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Io ne so qualcosa.

Post n°2342 pubblicato il 25 Dicembre 2016 da gratiasalavida
 

Alla settima fetta di panettone, capì che era giunto il momento di alzarsi da tavola e di andare a fare una passeggiata digestiva nei paraggi, dopo aver preso congedo dalla chiassosa conmpagnia di parenti e amici con i quali ogni anno condivideva la serata della Vigilia.

Il brindisi di mezzanotte era stato doverosamente celebrato con il tradizionale corredo di auguri e baci. I regali erano statio scartati.  Ben cinque tombole lo avevano tenuto impegnato per due ore: a mangiare torrone e panettone di rito e a perdere tutti gli spiccioli che aveva messo da parte per la tombolata della Vigilia. Tra una giocata e l'altra, considerando che la posta era bassa, aveva perso tutti e venti gli euro che costituivano il patrimonio in spiccioli che aveva messo da parte per la serata. Non era fortunato al gioco. Non poteva dirsi neanche fortunato in amore, come si suol dire, a risarcimento della sconfitta, a quanti risultano al gioco costantemente perdenti.

No. Non era fortunato in amore. A cinquant'anni suonati,  sul registro della sua contabilità esistenziale poteva vantare ben poche voci di attivo, e la sfera affettiva non era tra quelle.

Dopo aver digerito ben due matrimoni, altrettanti divorzi, quattro convivenze finite burrascosamente, si era convinto di non essere tagliato per la vita a due e si era rassegnato a condividere solo con se stesso il proprio graduale scivolamento fisico e psicologico nella fase della terza età.

Fortunatamente aveva quattro sorelle, due fratelli e una valanga di nipoti che gli rallegravano l'anima ogni volta che aveva l'occasione di vederli, come era accaduto in quella serata di Vigilia, come tutte le serate di Vigilia volta a celebrare, più che il rito religioso, il rito familiare della riaggregazione della comunità dispersa.

Come ogni anno, si era sentito felice nel poter riabbracciare uno a uno tutti i membri di quella chiassosa e caotica folla di parenti stretti e acquisiti, ma al tempo stesso si era sentito a disagio nel constatare come l'unico membro dell'allegra combriccola a essere venuto da solo fosse stato proprio lui, che nonostante le numerose relazioni sentimentali che avevano segnato i suoi cinquant'anni di esistenza,  non aveva generato neanche un figlio.

Quando un piccolo disagio sopraggiungeva inatteso a erodere il fondo massiccio delle sue solide convinzioni sulla celebrazione del Natale, cominciava a innervosirsi e, suo malgrado, si accaniva sul cibo, ingozzandosi oltre ogni misura di buon senso  di qualunque pietanza gli fosse capitata tra le mani.

Dal momento che ogni anno, nella medesima occasione celebrativa, da almeno quindici anni a quella parte, quel fastidioso senso di malessere sopraggiungeva al culmine della festa a turbarlo e a guastare, almeno parzialmente, il piacere di ritrovarsi con i suoi cari, si era tra questi ritagliato la fama di essere un gran divoratore di cibo, poiché era il cibo il sedativo che gli consentiva di arrivare al termine della serata senza che il turbamento esplodesse in una crisi profonda di depressione corredata da lacrime e malumore.

Quella sera aveva proprio esagerato. Oltre ad aver divorato  tutte le portate del cenone con un appetito che traeva origine da una fame interiore di quelle che non si possono saziare, si era accanito sul panettone che troneggiava al centro della tavola sparecchiata per fare posto alle cartelle della tombola. Di panettone ne aveva mangiato in quantità esagerata, al punto da sentirsi, due ore dopo la mezzanotte, ormai preda della nausea: temeva che da un momento all'altro avrebbe vomitato tutto quello che aveva ingurgitato sul tavolo da gioco. Preferì alzarsi, prendere frettolosamente congedo dai numerosi convitati e uscire di corsa in strada, sperando che l'aria fresca della notte agisse come antiemetico. Al più avrebbe vomitato lungo il tragitto che lo separava dall'automobile in sosta.

Il gelo notturno, in effetti, lungi dal provocargli una congestione, gli fu utile a ricacciare indietro il senso di nausea e ad allontanare da sé i conati di vomito che pocanzi si erano fatti irrefrenabili.

Mentre percorreva a passo svelto le vie semideserte e ingiallite dalla luce malaticcia dei lampioni, sentì  di stare meglio, tuttavia gli capitò un fatto singolare: ormai certo di riuscire a ricacciare indietro i conati di vomito, si accorse che gli era impossibile fare altrettanto con le lacrime, che non poteva trattenere.

Cominciò a piangere: dapprima sparuti lacrimoni che gli scivolarono sulle gote addiacciate cogliendolo quasi di sorpresa, poi una serie inarrestabile di lacrime che uscivano da una sorgente inaccessibile del suo intimo come avessero trovato, dopo anni, una inaspettata via di fuga. Dense e copiose, esplosero infine in un pianto dirotto che prese il sopravvento sulla di lui razionalità, obbligandolo ad assecondarle con singhiozzi, grida, lamenti, in un crescendo che lo colse impreparato a reagire.

Crollò in ginocchio sul selciato inumidito e lì rimase a piangere. Per ore. senza potersi fermare.

All'alba, il mattiniero gestore del primo dei bar della zona ad aprire le porte agli avventori lo ritrovò rannicchiato sul gradino di marmo della soglia del  locale, ancora in preda al pianto, un pianto ormai  trascorso dall'acme furioso di qualche ora prima in un rivolo appena impercettibile di piccole lacrime di intimo ristoro.

Allibito, il gestore del bar, dopo aver constatato dal tenore degli abiti che indossava che non si trattava di un mendicante, dopo aver considerato che lo sconosciuto, pur non essendo un barbone, avrebbe tratto sicuro conforto dall'offerta di una tazza di caffè bollente, lo aiutò a risollevarsi, lo appoggiò al muro adiacente l'ingresso del locale, ne sollevò in fretta la saracinesca e poi ve lo condusse all'interno. Lo fece sedere accanto a una stufa che sempre accendeva al mattino, quando il riscaldamento del locale era ancora insufficiente, gli preparò una grossa tazza di caffè, ne preparò un'altra per sè e gli si sedette accanto. L'uomo aveva smesso di piangere e si guardava intorno con l'aria smarrita di chi si è appena svegliato da un lungo sonno e non sa dove si trovi.

-Buongiorno! - gli disse, - Buon Natale! Mi fa piacere avere un amico con cui condividere questa mattinata di lavoro. Gradirebbe anche una fetta di panettone?

- No! - rispose lui, guardandolo come se gli avesse proposto una doccia gelata. - Mi scusi, credo di aver esagwerato con il cibo, ieri sera. La ringrazio del caffè, lo berrò e poi toglierò il disturbo.

-Lei non mi disturba affatto. Sa, mia moglie è morta due mesi fa. I figli sono grandi e lavorano all'estero e io, per scambiare due parole con qualcuno, non posso che confidare nei clienti di questo bar. Peccato che ormai sono sempre di  meno quelli che si fermano a parlare. Consumano velocemente, pagano e fuggono. Difficilmente li rivedo. Questa è una via di passaggio. I clienti sono per lo più occasionali passanti che difficilmente si fanno rivedere dopo essersi fermati qui. Lei per me è una risorsa. Sono appena le cinque e mezzo del mattino del 25 dicembre. Se va bene, il bar si riempirà verso le otto. Abbiamo più di due ore da impegnare in una conversazione, sempre che lei ne abbia voglia. Ormai, però, nessuno ha più voglia di fermarsi a parlare... siete tutti così maledettamente frettolosi!

L'uomo non aveva nessuna intenzione di trattenersi a parlare con quel signore che, per quanto gentile ed evidentemente buono d'animo, gli era totalmente estraneo, tuttavia qualcosa, qualcosa di vago che gli si agitava nel petto, lo costrinse a rimanere lì, seduto a quel tavolo con il gentile avventore del locale, a parlare di sé. Le parole, dapprima timide, ben presto cominciarono a sgorgare da lui con una urgenza che gli rammentò l'erompere delle lacrime della notte prima.

Gli raccontò ogni cosa. I numerosi fallimenti della sua vita, i progetti che non aveva portato a termine, i rapporti che non aveva portato a termine, il senso di solitudine che cercava vanamente di ricacciare indietro, come i conati di vomito della sera precedente. La grande fame che si risvegliava in lui ogni volta che si sentiva da solo nel mezzo di una chiassosa compagnia di persone cui pure voleva bene. 

Tutto.

Gli raccontò tutto.

E, trascorse le tre ore in cui rimasero seduti, uno accanto all'altro, nel bar vuoto di avventori, dopo le tre ore riempite solo dalle parole che per anni gli erano rimaste dentro, si sentì sollevato.

Si alzò e si congedò dall'uomo gentile, dopo averlo abbracciato a lungo, come fosse una persona cara. Era questo il suo ringraziamento per quel piccolo uomo che gli aveva regalato tre ore di serenità.

Il caso singolare volle che, dopo quella lunga conversazione, lui cominciasse a sentirsi meglio.

A poco a poco riacquistò la fiducia in se stesso e, quasi senza accorgersene, cominciò a trasformare le voci passive del suo fallimentare bilancio di esistenza in altrettante voci attive.

Qualche mese dopo era un uomo nuovo quello che si dirigeva a passo svelto verso il bar che gli aveva cambiato la vita.

Un uomo nuovo. Aveva ristrutturato nel profondo la propria esistenza, aprendola verso quella degli altri, rammentando quanto bene l'omino del bar aveva provocato in lui prestandosi all'ascolto delle ragioni del suo disagio.

Arrivò alla via dove aveva trascorso l'intera nottata a piangere, alla soglia del locale dove l'omino l'aveva trovato rannicchiato in se stesso.

Stava per entrare al suo interno, quando si accorse che qualcosa era cambiato. Quello non era il bar in cui lui aveva trascorso tre ore a parlare ininterrottamente. Era un negozio di elettrodomestici!

Vi entrò, in preda allo smarrimento. Era certo che il locale che andava cercando fosse proprio quello, e si rimproverava per non esservi tornato prima, a ringraziare l'omino e a scambiare con lui una seconda conversazione, prima che lui avesse deciso di chiudere l'esercizio.

Enorme fu la sua sorpresa quando chiese al proprietario del nuovo negozio che fine avesse fatto il vecchio gestore del bar.

- Guardi che si sbaglia. Io sono il proprietario di questo locale da circa dieci anni. In effetti prima che subentrassi io, questo locale era un bar, ma il suo proprietario è morto una notte, all'improvviso, e i figli hanno deciso di vendere. Sa, quel poveruomo, dopo la morte della moglie, si era depresso, forse perché i figli erano all'estero e non aveva nessuno accanto a sé ad aiutarlo nel momento del lutto. Mi hanno raccontato di averlo trovato una mettina, all'alba, rannicchiato sulla soglia del locale. Morto stecchito. stroncato da un infarto ancora prima di essere riuscito a sollevare la saracinesca del bar. Senz'altro non è questo il locale che cerca. provi dall'altra parte della strada, cento metri più avanti. Sicuramente è quello il bar che cercava, benché, che io ne sappia, la proprietaria è una donna.

L'uomo continuava a parlare, ma il suo interlocutore ormai non lo ascoltava più.

Una lacrima gli scivolò lungo la gota.

Era una lacrima di gratitudine.

A Natale - si disse - i miracoli avvengono tuttora.

Io ne so qualcosa.

 
 
 
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NOTA DELL'AUTRICE DEL BLOG

Tutti i testi qui pubblicati

sono esclusivo frutto della mia creatività. Cinzia M.

Tutti i diritti sono riservati.

Ho scorto su You Tube un canale intitolato Rubra Domus.

Non ha a che fare con me, che sono unicamente l'autrice

di questo blog e dei testi che vi sono quotidianamente

inseriti.

Cinzia M.

 

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