bello e di gentile aspetto."

Brescia, la nobile e generosa Brescia, posta alle falde di un colle ameno, e il cui territorio bagnato da più fiumi è fertilissimo, fu sempre terra di sensi patriottici, e l' anno 1849 con la forte sua resistenza, sostenne l' onore della causa italiana, avvilita dalla fatale caduta di Novara. In tanto sorriso di cielo, da non ricchi ma onoratissimi parenti, nacque Tito l' agosto del 1825. Morto a lui il padre mentre era ancor giovinetto, rimase alle cure della vedova madre, che a sopperire agli scarsi suoi economici mezzi, raddoppiò di zelo, e con l' assiduo lavoro delle sue mani potè educare il figlio ne' belli studi, a cui fin da fanciullo si mostrava inclinato. Oh, è ben vero che sulle ginocchia materne si formano gli eroi; e così Tito all' esempio della pia madre, donna di generoso sentire, crebbe in virtù e in senno, e divenne giovane ancora, l' idolo de' suoi concittadini e di quanti lo conoscevano. D' indole nobilissima, di cuore aperto, di umore il più lieto, facile della parola, aveva fibra delicata ma energica, animo cavalleresco, mediocre statura, bruno il colorito, alta la fronte, neri e scintillanti gli occhi, biondi i capelli, rara la barba al mento. Era pur forte del braccio, agilissimo delle membra, e gentile ne' spigliati suoi modi, vero tipo bresciano Lo svegliato ingegno gli traluceva de tutta la persona.

Nel 1848 subito dopo le famose cinque giornate di Milano, corse ad arrolarsi nella guardia cittadina, e combattè di poi nella Compagnia dei giovani lombardi. L' anno 1849 dopo le sventure di Novara, si fe' l' anima degli insorti Bresciani, e in quelle gloriose dieci giornate di rivoluzione di un popolo, che altamente sentiva l' offeso onore italiano, egli pareva convertito in un antico eroe, mentre guidava i suoi alla difesa, impedendo loro ogni atto men che generoso contro il nemico. Ma quando vide inutile, anzi dannosa ogni ulteriore resistenza, fu lui stesso a inalzare bandiere bianca, gridando: Entrate, ma non per amore, per forza! …

Caduta Brescia, molti de' suoi emigrarono, ma non però Tito, perchè ci aveva la madre! … Fu ella medesima che in nome dell' estinto padre glielo impose, quando s' accorse che il rimanere poteva essergli fatale. Andò Tito prima nella Svizzera, e poi a Torino ove venne adoperato nella pubblica istruzione. Passato qualche tempo non seppe resistere al desiderio di rivedere la madre, e fidan do anche forse nell' amnistia promessa dall' Austria, tornò in patria, ove l' improvviso ritorno fe' sospettare ai malevoli della sua fede politica. Le ingiuriose insinuazioni furono schianto a quell' anima d' eroe, che dolente di non poter nulla operare a prò della patria, si chiuse nei geniali suoi studì e diede fuori poesie, drammi, romanzi, preparando inoltre documenti per una storia d' Italia dell' ultimo secolo.

Ma la sospettosa polizia austriaca, che avversava gli ingegni svegliati, da cui vedeva sorgere i debellatori del suo dispotismo, nol perdè mai d' occhio, e dopo fatti parecchi arresti, la sera del 26 giugno 1852, mentre Tito era fuori della propria casa lo fece prigione, senza pur concedergli di dare un addio alla madre sua! Amici pietosi ne portarono alla poveretta il desolante annunzio, e ella ebbe a dire: il core me lo presagiva! … oh, potessi almeno vegliare al suo capezzale, giacchè egli da qualche giorno è febbricitante! … Poi nel terrore di una perquisizione, abbruciò le carte del suo Tito, privando forse la patria letteratura di pagine preziose. Ma chi non l' avrebbe fatto? Il prigioniero aveva infatti la febbre, e ciò nondimeno venne tradotto la stessa notte nel luttuoso castello di Mantova. Al passare, egli disse, sotto la orribile vôlta, al salire di quelle eterne scale, sulla soglia della porta fatale che si rinchiuse dietro i miei passi, allo stridore dei duri catenacci, fra quelle sentinelle del colore di morte, all' essere spogliato di tutto il mio, e là solo, senza più un sorriso di volto amico, non credetti di poter sopravvivere.

E--madre, madre--gridava nel delirio della febbre: Madre ove sei che non soccorri il tuo povero figlio? … Gettato su duro pagliericcio, schifoso per molti insetti, il male di Tito si andò aggravando e fe' temere della sua vita. Fu allora che un pietoso sacerdote ottenne di apprestargli un buon letto, beneficio che non dimenticò più mai! Passati però quei primi giorni d' infermità e di morale abbattimento, come il leone che scuote la chioma e torna ardito, il prigioniero forte della propria intemerata coscienza, ridivenne tranquillo, anzi gioviale, e si fe' l' amore di quanti l' avvicinavano.

Fra le torture del duro carcere, trovava parole di conforto per la desolata sua genitrice, e nelle amorose lettere le insinuava di confidare nella sua innocenza, proibendole di scendere a preghiere con l' inimico per la sua salvezza. Dopo lunghi giorni di terrori e di speranze, ad arte alimentate dall' oppressore per tener calme le popolazioni, improvvisamente si pronunciò sentenza di morte su vile patibolo, contro il conte Carlo Montanari di Verona, il parroco Grazioli del Bergamasco, e Tito Speri di Brescia! I primi momenti dopo la condanna sono i più terribili per i condannati! Come in una visione loro si affacciano le gioie della famiglia, i baci materni, le speranze dei primi anni, le angoscie del distacco, lo strazio dell' ultimo irrevocabile addio!

… La lugubre cella di Tito invece parve da quel giorno convertita in un asilo di pace.--Guai--egli diceva, all' uomo senza fede! egli non compirà giammai opera generosa, perchè solo il pensiero di una vita futura può fare gli eroi! … E quanto più si avvicinava l' ora dell' estremo supplizio, più si ingigantiva il suo coraggio, e pareva cittadino men della terra che del cielo! Dal ferreo Castello di S. Giorgio venne con gli altri condannati tradotto nella lugubre stanza di Santa Teresa, e di là alla valle dolorosa di Belfiore!

Giunta l' ora di morte, si vestì Tito come a festa, e sereno in volto, gentile negli atti, seguì i due compagni sul palco, non del disonore ma della gloria. Quando i tre eroi apparvero sui carri de' condannati, le accorse genti ammutolirono, e piegando il ginocchio dinanzi ad essi, altamente li riconobbero per i loro salvatori! A Belfiore si scambiarono, il Montanari, il Grazioli e lo Speri, un pietoso fraterno sguardo, e questo chiese in grazia di essere appiccato l' ultimo, per risparmiare ai compagni la lunga agonia.

Subito dopo lo strazio di veder cadere dalle forche le mutilate spoglie de' due martiri cari, si tolse il fazzoletto dal collo e lo consegnò al fido sacerdote che gli stava a lato, pregando di darlo per sua memoria all' ingegnere Cavaletto, con cui aveva nel carcere stretta la più cordiale amicizia. Indi pose il collo sotto il capestro, e al rude tocco di quello la sua fronte allibbì, ma non il suo coraggio che non venne mai meno. Come gli uomini, i celesti per l' orrore si copersero il volto!

Oh, se que' tanti che oggi cangiano la libertà in licenza insegnando al popolo di calpestare ogni freno, per tutto sagrificare alle proprie disordinate passioni, pensassero alle migliaia di vittime per noi immolate, oh no, che non si farebbero carnefici di una patria, con tanto sangue redenta! Si cessi una buona volta di tutto promettere alle accecate moltitudini per nulla poi mantenere. Non si incoronino di falsi diritti, ma loro s' insegni a osservare i propri doveri. Pongasi un argine alle irrompenti maree che minacciano straripare dagli argini crollanti di una società corrotta e corruttrice.

Poveri e ricchi, siam tutti fratelli; doni a larga mano il ricco parte dei cumulati tesori; lavori il povero, chè nel lavoro è la vera felicità, e un vincolo d' amore indissolubile stringa le genti della libera Italia!

 
 
 

A Benedetto Varchi (Sonetti)

Post n°563 pubblicato il 26 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

XXVII.
A Benedetto Varchi

Varchi, da cui giammai non si scompagna
il coro de le Muse, e ch'a l'affanno
com'a la gioia, a l'util com'al danno,
sempre avete virtù fida compagna;

qual monte, o valle, o riviera, o campagna,
non sarìa a voi più che dorato scanno:
se come fumo innanzi a lei sen vanno
gli umani affetti, ond'altri più si lagna?

O perché errar a me così non lice
con voi pe' i boschi, com'ho 'l core acceso,
de l'onorate vostre fide scorte?

Ch'avendo ogni pensiero al cielo inteso,
vivendo viverei vita felice,
e morta sperarei vincer la morte.



XXVIII.
Allo stesso

Varchi, il cui raro e immortal valore,
ogni anima gentil subito invoglia,
deh! perché non poss'io, com'ho la voglia,
del vostro alto saver colmarmi il core?

che con tal guida so ch'uscirei fore,
de le man di fortuna, che mi spoglia
d'ogni usato conforto: e ogni mia doglia
cangerei in dolce canto, e 'n miglior ore.

Ahi! lassa, io veggio ben che la mia sorte
contrasta a così onesto e bel desire,
sol perché manch'io sotto l'aspre some.

Ma s'a me pur così convien finire,
la penna vostra almen, levi il mio nome
fuor degli artigli d'importuna morte.



XXIX.
Allo stesso

Quel che 'l mondo d'invidia empie e di duolo,
quel che sol di virtute è ricco e adorno,
quel che col suo splendor un lieto giorno
chiaro ne mostra a l'uno e all'altro polo:

quel sete Varchi voi, quel voi che solo,
fate col valor vostro oltraggio e scorno
a i più lontan, non ch'al vicin d'intorno;
ond'io v'ammiro, riverisco e colo.

E di voi canterei mentre ch'io vivo,
s'al gran soggetto il mio debile stile,
giunger potesse di gran spazio almeno.

O pur non fosse a voi noioso e schivo
questo mio dire, scemo e troppo umile;
che per voi renderassi altero e pieno.



XXX.
Allo stesso

Se 'l ciel sempre sereno e verdi i prati,
sieno al bel gregge tuo, dolce pastore
vero d'Arcadia e di Toscana onore,
più chiaro fra i più chiari e più pregiati;

se tanto in tuo favor girino i fati,
che mai tor non ti possa il dato core
Filli, né tu a lei tuo santo amore,
onde vi gridi ogni uom saggi e beati:

dinne, caro Damon, s'alma sì vile
e sì cruda esser può, ch'essendo amata
renda invece d'amor tormenti e morte.

Ch'io temo (lassa) se 'l tuo dotto stile
non mi leva il dubbiar, d'esser pagata
di tal mercede, sì dura è mia sorte.



XXXI.
Allo stesso

Dopo importuna pioggia
s'allegrano i pastor, quando 'l sereno
ciel si discopre lor di stelle pieno;

e dopo 'l corso de l'instabil luna,
ne l'apparir del sole,
gioisce ogni animal che brama il giorno;

e l'alto Dio lodar ben spesso suole,
dopo l'aspra fortuna,
spaventato nocchier al porto intorno;

e 'l Varchi è al suo ritorno
seren, sol, porto: e chi ha d'onor disìo,
si rallegra, gioisce e loda Iddio.

I primi 21 sonetti de "Le Rime di Tullia d'Aragona" sono reperibili sul blog Bibliofilo Arcano, in vari post sotto il tag Tullia d'Aragona. In questo blog sono stati pubblicati altri cinque suoi sonetti

 
 
 

Ad Ugolino Martelli

Post n°562 pubblicato il 26 Ottobre 2014 da valerio.sampieri
 

I quattro seguenti Sonetti di Tullia d'Aragona sono dedicati ad Ugolino Martelli.

XXIII.
Ad Ugolino Martelli

Mentre ch'al suon de i dotti ornati versi,
fate d'Arno suonar l'ampie contrade,
cantando insieme a più ch'ad una etade
con le virtù, ch'a voi sì amiche fersi,

a me, caro Martel, sono tanto avversi
i fati, ch'ogni ben dal cor mi cade:
e per occulte, solitarie strade,
vo' lagrimando il dì che gli occhi apersi.

Tal che del pianto mio, del mio languire,
languisce e piagne ogni sterpo e ogni sasso,
e le fiere e gli augelli in ogni parte.

Voi mentre affligge me l'empio martire,
deh! consolate lo mio spirto lasso,
così vostre eterne e onorate carte.



XXIV.
Allo stesso

Più volte, Ugolin mio, mossi il pensiero
per risonar con la zampogna mia,
vostra rara virtute e cortesia,
poggiando al ciel col bel suggetto altero.

Ma, lassa, invan m'affanno (o destin fero)
che roco è 'l suono, e la mia sorte ria,
sì dietro a i miei dolor tutta m'invia,
che levarmi da terra, unqua non spero.

Cantino altri di voi tanti pastori,
che pascon le lor gregge a l'Arno intorno,
a cui le Muse, a cui fortuna è amica;

io s'unqua al mio felice stato torno,
non pur non tacerò miei santi ardori,
ma voi sarete mia maggior fatica.



XXV.
Allo stesso

Ho più volte, Signor, fatto pensiero
di risonar con la zampogna mia,
di te il valor e l'alta cortesia,
salendo al ciel presso al soggetto altiero.

Ma, lassa, invan m'affanno, o destin fiero,
che roco è 'l suono, e mia fortuna rìa,
sì dietro a miei dolor tutta m'invia,
che levarmi di terra indarno spero.

Cantin di te tanti gentil pastori,
che pascon le lor greggie al Po d'intorno,
a cui le Muse, a cui fortuna è amica:

forse il mio Mopso ancor, fatto ritorno,
farà sentir non pur suoi bassi amori,
ma tu sarai la sua maggior fatica.



XXVI.
Allo stesso

Ben sono in me d'ogni virtute accese
le voglie tutte, e gli spirti alto intenti;
ma 'l poter e l'oprar sì freddi e spenti,
ch'io mi veggo aver l'ore indarno spese.

Onde non lodi no, ma gravi offese
mi son le rime vostre, e però tenti
vostr'alto stil, fra tante e sì eccellenti,
mille di lui cantar più degne imprese.

Ben può celar il ver finta bugia,
a qualche tempo, o 'n qualche loco, o parte:
ma non sì ch'ei non vinca, e 'n sella stia,

dunque per più secura e corta via,
rivolgete, Ugolin, tanta vostra arte,
ch'in altrui molto, in me poco sarìa.

Tullia d'Aragona
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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