Creato da scrittocolpevole il 15/02/2007

LA COLPA DI SCRIVERE

per sviluppare un'idea, ovvero arte e poesia e letteratura e...

 

 

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Perché scrivo, perché vivo di Gianni Mazzei

Post n°250 pubblicato il 30 Dicembre 2007 da scrittocolpevole
 

Se la poesia è creatività, in che modo l’affermazione di Einstein sul non inventare niente quando viveva pienamente, quando era innamorato, può influenzarne il senso e la portata, a cominciare dal suo fondo oscuro da cui poi, come Venere dal mare, emerge, e cioè l’ascolto?

Quando si vive a pieni polmoni, quando si ama in modo assoluto, l’ascolto
non ha ragione di esistere: è un fiume in piena che trascina, è il grido del sole a mezzogiorno e non il ripiegamento dell’anima nelle sue pieghe più nascoste.

Tanto ciò è vero che alcuni geni diventano azione pura, irresistibile e si estrinsecano solo in essa, convertendo lo stesso pensiero, le stesse emozioni, la stessa voglia dell’assoluto, in movimento finalizzato senza più scorie e scarto tra contemplare e agire: l’io singolo è diventato momento cosmico, nell’impresa di Cesare, o di Alessandro Magno che se piange con l’occhio azzurro come cielo e con l’occhio nero come morte, deluso dalle proprie conquiste e dell’infinito sempre irraggiungibile, lo fa solo nei versi mirabili di Pascoli.

L’ascolto, cui il poeta attinge come pozzo infinito per costruire la vita, è “Altro” dalla vita stessa e vita nello stesso tempo.

E’ il ripetersi della creazione biblica che alterna i sei giorni del lavoro, la sua progettualità, i momenti di pausa della notte e la soddisfazione finale, vedendo che tutto è buono.

Tra il momento ispirativo e il suo estrinsecarsi nel Fiat o nel logos che è la stessa cosa, nel poeta avviene un mutamento radicale, non scelto, ma dettato da urgenza interiore.

Il poeta, come ogni comune mortale, vive momenti di grigiore, di insoddisfazione nel quotidiano specie se confrontato con la ricerca dell’assoluto: il suo stato, come quello di ogni mortale, è paragonabile ad una bassa vegetazione, al sottobosco che seppur sente il sapore del mirtillo e gode di ombre e la frescura, sente la nostalgia della luce piena e l’ebbrezza delle alte vette che configgono vittoriose con il vento e gli altri elementi della natura.

L’uomo comune riesce, tranne pochissimi momenti di pause riflessive, ad adattarsi a questo disagio esistenziale, anzi lo riempie di tanto superfluo nell’illusione di farlo diventare un nuovo Eden: la famiglia, la carriera, il danaro, l’amore.

Il poeta, no.

Egli è l’estraneo alla vita, e di tale straniamento fa la sua condizione metafisica ed espressiva.

Come il profeta, cui il dio tende l’agguato, egli non può sfuggire a questo ascolto:la quotidianità allora serve non per adagiarvisi e trovare una sistemazione decente, ma è come magma per altra vita, forse la più duratura e nobile, la più improntata all’eternità, perché attraverso le immagini che crea, la tramature delle parole che ogni lettore poi continua con proprio filo alla stregua di nuova Penelope, egli sa di poter dire: “Non omnis moriar”.

Forse, sia per condizionamento di vita (l’insegnamento cattolico mi ha segnato come tabnit di questo marchio della profezia cui non si può resistere, molto vicino al pensiero greco di cui mi sento costruito: “vaticina, o musa, e io sarò il tuo profeta” come dice Pindaro), sia per temperamento tendente alla riflessione e nello stesso tempo ad avere bisogno dell’altro, sia per gli studi fatti, conclusisi con una tesi “Sul fondamento ontologico dell’arte” è in me consustanziata, pur con diverse sfaccettature e momenti esplicativi, l’idea che la poesia crei un mondo, attuando quanto sostiene Kandjski: “L’arte profetizza un mondo”.

E, allora, perché scrivo?

Solo in alcuni momenti, di esaltazione o di ripiegamento interiore, di solitudine o di gioia, mi sono chiesto: “Perché vivo?”, cioè nei due momenti costitutivi ed antitetici della vita di ognuno di noi: il baratro e il cielo infinito.

Penso che la stessa cosa valga per la domanda: perché scrivo?, con in più la funzionalità da dare a quel tesoro nascosto dell’ascolto, che altri sperperano nel frastuono e che, invece, nel poeta diventa fuoco per incendiare il firmamento e distruggere il quotidiano, sapendolo guardare con occhi straniti e meravigliati.

Si scrive come si respira, come si gioisce, come si soffre, come si resta sospesi dinnanzi ad eventi imprevisti.

Se poi ti analizzi, pensi ai vari motivi della scrittura.

Scrittura come possibilità di chiarirti dentro, di far decantare aspetti incandescenti che, se liberi, potrebbero incenerirti. Solo al poeta è lecito alternare le sfumature di luce, in una realtà umana che si gioca tutto nell’alternare, anche a livello simbolico, tra il giorno e la notte: il dettaglio all’uomo comune sfugge, ma nel dettaglio sta la divinità.

Scrittura ancora come comunicazione di sé, per apprendere, per vincere la solitudine, per farsi apprezzare, per avere altri stimoli.

Quando, poi, con la scrittura si ha lunga dimestichezza, sorgono altre motivazioni, forse più elaborate.

Allora forse si scrive per vincere la tirannia del tempo e avere per un momento il brivido impossibile e imperituro della prima alba del mondo.

O, usando la bellissima espressione kantiana messa alla fine della sua Critica della ragion pratica: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, si scrive per quel difficile accordo tra la bellezza e la perfezione interiore, inverando nuovamente come punto di stabilità nell’inquietudine umana il calos cai agatos dei greci.

Oppure, si scrive per lodare le cose che ci appartengono come gli affetti, l’infanzia, le proprie radici.

Personalmente direi che scrivo per realizzare un sogno impossibile
che è un po’ tutto l’assunto di Musil nel romanzo L’uomo senza
qualità
. Ricreare cioè le condizioni di infinite possibilità per reinventarmi sempre nuovo e sempre con l’idea che niente ho sciupato, ho buttato nel percorso della mia vita, che non ha fine perché non ha inizio.

In questo penso che la poesia sia l’unica vera filosofia: ciò che la ragione non può raggiungere, come dice amaramente Alcmeone di Crotone: “Per questo muoiono gli uomini, che non possono unire il principio con la fine,” alla poesia riesce, perché in quell’abisso “tutto ritenente”, nella sua polivalenza, le traiettorie della vita sono infinite, senza tagli netti e determinati, come avviene nel tempo: la poesia così, reincarnando il magma senza fondo del mito, si prende la rivincita, sostando nella zona rischiosa dell’essere, sul tempo, e così salvandosi, giacché: “dove ha luogo il pericolo, là sorge anche il salvatore” (Holderlin).

Ed anche, infine, si scrive per il gusto della parola: essa che esce dall’opacità, che prende carne e nervi da te, per tessere filamenti di luce, per creare situazioni e personaggi indipendenti da te e che ti lasciano con amabile ironia o gioioso allontanarsi come figli proiettati in altri orizzonti non più tuoi: essi aspettano gli occhi avidi del lettore per riceverne nuova linfa, nuova e infinita creazione.

Questi aspetti sono presenti un po’ in tutta la mia produzione sia in versi che in prosa (a cominciare dal mio primo romanzo In exitu Israel, dove le espressioni hanno cadenza musicale del verso nonché andamento lirico dei moti dell’animo): l’interrogarsi sul senso della vita, la malia dell’amore che tramuta la parola in canto e la rende tenera e fresca come spiga dorata appena gonfia accarezzata dal vento, l’ironia che diventa consapevolezza dei limiti e invita a far decantare le situazioni.

E allora, chiedersi da donde venga e dove va la poesia è chiedersi sul destino dell’uomo: origine e fine si capiscono se si capisce l’essenza dell’uomo, il perché della sua ventura nel tempo.

“Non si volge chi a stella è fiso” diceva Leonardo da Vinci: penso che in questa massima c’è, almeno a livello di idealità, di utopia, il senso della vita che la poesia incarna e protegge, nonché la sua capacità di illuminare l’essere e di proporsi come dono dell’essenza.

Le poesie scelte sono in sintonia con quanto sostenuto: l’estraniamento del poeta, la solitudine fertile che paga a caro prezzo, l’amore verso la vita così profondo da consustanziarsi di rinuncia e di assenza, il conflitto infinito con l’inadeguato intelletto a raggiungere conferme e certezze e, dunque, la superiorità dell’immagine, frutto saporoso di fantasia pensiero emozione che, nell’intuizione dando all’uomo la sapienza del bene e del male, lo reintegra per sempre nell’Eden.

Penso che Montale quando dice: “ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà” volesse indicare, con amabile ironia, questo, in un mondo mercificato e massificato che non sa più ascoltarsi o non vuole, privilegiando il vuoto diversamente di cui parla Pascal.

 

 *****

 

Quando ti alzerai nei tuoi occhi di cielo
non aspettare nessuno nessuno
quando sorriderai nei tuoi occhi di cielo
non amare nessuno nessuno
ché solo tu ti ami
e solo tu aspetti te stesso.
Novello iddio
calmo della collina che sa
l’aquila piange lo sparviero
e solo la tigre
capisce il ruggito del leone.

 

 

******

 

Dovrò un giorno
conciliarmi con quello
che di me
inoppugnabile
alla morte obiettava
il sereno movimento
del pensiero.

Trebisacce, 1 ottobre 2006

 
 
 
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IL PIEGHEVOLE

il pieghevole

 

Un nuovo foglio di letteratura e arte nasce in Calabria, frutto della collaborazione tra Giovanni Spedicati, editore della Mongolfiera, Maria Credidio, responsabile della Biennale di Arte Contemporanea Magna Grecia di San Demetrio Corone, Salvatore La Moglie, scrittore, Gianni Mazzei, narratore, saggista e poeta, Salvatore Genovese, scrittore e poeta, Paolo Pellicano e Alfredo Bruni, de La Colpa di Scrivere.

 

Il comitato dei curatori è composto da: Mimmo Aloise, Alfredo Bruni, Romilda Ciardullo, Salvatore Genovese, Gianni Mazzei, Paolo Pellicano.
 

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