Creato da carpediem56maestral0 il 23/09/2006

come le nuvole

le guardi e credi di poter parlare di loro, di aver catturato la loro essenza ed ecco che sono altro e ancora altro e non le puoi incasellare, descrivere e neppure toccare...

 

 

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I...

Post n°608 pubblicato il 22 Agosto 2011 da carpediem56maestral0
 

  “Il ricordo delle cose passate non è necessariamente il ricordo di come siano state veramente(Marcel Proust)

 

 

In un pomeriggio di caldo insopportabile ho disceso la scala a chiocciola che porta al mio archivio personale là dove sono stipati, dentro bauli da marinaio, cassetti decorati Liberty e nicchie nei muri, ricordi, immagini, sensazioni, musiche, nozioni varie e cianfrusaglie del tipo “non si sa mai mi dovesse tornare utile”.

Lì fa fresco.

                         

Il materiale vi è catalogato (almeno una sua parte) con cura, a seconda dell’argomento: “Scuola Elementare”, “Operazione alle tonsille”, “Ho trovato lavoro!”.

Altro và sotto lettere dell’alfabeto: D come dolore, A come amori adolescenziali, N come nonni.

I più recenti tuttavia, sono accatastati alla rinfusa, fogli su fogli, che quando ne tiri fuori uno ne vengono via attaccati almeno quattro, solo apparentemente scollegati tra loro.

Risalgono a dopo che, stanca di essere puntigliosa e precisina, ho aderito alla filosofia del “Tutto è polvere e polvere ritornerà”.

                                  

Aggirandomi nella capiente stanza mi sono resa conto di aver vissuto cose che sono quasi preistoria.

Se ve le racconto vi sembrerò Matusalemme e non lo sono, ma il Progresso marcia talmente veloce che è come se, nel corso della vita, avessi avuto accesso ad epoche diverse ( e ciò lo considero un privilegio).

Così, aprendo gli stipi di un comò dell’ottocento (preciso sputato a quello appartenuto alla mia nonna materna), sono stata investita dal suono ossessivo di un milione di cicale che tra rami d’ulivo centenari e muri in pietra, musicarono estati trascorse nella casa di campagna dei nonni paterni, là dove non arrivava l’energia elettrica.

                               

Davanti ai miei occhi si sono materializzati uomini curvi sotto enormi blocchi di ghiaccio, trasportati su spalle riparate da tela di sacco. Mia nonna li stipava dentro un mobiletto dalle pareti metalliche: “la ghiacciaia”.

Avvolte in carta regalo, fresche e deliziose, sono uscite fuori le mattine della “abbivirata” quando era tutto uno sguazzare con i piedi dentro i solchi che servivano per dare acqua agli alberi e la terra era marrone scuro, morbida come talco o crema.

Con quell’impasto dionisiaco facevo polpette e nutrivo bambole di plastica senza vestiti.

 

La sera lumi a petrolio o cetilene rischiaravano sarabande di bambini sporchi per i mille giochi sporchevoli, senza nessuna voglia di andare a dormire.

                                                                 

Socchiuso un cassettino decorato Rococò, eccoti il suono di una campanella che un omino, pedalando su una bicicletta con davanti un casciabanco a forma di ferro da stiro, agitava per avvertire del suo arrivo. Io correvo con i miei cugini per farmi riempire il bicchiere di gelato al limone (solo gusto esistente).

                                  

Sotto al sapore dei gelsi appena colti ho trovato le mattine in cui dopo aver fatto almeno un dettato e le quattro operazioni, mio padre ci portava al mare a piedi, passando  per campagne di fichi d’india ed ulivi, percorrendo stradelle polverose su cui si potevano raccogliere more selvatiche e riposare seduti su una pietra piatta al riparo di un albero di carruba.

Nel pomeriggio dondolavo, spinta dal mio sempre paziente padre, fino a toccare con la punta del piede la foglia del gelso sotto cui era attaccata l’altalena e di questa prodezza andavo estremamente fiera.

                           

Grazie al mio archivio sò di aver visto girini diventare rane e disdegnato orripilata il latte fresco appena munto da una mucca, preso botte da mia madre per essermi allontanata con la bicicletta e pianto disperata sotto un albero di limone.

Avevo sette anni e l’ho odiata.

Conservo sotto la voce “Ne vorrei una così!”, l’immagine della casetta al mare di un fratello di mio nonno.

Sorgeva proprio sulla spiaggia ed era talmente semplice e rustica da meritare la foto su una qualche rivista di architettura: una porta, due finestre, un tetto di tegole rosse.

Come riparo dal sole un pergolato in legno su cui si inerpicava una buganvillea dai fiori rossi. 

                         

Vicino, tirata a secco sulla rena bianca, una barchetta di legno con cui, se ne avevi voglia, andavi a pescare. Altrimenti passava il marinaio, un uomo dai vestiti sdruciti, i piedi scalzi sotto i pantaloni tirati su fino al polpaccio, con al braccio una cesta di vimini. Dentro, allineati, pesci coperti da alghe.

Niente musica, niente animazione estiva, niente motori strombazzanti o urla di gente “che si stà divertendo”. Solo la risacca e il fruscio del vento.

Aperto il baule da pirata, mischiate con conchiglie grandissime e feste da ballo sulla terrazza di casa di mia zia, ho rivisto spiagge con piantati al centro solo tre o quattro ombrelloni. Su di esse, dopo il tramonto solo buio, silenzio e stelle.

Di tutto questo non resta più nulla, nemmeno una pietra su pietra.

Non ci sono più le croste di pane secco che mio nonno conservava per le galline e che trovavo deliziose da sgranocchiare, non c’è il misterioso e buio solaio di mia nonna penetrato da sottili raggi di sole cascanti dalle assi del soffitto, svaniti i pulcini che mettevo nelle tasche della vestaglia.

Inutile correre a cercare (e poi trovare) rifugio dietro la lunga gonna nera di mia nonna. Non c’è più, né lei nè mio padre.

E’ stato sradicato il gelso e abbattuta la casetta sul mare. Al suo posto un aeroporto.

In spiaggia si arriva in macchina e si posteggia lontano. La luce inonda le notti e la musica fa da sottofondo ad ogni attività, che tu la voglia sentire o meno.

Tutto brulica: le coste sono tappezzate da miriadi di barche, la gente è ovunque, le macchine e i motorini girano senza sosta né requie.

                                                          

C’è talmente tanto affollamento in questo nostro mondo moderno che a volte me ne starei giorni chiusa dentro l’archivio.

    

Il problema è che lì manca la connessione ad Internet….

                        

 
 
 
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