Non canto i cavalier, l’armi, gli onori,
come un dì fece il grande Ludovico.
Le guerre infami, i sanguinanti allori;
di tutto questo non mi importa un fico.
Ma i lavoranti, l’ape, i campi, i fiori;
le cose grandi solamente, dico.
(Morbello Vergari)
Probabile portatrice di geni etruschi.......vediamo se la passione è contagiosa
e sono graditi pure interventi, puntualizzazioni e domande e mi raccomando di non essere troppo duri con me per eventuali strafalcioni...sono solo una dilettante!
molte immagini sono state prese da internet, se i proprietari non fossero d'accordo lo facciano presente e saranno tempestivamente rimosse
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IL BLOG DI RIEVOCAZIONE ETRUSCA
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Messaggi di Aprile 2008
Post n°62 pubblicato il 30 Aprile 2008 da zoeal
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GLI ETRUSCHI DI FRONTIERA : FELSINA (BOLOGNA) prima parte Secondo Tito Livio, gli Etruschi realizzarono una confederazione di dodici città nella pianura padana. All'interno di questa confederazione, Velzna, (ma si attribuisce lo stesso nome a Bolsena e a Orvieto), latinizzato Felsina, era considerata la città più importante, tanto che già gli Antichi le riconoscevano il ruolo di "capitale" dell'Etruria padana. Attraverso la documentazione archeologica è possibile ricostruire in modo preciso e circostanziato tutte le principali fasi della città in epoca etrusca. A partire dal IX Secolo a. C., a Bologna, come pure in tutte le principali città storiche dell'Etruria tirrenica, compare e si afferma la cultura "villanoviana" (da Villanova di Castenaso, Bologna, dove sono stati effettuati i primi ritrovamenti archeologici, sotto l'impulso di Giovanni Gozzadini). Da quella data si assiste ad un significativo sviluppo demografico.
A settentrione il limite dell'abitato è individuabile grazie alla posizione delle sepolture, tutte situate per lo più all'esterno di esso. Corrispondeva grosso modo a via Riva di Reno, via Falegnami e via Augusto Righi. Verso sud l'abitato si spingeva sicuramente fino alle prime propaggini collinari, non oltre Villa Cassarini (attuale Facoltà di Ingegneria) a sud della quale la ripida propaggine collinare era sfavorevole all'insediamento. All'interno di tale area non sono state rinvenute sepolture, disposte invece attorno all'abitato. Il tessuto insediativo era costituito da abitazioni singole o al massimo da piccoli gruppi di abitazioni, disposte in modo sparso. Attorno a queste piccole cellule insediative erano previsti ampi spazi liberi per l'agricoltura e per le attività ad essa collegate, come la trasformazione e la lavorazione dei prodotti. Accanto alle abitazioni sono ben documentate anche alcune strutture produttive, con particolare riguardo alla metallurgia del bronzo. A partire dalla metà del VI Secolo si registra una radicale trasformazione dell'assetto politico ed economico degli Etruschi nella valle del Po, con conseguente modifica della struttura proto-urbana e dell'organizzazione territoriale di Felsina, anche a seguito di importanti mutamenti nel quadro storico internazionale. Una riattivata conflittualità fra Etruschi, Greci e Cartaginesi, che nell'alto Tirreno non si limitò alla concorrenza commerciale, ma sfociò in alcuni scontri navali, fece perdere progressivamente agli Etruschi il loro incontrastato dominio su quel mare. Ed è in questo quadro storico che va collocata la definitiva trasformazione in senso urbano di Felsina, con un processo attraverso il quale il centro proto-urbano venne "rifondato" come città. Si tratta di una trasformazione molto importante, che però non trova ancora adeguate conferme nella documentazione archeologica. Le testimonianze relative all'abitato sono poche, al punto tale da pregiudicarne una precisa identificazione, ma ciò dipende dal fatto che la maggior parte di esse sono andate distrutte per la continuità abitativa dell'insediamento fino ai nostri giorni. La civiltà etrusca di Bologna presenta uno sviluppo coerente dal IX alla metà del IV secolo a.C. che possiamo suddividere nelle seguenti fasi, corrispondenti a diversi momenti culturali: fase villanoviana, fase orientalizzante, fase tipo Certosa. FASE VILLANOVIANA A partire dal IX secolo a.C. si sviluppa in Toscana, nel Lazio a nord del Tevere e in Emilia la cultura villanoviana, oggi riconosciuta come la più antica fase della civiltà etrusca. Il termine villanoviano deriva dalla località di Villanova, a pochi chilometri da Bologna, dove, nel 1853, avvennero i primi rinvenimenti attribuiti a questa fase. La documentazione archeologica di Bologna rivela che le prime manifestazioni della cultura villanoviana a nord dell'Appennino risalgono all'inizio del IX secolo a. C.. Il popolamento, che si manifestò quasi improvvisamente, fu determinato almeno in parte da un iniziale trasferimento dall'Etruria tirrenica di gruppi etruschi interessati alle fertili terre della Pianura Padana. I due grandi centri di cultura villanoviana sono Bologna e Verucchio. Bologna si pose al controllo di un vasto territorio disseminato di piccoli insediamenti rurali collegati al capoluogo e assunse un'importante funzione mediatrice fra l'area tirrenica e l'Italia settentrionale. La cultura villanoviana a Bologna è documentata attraverso due categorie di materiali: molto scarsi quelli provenienti dall'abitato, imponenti per quantità e qualità quelli dai sepolcreti, mentre una testimonianza eccezionale dell'attività metallurgica del centro villanoviano è rappresentata dal Ripostiglio di San Francesco. Se scarse e frammentarie sono le testimonianze dell'abitato, i sepolcreti offrono, invece, la possibilità di cogliere gli aspetti particolari e i modi di sviluppo della società, attraverso l'analisi di migliaia di corredi che accompagnavano i defunti. I sepolcreti si trovavano all'esterno degli abitati, disposti quasi a ventaglio: i più estesi erano situati nella zona orientale, fuori Porta San Vitale (sepolcreti di San Vitale e Savena) e occidentale, fuori Porta S. Isaia. Essi sono generalmente indicati con il nome del proprietario del fondo agricolo nel quale si rinvennero: Benacci , Benacci-Caprara, De Luca, Nanni, Guglielmini, Romagnoli, Melenzani e Cortesi; Stradello della Certosa, Arnoaldi e Aureli. Un altro sepolcreto di estendeva a sud nell'area dell'Arsenale Militare. ABITATO E SEPOLCRETI DELLA FASE VILLANOVIANA I materiali archeologici relativi all'abitato sono piuttosto scarsi poiché la continuità abitativa caratteristica di Bologna ha contribuito a cancellare gran parte delle tracce precedenti; a ciò si aggiunga che i materiali utilizzati per la costruzione delle capanne della fase villanoviana, cioè il legno e l'argilla, sono di natura estremamente deperibile. Bologna di fase villanoviana era probabilmente costituita da più villaggi di capanne, non molto distanti tra loro, che occupavano un'area di circa 300 ettari, ubicata nella zona dell'attuale centro storico, soprattutto Via del Pratello, Piazza S. Francesco, Via d'Azeglio e Piazza San Domenico. La capanna villanoviana era generalmente a pianta circolare o ellittica, con tetto spiovente, con pareti in legno e argilla, su cui si aprivano finestre, simile all'immagine riportata sulla stele funeraria rinvenuta nelle necropoli di San Vitale. Delle circa 500 capanne, scavate alla fine del secolo scorso, possediamo un accurato rilievo dei pavimenti con le buche dei pali che sostenevano l'alzato. Da questa area provengono una modesta quantità di materiali in terracotta, osso e bronzo: vasellame comune, alari, attrezzi da lavoro, fibule, resti faunistici. A dir la verità, i pareri degli studiosi sulla discendenza etrusca dai villanoviani sono discordanti (e te pareva!), secondo alcuni, infatti la civiltà villanoviana sarebbe una civiltà italica antecedente all'arrivo degli Etruschi e che forse, si fuse con essi. tratto da: http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Etruschi/Bologna.html
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L'EDIFICAZIONE DEI TEMPLI ETRUSCHI (2) di Piero Pecoraro continua dal post n.55 (La chiesa di San Giovanni Evangelista ad Orvieto, è stata edificata su un tempio etrusco) Cenni di astronomia etrusca Un antico ricercatore latino Nigidio Figulo ci ha lasciato la traduzione di un testo sacrale etrusco del V secolo a.C., dove si parla della loro complicata cosmogonia. Il loro universo vedeva al vertice Giove, con il senato degli dei, il firmamento era sostenuto da dodici esseri divini che governavano i segni dello Zodiaco, e da sette divinità corrispondenti ai pianeti del sistema solare. All’ultimo posto si collocavano gli dei destinati alle sedici zone del cielo. Com’è possibile leggere in quest’antico scritto, queste zone del cielo, avevano il primo quarto comprendente il nord e il punto di levata del sole equinoziale. Il secondo quarto, invece comprendeva il punto sud ( mezzodì), il terzo il punto di calata o tramonto equinoziale del Sole, il quarto,era collocato tra il punto dell’orizzonte compreso tra il punto ovest e il punto nord. La suddivisione però ancora continuava, e chi si metteva con la faccia verso il sud, aveva la parte sinistra dell’orizzonte (levante o est) suddivisa in otto piccoli settori ( quattro a nord/est e quattro a sud/est), e la parte destra (ponente o ovest) all’opposto ( quattro a sud/ovest e quattro a nord/ovest). Da questa minuziosa e attenta suddivisione del cielo, si evince tutta la scienza astronomica antica, per certi versi simile alla suddivisione dell’universo che elaborarono gli Assiri. Eppure quello che ci stupisce è che gli etruschi non furono in grado di stilare un calendario scritto. Infatti, fin dalle origini, il computo del tempo fu basato sull’osservazione del sorgere e il tramontare della Luna, in seguito di quello dell’astro del giorno. Veniva impiegata come unità di misura del tempo il mese e il giorno computati in base all’osservazione diurna. I latini, nei tempi antichi, prima che i calendari venissero scritti , si affidavano alle conoscenze del Pontifex Minor, che aveva l’incarico, di constastare l’apparizione della prima Luna nuova, per poter determinare quanti giorni mancavano alle Nonae, oppure alle Idi, o alle Kalendae. Era lo stesso modo usato dall’uomo del Cro Magnon, che usava incidere segni sulle ossa degli animali uccisi per sfamarsi, per misurare le varie lunazioni. Gli Etruschi adottarono un sistema più evoluto, conficcando chiodi sui muri dei loro templi, per scandire lo scorrere del tempo. Sistema che dava loro un senso di sicurezza, quasi a cristallizzare quello strano e inesprimibile flusso d’istanti che è il tempo. Dunque il tempio era per loro un asse di rotazione delle attività umane, che scandiva il trasformarsi delle cose, su cui si computavano con estrema esattezza le osservazioni astronomiche. Come ben sappiamo, e come da subito capirono i nostri antenati, l’osservazione dell’astro del giorno e di quello della notte, non pone eccessivi problemi per seguirne l’evoluzione nel tempo. Cosa ben più difficoltosa è invece seguire le costellazioni, che necessitano dell’individuazione di un punto sull’orizzonte che permetta di ritrovare ogni notte nel cielo la posizione osservata il giorno precedente. Una cosa che sappiamo per certo, poiché si usava ancora in epoca romana, e che i sacerdoti, al sorgere della costellazione del Cane Maggiore (vedi anche gli egiziani e il culto del Cane Maggiore e di Sirio) con Sirio che ne è la stella più brillante, davano inizio al periodo della “Robigalia” che era un rito atto a scongiurare un fungo parassita del frumento (La Ruggine), che vedeva come atto centrale l’uccisione di un cane. La povera bestia era scelta fra le tante che si trovavano nei pressi della città. Tutto ciò era in accordo con le leggi magiche dell’analogia e della corrispondenza tra simili, perciò uccidendo un cane qualsiasi era possibile allontanarne gli influssi nefasti di quello irraggiungibile che si vedeva in cielo, causa di tutti i mali sulla terra. Vediamo di identificare quali erano i punti del tempio da cui i sacerdoti effettuavano le loro osservazioni astronomiche, per determinare queste ricorrenze e degli strumenti di cui si servivano per queste osservazioni. Cominciamo con l’analizzare il termine tempio o templum latino.Vediamo che sono molteplici le etimologie di questa parola. Per alcuni autori era da considerarsi sintesi armoniosa tra quelli che erano i tre mondi o dimensioni dell’uomo nell’esistenza; la natura, la divinazione, l’analogia. Il mondo della natura era lo sguardo proteso verso l’universo (cielo), il divinare, quello rivolto alla terra e alla realtà circostante, l’analogia, il sottosuolo (l’oscuro e il buio). Per altri, invece, tempio, riponeva il suo significato nell’etimologia Tueri, cioè contemplare, osservare. Ma secondo studiosi più vicini a noi, il termine in questione deriva da Temenos che era il sacro recinto, oppure da Temno, tagliare, ma anche ferire. Questa multiforme analisi semantica indica in ultima istanza l’attività olistica del sacerdote, che senza soluzione di continuità, osservava il cielo, e contemporaneamente cercava nella realtà circostante ( nelle interiora degli animali), corrispondenze e risposte ai quesiti e ai misteri della vita. Quest’attività era basata sul principio Ermetico “ Tutto ciò che è in alto è come tutto ciò che è in basso, e tutto ciò che è in basso è come tutto ciò che è in alto. E questo per realizzare il miracolo di una cosa sola, da cui derivano tutte le cose, grazie a un’operazione sempre uguale a se stessa ”. Questo è uno dei principi immortalati nella celebre “ Tavola di Smeraldo” di Ermete Trismegisto (il tre volte grande). In ogni caso siamo ben lontani dall’affermare che il Tempio etrusco potesse essere una sorta d’osservatorio astronomico o meridiana solare od orologio lunare. Il sacerdote quando si apprestava all’osservazione del cielo, dove si collocava all’interno del tempio? Quali strumenti usava, se li usava ? Una cosa che sappiamo, era che il tempio veniva costruito in legno, e sicuramente non era molto grande. Lo spazio interno era modulato in tre piccole stanze, sormontate da un caratteristico tetto a due spioventi corredati da Antefisse. ( l’Antefissa era un ornamento marmoreo o di terracotta, di derivazione greca, che veniva posta alla sommità del tetto per fissare le tegole). In prossimità del tempio veniva comunque costruito un basamento (piattaforma)di piccole dimensioni e di semplice e scarna manifattura. Si pensa che la funzione potesse essere quella di ospitare un altare per le varie funzioni e cerimonie, oppure un punto rialzato per l’osservazione del cielo. Comunque si può affermare che all’interno di queste costruzioni, che risultano essere piccole per essere considerate templi veri e propri, o troppo grandi per essere altari, venivano svolte con grande amore e pazienza osservazioni astronomiche, con l’utilizzo di strumenti molto semplici. Uno di questi potrebbe essere stato il Lituus, il bastone del potere, che era utilizzato dall’Aruspice. Questo bastone lo ritroviamo effigiato su molti vasi etruschi ed era associato ad Ermete Trismegisto, che tra l’atro era considerato il Dio della scienza divinatoria. E’ interessante notare come il lituus in seguito si sia trasformato nel Caduceo romano. Questo bastone del potere, aveva costruiti sulla sua punta un disco solare e una mezzaluna, indubbiamente i simboli del sole e della luna. Il caduceo ai nostri giorni è diventato il simbolo della moderna scienza medica. Qualcuno sostiene che fosse utilizzato a mò di bussola, ma forse più realisticamente lo possiamo considerare uno strumento di collimazione, usato in connessione ad una tavola Pelasgica, o Pinace, che era uno strumento a forma di disco, orientabile, su cui erano disegnati il quadrante dei venti (rosa dei venti), nonché i punti cardinali con i dati del sorgere e tramontare della luna e d’alcune stelle. Da tutto questo si deduce che gli Etruschi molto probabilmente conoscevano alcuni strumenti astronomici o topografici, quali l’alidada verticale, che possiamo considerare il precursore del nostro teodolite. Queste conoscenze gli venivano dal fatto che fu un popolo di esperti navigatori e abili commercianti, che erano in continuo contatto con tutti gli altri popoli del mediterraneo, per cui in patria non riportavano solo spezie e sete preziose ma anche nozioni scientifiche ed astronomiche molto avanzate. Ciò produsse una casta sacerdotale molto colta, che fu apprezzata anche dagli antichi romani, che li utilizzarono fino alla fine dell’impero.
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Post n°56 pubblicato il 23 Aprile 2008 da zoeal
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L’edificazione dei templi etruschi (1) Riti per la fondazione del tempio etrusco tra superstizione e calcolo astronomico. di Piero Pecoraro L’archeoastronomia, scienza nata nel secolo diciannovesimo, è la sintesi armoniosa tra le due discipline più affascinanti e cariche di domande per l’uomo: l’astronomia e l’archeologia Furono alcuni aerei che sorvolavano la pianura desertica del Perù (Pampa di Palpa) nell’anno 1939, che notarono sul suolo la presenza di strane linee, che solo in seguito, osservandole da una maggiore altezza, furono identificate in perfetti disegni geometrici. Perfetti perché anche quando il loro tracciato si estende per chilometri e chilometri, le linee che li costituiscono procedono nel terreno precisamente dritte, sia che varchino una collina sia un terreno accidentato, superando depressioni, incrociando altre figure, perdendosi oltre l'orizzonte ma mai cambiando direzione da un percorso rettilineo. Molti dei disegni, le cui grandezze raggiungono anche i 200 metri e le cui tracce hanno larghezza variabile (da pochi decimetri ad oltre cinquanta metri), raffigurano animali (come una scimmia, un ragno, un colibrì, una balena), fiori, mani, ma la maggior parte sono sicuramente figure geometriche. Fu allora che si cominciò ad intravedere un legame misterioso tra alcuni monumenti, siti archeologici e gli astri. Il Tempio etrusco Fra i tanti misteri che il popolo Etrusco ci ha lasciato, c’è anche quello, su com’effettuassero, le loro osservazioni del cielo. Se andiamo a rileggere alcuni testi di letteratura latina, in particolare traduzioni di fonti etrusche fatte da studiosi latini, e facile arguire che buona parte delle conoscenze astronomiche di questo misterioso popolo, derivavano dal “Tempio”, perlopiù eretto nel rispetto di un rigoroso allineamento fra i punti cardinali. Così per effetto di leggi analogiche, si pensava di riprodurre in terra le armoniche del Cosmo, per ottenere il risultato finale di una sua compressione nonché controllo. Dobbiamo peraltro affermare, che ciò non fosse l’unica finalità cui tendeva l’orientamento del tempio. L’edificazione di un tempio implicava, di fatto, un certo numero di scelte, tutte subordinate a quella che era la geografia del posto sul quale doveva nascere. Veniva individuato un luogo situato in posizione elevata, da cui lo sguardo poteva allargarsi lungo i quattro punti cardinali. In seguito, il sacerdote, in altre parole l’augure, tracciava per terra una croce, per mezzo di due assi orientati da est verso ovest, e da nord verso sud. La traccia di questa croce è il più antico principio di ripartizione di quello che era il Templum Celeste. Il metodo per fissare l’asse est-ovest, come sappiamo era già conosciuto dagli antichi egiziani dell’Antico Regno, che serviva loro per orientare le Mastabah verso il nord in direzione delle stelle circumpolari, secondo le credenze locali dei riti funebri. Per far ciò, era necessario fissare per sommi capi l’asse est-ovest, con l’ausilio del sole, poi si tracciava la perpendicolare a questa retta, da cui si ricavavano gli altri due punti. Esistono alcuni dubbi a proposito della posizione dell’Augure nell’istante di questa ripartizione spaziale. Dagli scritti di Marrone e Livio si desume che il sacerdote stava con il volto rivolto a sud.. Un altro autore, il romano Frontino, che si occupava anche d’agrimensura, sosteneva invece che l’augure, rivolgeva il volto ad ovest. Fatto stà, che tutto ciò acquistò un importante valore rituale, e che lo storico Servio (IV -V secolo d. C) ricorda che era vietato farlo, con la sola mano, ma che era indispensabile terminarlo per mezzo del Lituus, cioè il bastone sacro dei sacerdoti. Da ciò sicuramente deriva l’abitudine romana di delimitare con esattezza i confini, ricordata negli scritti latini come Conrectio, che sicuramente fu ereditata da questa antica pratica degli etruschi ed applicata all’agrimensura. Sul Colle Capitolino veniva adorato il Dio Terminus nume tutelare delle pietre di confine, la cui forma era quella di un sasso, che era collocato in un tempio, che presentava il soffitto aperto verso il cielo, affinché il Dio potesse dilatare il suo potere all’universo, o ponesse un confine al mistero. Ma a parte questa dotta spiegazione, il culto, com’è risaputo aveva nella realtà una sua ben precisa attuazione terrena. Non si può certo dare credito a chi sostiene che gli Etruschi prima e i Romani dopo, attribuissero un impegno enorme nel disegnare quattro assi diretti verso i punti cardinali solo per onorare un rito. Il Tempio (Templum) mostrava certamente altre funzioni oltre a quelle religiose, che si manifestano proprio dallo studio della suddivisione del cielo fatta dagli Etruschi. Vediamo di capire un po’ di più della loro scienza astronomica, per spiegare tutto questo. continua........ |
Post n°54 pubblicato il 21 Aprile 2008 da zoeal
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Post n°53 pubblicato il 17 Aprile 2008 da zoeal
CAPUA
Una fonte storica greca assai autorevole, Strabone, ricorda come gli Etruschi, estendendo il loro dominio anche in Campania sino all'Agro Picentino, nel Salernitano, vi fondassero ben dodici città, replicando il modello della dodecapoli già conosciuto nell'Etruria propriamente detta. Fra tutte (Nola, Nocera, Ercolano, Pompei, Sorrento, Marcina, Velcha, Velsu, Irnthi, Uri, Hyria) Capua avrebbe rivestito un ruolo di particolare rilievo. La nascita di Capua antica (neoetr. Capua e forse, in origine, Velthurna) come fondazione etrusca nella seconda metà del IX secolo a.C. trova riscontro proprio nei corredi funerari dalle sue necropoli di orizzonte villanoviano, a conferma della notizia tradita da Velleio Patercolo. Lo storico, assai informato fors'anche in virtù del suo vincolo parentelare con la famiglia capuana dei Magii, collocava infatti la fondazione di Capua in una data anteriore a quella leggendaria di Roma nel 753 a.C., ricusando un altro autorevole parere, quello di Catone, che infondatamente la ribassava di tre secoli (471 a.C.). Oltre che alle preesistenti popolazioni locali, nell'occupazione della Campania gli Etruschi si andavano dunque affiancando ai Greci, i quali si erano precocemente stanziati sull'isola di Ischia e in seguito sulla terraferma a Cuma intorno alla metà dell'VIII secolo a.C. In epoca orientalizzante e arcaica (VII-VI secolo a.C.), proprio allorquando Capua doveva rappresentare la più importante città della dodecapoli etrusca, la sua fioritura toccò una fase apogeica sul piano culturale ed economico, anche grazie ai precoci contatti con il mondo greco, irraggiando la propria influenza anche sui centri circumvicini. Una stagione prospera riguardava, concomitantemente, anche i principali centri dell'Etruria propria, che aveva ormai conferito saldezza e continuità ai suoi contatti commerciali con gli interlocutori del l'Egeo, della costa e dell'entroterra micrasiatico. Ne può essere sottaciuto che l'elemento etrusco, già incorporato nel tessuto sociale della città della quale occupava una zona residenziale perciò detta vicus Tuscus, improntò politicamente la storia della stessa Roma con la dinastia dei Tarquinii, con l'ultimo dei quali, Tarquinio il Superbo, si concluderà la fase monarchica della città inaugurando quella repubblicana. Al suo predecessore Tarquinio Prisco (616-578 a.C.) si deve, fra l'altro, la costruzione della cinta muraria di Roma (murus lapideus), poi completata sotto Servio Tullio. La convivenza con i Greci si protrarrà sino al VI secolo quando, nel 504 a.C., Greci e Latini alleatisi fra loro sconfiggeranno gli Etruschi nella battaglia di Ariccia, mentre trent'anni dopo, nel 474 a.C., una nuova vittoria dei Greci nella battaglia navale allargo di Cuma sanciva una definitiva incrinatura nei collegamenti fra l'Etruria campana e l'Etruria propria, sia via terra che via mare. L'occupazione di Capua da parte delle popolazioni di lingua e cultura sannitiche nel 423 a.C., come ricorda anche lo storico Tito Livio, segnò il definitivo tramonto dell'egemonia etrusca in Campania. Alla fase sannitica si lega la florida fioritura di due santuari extraurbani assai celebri in antico, quello di Diana Tifatina, alle pendici del Monte Tifata e quello, ancora senza nome, rinvenuto nel cosiddetto Fondo Patturelli, la cui documentazione più celebre è rappresentata da una cospicua messe di opere scultoree e fittili, fra le quali devono essere ricordate le "Madri capuane". Infine nel 338 a.C. Roma concesse la civitas sine suffragio, ovvero la cittadinanza senza l'esercizio del diritto di voto. Circa vent'anni dopo la resa definitiva a Roma coincise approssimativamente con la costruzione della via Appia, che stabilì un saldo collegamento viario tra il centro campano e l'Urbe. Sul finire del III secolo a.C. il diritto alla cittadinanza fu tuttavia revocato in seguito alla sconfitta di Annibale nel corso delle guerre puniche, il territorio confiscato divenendo ager publicus, e la città sottoposta all'autorità di un prefetto.
Solo vent'anni prima, dal bellissimo anfiteatro di cui ancora è possibile ammirare l'imponente struttura, aveva preso le mosse la rivolta di Spartaco, poi annegata nel sangue. L'importanza notevole e la fama di Capua sopravviveranno tuttavia agli esiti infausti di queste vicende storiche, tanto che lo storico Livio in epoca imperiale ebbe a definirla la più grande e opulenta città dell'Italia antica e ancora nel I secolo a.C. Cicerone non esitò a definirla altera Roma, proprio per sottolineare come la magnificenza della città fosse paragonabile a quella dell'Urbe laziale. Nell'856 d.C. l'antica Capua, oggi Santa Maria Capua Vetere, distrutta dalle orde saracene nell'841, fu sostituita da Capua Nova, sul Volturno, già Casilinum ricordata anche da Tito Livio, collegata mediante un ponte alla via consolare Appia che congiungeva Roma a Brindisi. Un nuovo museo archeologico (Museo Archeologico dell'antica Capua), allestito in un'ala dell'ex Incremento Ippico borbonico di Santa Maria Capua Vetere, si è venuto in tempi recenti affiancando allo storico Museo Provinciale Campano di Capua (la medievale Casilinum), storica istituzione nella quale confluirono a partire dal 1874 i materiali archeologici di Capua preromana, romana e medievale della Terra di Lavoro.
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LA TEGOLA DI CAPUA Il testo della famosa "Tegola di Capua" (conservata al Museo di Berlino) rappresenta la più estesa di tutte le epigrafi etrusche mai ritrovate, se si eccettuano le bende della "mummia di Zagabria", che costituiscono un vero e proprio libro. Si tratta di una lastra di terracotta (di centimetri 60 x 50), scoperta nel 1898 nella necropoli di Santa Maria Capua Vetere e recante una lunga iscrizione graffita, di cui restano leggibili circa treo cento parole. Suddiviso in dieci sezioni da una linea orizzontale, risulta attualmente costituito da 62 righe, alcune in parte perdute, e da circa 390 parole, non tutte conservate per intero. È suddiviso in dieci sezioni da una linea orizzontale. Sui problemi dell'interpretazione del contenuto il riferimento più recente e importante è il libro Tabula Capuana (1995), uno degli ultimi lavori lasciati dall'archeologo Mauro Cristofani. La redazione del documento si può datare al 470 a.C., sebbene esso si debba ritenere la copia (o comunque la trascrizione) di un testo certamente molto più antico. In effetti sulla tegola è graffito un calendario festivo risalente all’età arcaica: un calendario di prescrizioni cultuali relativo a celebrazioni pubbliche e diretto, secondo il Cristofani, alla stessa comunità capuana. Il calendario è diviso in dieci sezioni, corrispondenti ai dieci mesi del calendario antichissimo e comincia da marzo (in etrusco, probabilmente, Velxitna). Anche il calendario romano (da cui deriva il moderno) ebbe, in origine, dieci mesi e certamente cominciava da marzo; ciò è provato al di là di ogni dubbio dai nomi di settembre, ottobre, novembre e dicembre, che oggi si trovano al nono, decimo, undicesimo e dodicesimo posto. Le fonti antiche dicono che gennaio e febbraio furono aggiunti dal re Numa; nel De die natali di Censorino (20, 30) si legge: «I quali ritenevano che i mesi siano stati dieci, come un tempo succedeva presso gli Albani, da cui ebbero origine i Romani. Quei dieci mesi (degli Albani) avevano in tutto 304 giorni, così distribuiti: marzo 31, aprile 30, maggio 31, giugno 30, quintìle 31, sestìle e settembre 30, ottobre 31, novembre e dicembre 30». Ecco dunque alcuni estratti del calendario festivo di Capua. |
I nomi dei mesi etruschi sono noti sostanzialmente attraverso alcune glosse, la "tegola di Capua" e il "libro di Zagabria" (l'asterisco indica le forme ricostruite, in quanto conosciute soltanto da glosse e non ancora attestate nei documenti etruschi originali): marzo = *velxitna; aprile = apiras( a); maggio = anpili(a) o ampner; giugno = acalva o acal(a); luglio = *turane o par-{}um; agosto = *hermi; settembre = celi; ottobre = *xesfer.
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Post n°49 pubblicato il 08 Aprile 2008 da zoeal
Sabato scorso ho avuto modo di effettuare l'escursione a piedi lungo il percorso del Parco Naturale della Maremma che porta ai resti dell'Abbazia di San Rabano. Il luogo merita una visita, sia per la bellezza del paesaggio che per la suggestione che dà questa antica abbazia (risale al 1100) sita nel cuore della macchia mediterranea. Il percorso più breve consta di 4 chilometri all'andata e altri 4 al ritorno, però se ci andate con una comitiva organizzata, per i pigroni o per coloro che si stancano presto, ci sono le auto fuoristrada delle guardie del Parco che fanno la spola a raccattare i cocci. Io e il mio lui ci siamo aggregati ad una gita organizzata dal parroco che ci ha sposato, un grande organizzatore di eventi, visto che è rimasto sorpreso pure lui della grande affluenza (270 persone!), in effetti avevamo già avuto prova della sua capacità organizzativa in occasione del nostro matrimonio avendo pensato tanti dettagli piacevoli per la nostra cerimonia (ha fatto tutto lui pur non essendo stati attivamente praticanti fino a quel momento), ma stavolta si è superato, perchè arrivati alla meta, ci aspettavamo la canonica Messa, ma non ci aspettavamo di certo che avesse invitato apposta dei Monaci Benedettini che hanno approntato Canti Gregoriani, che hanno risuonato nelle antiche vestigie, per la prima volta dopo ben 600 anni! Il tutto è terminato con una grande merenda...e chi l'avrebbe mai detto! Canti gregoriani o meno, consiglio a tutti quelli che passano dalla Maremma di fare una visitina al Parco, ci sono percorsi trekking adeguati per tutti, da quelli più semplici a quelli per i più esperti ma lo spettacolo è sempre e comunque assicurato! p.s.: dopo questo voglio i soldini dall'APT^__^ |
UMORE NERO...SONO COME I GATTI QUANDO TIRA VENTO Sono stata abituata a rimboccarmi le maniche e a raggiungere qualunque obiettivo solo ed esclusivamente con i miei mezzi, magari mettendoci più tempo, magari sbagliando pure, non ho mai chiesto aiuto a nessuno (caso mai qualche consiglio ma poi ho sempre fatto di testa mia) ed ho sempre avuto l’appoggio ed il sostegno dei miei genitori pensando che un risultato sudato fosse senza ombra di dubbio migliore di uno ottenuto con qualche escamotage o con tutti i mezzi che fanno parte del “tirare a campare”. Per far ciò ho dovuto indurire la mia tempra, ho dovuto spesso tenere a bada l’impazienza, ho fatto uso smodato della mia già innata testardaggine e perseveranza. Questo ha comportato tanti sacrifici, ma ogni obiettivo che mi ero prefissata è stato raggiunto in tempi meno brevi del previsto ma tuttosommato in modo soddisfacente….le scuole dell’obbligo, il diploma, la laurea, la ricerca e l’ottenimento del tanto sospirato lavoro. Mio padre, operaio ed orgogliosissimo di me (ha fatto sicuramente più sacrifici lui per me di quanti ne abbia fatti io) mi ha insegnato che difficilmente il lavoro è gratificazione, il lavoro è lavoro e basta ma è il mezzo per mantenere la dignità dell’aspetto più grande dell’esistenza che è la “propria famiglia” e la propria "essenza di uomo/donna". Quindi, detto questo, immaginatevi quanto sia stata orgogliosa del mio curriculum e del mio pezzo di carta appeso al muro. Nel mio lavoro, ero stata già avvisata, come detto in precedenza, non mi aspettavo gratificazioni, ho sempre fatto un po’ di più del mio dovere non chiedendo niente in cambio, la gratificazione in sostanza era fare bene il mio lavoro perché niente dal punto di vista economico è arrivato in più, mentre il lavoro aumenta a dismisura, per cui, per portarlo aventi, adesso non ho neanche più la consolazione di farlo bene; è impossibile infatti che ciò accada almeno che non decida di lavorare 18 ore al giorno sabato e domenica compresi (e viste le circostanze, sinceramente non ho più voglia neanche di starci mezz’ora in più dell’orario canonico). Passi quindi la mancanza di gratificazione, passino tutti i rospi da ingollare quotidianamente ma c’è una cosa che esigo e che mi fa andare in bestia quando palesemente non c’è: IL RISPETTO. Il motivo principale per cui mio padre è stato felice di sapere che volevo continuare a studiare è che secondo lui, una cultura, un diploma o una laurea non garantiscono di sicuro di avere dei soldi ma permettono senza dubbio di poter avere RISPETTO, valore che probabilmente lui nei suoi 50 anni di lavoro ha visto poche volte. Io non ho il cuore di dire a lui adesso ciò che ho scoperto e cioè che il rispetto, quella cosa a cui lui ha sempre tanto cercato, in realtà non esiste perché c’è sempre sulla strada di ognuno l’approfittatore di turno e più sei onesto e lavoratore, più sei il coglione a cui sputare in faccia. Morale della favola…faccio parte anch’io della schiera dei fessi, orgogliosa di esserci arrivata con i prorpi mezzi…vi pare poco? |
Post n°44 pubblicato il 01 Aprile 2008 da zoeal
Ma secondo voi, le etrusche, che si sa, non erano relegate nel gineceo, come le pudiche greche, e neanche nella penombra delle loro stanze a filare la lana, come le matrone romane, ma partecipavano a banchetti, a giochi e udite udite uscivano da sole, e massimo dello scandalo, guidavano il carro (ci sarà voluta la patente? Mah?), si vergognavano forse a mettersi in mostra? no di sicuro, anzi avevano il desiderio e la necessità di curare la propria immagine con un culto dell’apparire proprio come il nostro. Una vita sociale tanto intensa doveva certo spingerle ad avere la massima cura del proprio aspetto e quindi a curare l’abbigliamento, i gioielli, l’acconciatura e molto i cosmetici per la propria bellezza. Una tale immagine ci viene perfettamente confermata nelle pitture delle tombe etrusche, dove gli effetti più vistosi sembrano apparire nel trucco degli occhi e della bocca, nella colorazione delle chiome e persino nell’uso di parrucche. Un’ulteriore conferma ci viene dai ritrovamenti archeologici di pigmenti, resine e profumi, provenienti dalle sepolture femminili etrusche, in cui, accanto alle fuseruole e ai pesi da telaio, che attestano l’attività della filatura e della tessitura, troviamo anche deliziosi contenitori per cosmetici dalle forme più svariate (veri e propri beauty case che utilizzarono poi anche le matrone romane). Il loro contenuto o ciò che ne resta è stato attentamente esaminato e spesso i residui erano così ben conservati che avrebbero potuto persino usarsi ancora. Come si è detto, una parte della cosmesi etrusca è di importazione mediterranea: i pigmenti azzurri e verdi, usati forse come ombretti per gli occhi, venivano dall’Egitto, diversi profumi e resine dall’Asia e dalla Fenicia. Per colorare di rosso le labbra usavano un miscuglio di SEGO e CINABRO (peccato che il cinabro contiene mercurio e quindi era altamente tossico) aggiungendovi una profumazione di MIRTO. Ma le donne etrusche usavano truccarsi anche in punti nascosti, come neanche noi donne moderne osiamo fare, infatti lo stesso belletto descritto sopra veniva usato pure per colorare l’areola dei capezzoli (questo significa che le zinne al vento non erano considerate una vergogna). Venivano molto usati anche gli oli profumati durante e dopo il bagno, oppure per massaggi e frizioni; un olio scuro fortemente profumato di LABDANO, era composto da olio di LENTISCO e CISTO spontaneo. Per gli occhi, si usava un mascara nero contenente STIBIO (importato dall’Egitto o dalla Fenicia) e SEGO. Gli oli di rosmarino, salvia, mirto e iperico venivano dalla vegetazione spontanea etrusca ed erano impiegati per massaggi e bagni emollienti. Sotto i belletti (ombretti, mascara, rossetti) si usava la CERUSSA sbiancante, a base di carbonato di piombo, una sostanza probabilmente non troppo benefica per la salute, mentre per i capelli si usavano oli profumati a base di noci, nocciole e lentisco (come al solito le donne di carnagione mediterranea come le etrusche volevano la pelle di luna e volevano avere i capelli più chiari, tanto da sottoporsi a trattamenti schiarenti così dannosi per i capelli che ad un certo punto la moda optò drasticamente per le parrucche; i capelli biondi e rossi provenivano dai barbari del nord soprattutto galli con i quali gli etruschi intrattennero scambi per molto tempo pagando in vino, ambrosia gradita da queste popolazioni nordiche ma che non sapevano come produrre) Oltre a queste categorie vi sono gli oggetti da toeletta e di ornamento, che completavano la preparazione dell’immagine. Basti pensare ai gioielli preziosissimi che indossavano: collane, orecchini, anelli bracciali, ferma trecce, fibule di tutte le fogge, ma vogliamo accennare anche a quegli oggetti, come gli specchi o le pinzette per le sopracciglia, gli spilloni e i fermagli per capelli, che ci fanno comprendere quanto poco sia cambiato il nostro modo di prenderci cura di noi stessi. La depilazione del corpo, in particolare veniva usata, tanto per le donne come per gli uomini e veniva fatta utilizzando la pece riscaldata, una pratica che ci ricorda come, da sempre, per ben comparire abbiamo dovuto un po’ soffrire. Con la sperimentazione archeologica si sono potuti ricostruire gran parte dei cosmetici usati dagli antichi etruschi, sulla base delle analisi chimiche effettuate ai reperti ritrovati negli scavi, quindi siamo in grado di riprodurre creme, ciprie colorate, ombretti, mascara e rossetti, che si possono usare nei modi e nelleforme che gli etruschi stessi adoperavano. Ecco quello più alla moda: pelle molto bianca, ombretti verdi o azzurri, eye-liner molto marcato per il contorno occhi, cui si dava una forma allungata e a mandorla (all’insù), rossetto rosso e talvolta il vezzo di un neo finto su una guancia. I capelli venivano trattati con sostanze coloranti: rosso, nero (per coprire forse i primi grigi) e decolorati con sostanze ossigenanti, ottenendo un biondo rossiccio stopposo tanto bizzarro quanto innaturale per un popolo mediterraneo. Un vezzo, però che non disdegnavano neanche gli uomini. Naturalmente, quando parliamo di uomini che si depilavano o si coloravano i capelli ci riferiamo a particolari categorie, come gli atleti o talvolta gli attori (quelli insomma che facevano i “piacioni”). In conclusione, la nostra ricostruzione storica ci porta a riflettere sulla funzione della cosmesi nella storia dell’umanità. Abbellire il corpo, curarlo e contemplarlo può sembrare un’attività molto frivola e poco importante, ma pensiamo che è antica quanto l’uomo e quindi un’esigenza profonda, insita in noi, che riesce a darci sicurezza , facendoci sentire più accettati ed amati. E pensiamo che ad usare queste pratiche sono stati soprattutto gli strati sociali elevati i personaggi importanti, nelle civiltà più ricche ed evolute, quelle che ci hanno dato la storia, la cultura, l’umanità. Una curiosità: se è vero che gli Etruschi curavano molto il loro aspetto, non altrettanto avveniva per il loro fisico, una sana “pancetta” era considerata simbolo di benessere e prosperità anche perché, non averla avrebbe significato rinunciare al piacere della tavola (una condanna praticamente per un popolo con il culto del cibo e del banchetto) ad esempio se è vero che nelle epoche più antiche, colui che commissionava il suo sarofago, si faceva ritrarre senza difetti, verso il II-III secolo a.c., anche le raffigurazioni si fanno più veritiere tanto che la museo di Tarquinia possiamo ammirare una serie di ricchi signori e signore decisamente fuori forma. Per quest’aspetto, gli Etruschi venivano presi in giro pure dai Romani che li chiamavano i “pingui etruschi”. liberamente tratto da Rita Papi |
GIOCO LETTERARIO
Ho partecipato al gioco letterario promosso da Writer
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ho scritto anche:
e per la serie RACCONTI BREVI:
DEUXIPPO (prima parte)
DEUXIPPO (seconda parte)
DEUXIPPO (terza parte)
DEUXIPPO (ultima parte)
L'INFAME (prima parte)
L'INFAME (ultima parte)
E SFOTTIAMIOLI UN PO' STI RUMACH!
MAGIA DEL PHOTOPAINT
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LA LETTURA NOBILITA LA MENTE
"CHIMAIRA" di Valerio Massimo Manfredi (giallo-storico)
"MITI, SEGNI E SIMBOLI ETRUSCHI" di Giovanni Feo (Etruschi, da dove venivano e a quali leggende sono collegati)
"GEOGRAFIA SACRA" di Giovanni Feo (la "magia" e l'"astronomia" dalla preistoria agli Etruschi)
"UNA GIORNATA NELL'ANTICA ROMA" di Alberto Angela (immaginiamo di fare un viaggio nel tempo e di ritrovarsi nella Roma del I secolo dopo Cristo)
"IL SEGRETO DEI GEROGLIFICI" di Christian Jacq (guida semplice e simpatica sull'interpretazione dei geroglifici egizi)
" IL FARAONE DELLE SABBIE" di Valerio Massimo Manfredi, azione e suspence ambientate nel clima dei conflitti attuali che affliggono il Medio Oriente.
"L'ULTIMA LEGIONE":di Valerio Massimo Manfredi, una vicenda avvincente ambientata nel periodo del declino dell'Impero Romano, tra leggenda e realtà, si legge tutto d'un fiato
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In ricordo di Morbello Vergari, ultimo poeta Etrusco
Il reperto archeologico
Riuniti insieme, un gruppo di signori
stavano discutendo di un oggetto
un giorno appartenuto ai padri etruschi.
Il dottor Tizio disse ai suoi colleghi:
-La mia giovane eta', non mi consente
di pronunciarmi il primo e francamente
ammetto che non ci capisco molto.
Il dottor Caio esprime il suo parere
dicendo-Per me, questo è un utensile
che usavano gli etruschi,
per servire vivande sulla mensa
D'altro parere il professor Sempronio
e in questo modo dice il suo giudizio:
Questo per me, è un vaso da ornamento
che serviva su un mobile di lusso
a contenere fiori profumati.
Infine il professor Tal dei Tali:
Con questo afferma usavano gli antichi
nelle grandi e solenni cerimonie
offrire a gli dei superi d'Olimpo
e il loro sacerdote in pompa magna,
libava e alzava questo vaso al cielo;
quindi spruzzava santamente l'ara,
del vin pregiato in esso contenuto.
-Giusto-dicono tutti gli altri in coro-
la Sua tesi convince, professore.
Due etruschi ch'iabitaroni in quei luoghi
in permesso quassu' dai Campi Elisi.
Si fermarono ad osservar la scena.
-Tarcone-Aule chiese-cosa fanno
quelle persone riunite insieme?
-Non so',non saprei dirti veramente;
non riesco a comprendere il dialetto,ma
quel che sembra un tantinello strano
è, che stan discutendo con passione,
tenendo un nostro orinalaccio in mano.
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il 24/01/2018 alle 12:17
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