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la musica, suonare il pianoforte, suonare il mio violino, la luce del tramonto, ascoltare il mare in una spiaggia deserta, guardare il cielo stellato, l’arte, i frattali, viaggiare, conoscere e scoprire cose nuove, perdermi nei musei, andare al cinema, camminare, correre, nuotare, le immagini riflesse sull’acqua, fare fotografie, il profumo della pioggia, l’inverno, le persone semplici, il pane fresco ancora caldo, i fuochi d’artificio, la pizza il gelato e la cioccolata


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l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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Valse Oublièe
Valse Impromptu

Schubert

Impromptu n.3 op.90
Impromptu n.2 op.142




 

Messaggi di Maggio 2015

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Post n°552 pubblicato il 29 Maggio 2015 da enodas



Ti rivedo, seduta su un muretto. Ti rivedo, tanti anni fa, una sera d'estate perduto entro i confini di una città tra i colli toscani. Ti rivedo, come quei giorni, perché quella é alla fine l'immagine che mi é rimasta di te. Poche, immagini, sempre più sfocate, nei ricordi e nel tempo. Allora, batteva il mio cuore. Ho sempre pensato, o forse una volta ho pensato, che ci siano rare occasioni per cui questo succeda. Sapere che quella é una di quelle persone, una di quelle che sa parlare un linuaggio segreto di cui sai anche tu il codice per decifrarlo. L'ho sentito, quei giorni, a Cortona. L'ho sentito, molte volte, su righe d'inchiostro, su voci attraverso un filo, parole e sorrisi che si materializzavano altrove. L'ho sentito nell'anima, quella da amare, quella che voleva essere amata. A te che mi hai sfiorato, dicendomi per prima che ti ricordavo il piccolo principe e che ti insegnavo che l'essenziale é invisibile agli occhi. Non lo dimenticherò mai. Righe nascoste tra le pagine di una lettera. A te, che mi hai accarezzato con le tue parole. C'é sempre un angolo del mio cuore che mi parla di te, e che sempre avrebbe desiderato viverti. E cosi' mi ritrovo davanti ad un muretto, con un dolore più grande di me nel cuore, e quasi la sensazione che conoscerti non sia stato un caso. E poi, c'é un treno che sfreccia lontano. Come lontano ti porta la vita, oggi, domani, sarà un giorno importante per te, bellissimo, certo, ma non ci sarò, non ci sono mai stato, ed un po' anche se con tenerezza, ne soffrirò, perché io sono ancora fermo a quel muretto, inutile cercare perché due strade non si siano mai incrociate davvero, né la geografia, né il colore del mare, nient'altro. Forse, la verità é semplicemente che non ci sia stata la volontà che accadesse, la volontà di rischiare. Non esiste, lo so, ragionare cosi', ma come fare, per dirti ancora che per me sei sempre una persona speciale.

 

 

 
 
 

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Post n°551 pubblicato il 27 Maggio 2015 da enodas

 

 

 

La Rosa di Fuoco era Barcellona. Una mattina d'estate, agli inizi del Novecento, prese questo nome. Un mondo sta scomparendo, avviato a quel cambiamento che avrà come spartiacque la Grande Guerra. Il mondo borghese ha affinato una nuova sensibilità del gusto, sta conoscendo la modernità e le sue conseguenze. A fianco, gli invisibili, la parte della società che pagava dazio a quella stessa modernità e popolava i sobborghi di un'altra città, ai margini della prima, una polveriera pronta ad esplodere. Anche tra le vie della città catalana.
La Rosa di Fuoco non é soltanto un nome evocativo, che associa passione e furore, ma é anche un nome passato alla storia per indicare eveti di sangue e battaglie sociali. Proiettata in avanti dall'Esposizione Universale di fine secolo, che celebrava sviluppo economico, culturale ed urbanistico, Barcellona viveva la sua Renaixenca.
A cavallo di questa epoca, coinvolti in un vortice, gli artisti si interrogavano, scomponevano, indagavano nuove forme e nuovi canoni di bellezza e di rappresentazione della realtà. Il più geniale degli architetti ed il più graffiante talento della pittura del suo tempo provenivano da Barcellona. L'uno viaggiava, sconvolgeva l'ambiente parigino col suo talento e figurativamente era capostipite di quegli artisti catalani che dalla capitale francese importavano una visione nuova; l'altro costruiva edifici arditi e quasi fiabeschi sfidando la gravità ed ammirando la natura, per riportarla in pietra.
Accanto a loro fluiva il genio di altri nomi nell'indagare la società del loro tempo, e la sua espressione più potente, quella donna fatale, quasi dotata di poteri magici ed ancestrali. E poi, quella esausta sul divano dopo un ballo, quella abbandonata agli effetti della morfina, quella assorta nella lettura di un romanzo. Sulla tela si svolgevano istantanee di vita moderna, tra café e locali notturni, tornava il teatro, e cartelloni riempivano gli spazi della città raggiungendo anche i ceti più popolari, mentre il paesaggio compariva marginalmente nell'interpretazione, al limite dell'astratto, di una profusione di colori.
Di contro, quasi vittime di quella stessa esplosione economica e sociale, gli ultimi vivevano relegati in un inferno urbano e quotidiano. Sugli ultimi, quasi spettri, sui miserabili, si concentrava il racconto della solitudine e del dolore, della sofferenza di sopravvivere in un mondo che procedeva ad un'altra velocità. E lo facevano con un colore ben preciso, un blu che era sensazione di freddo ed assenza di spirito. Del resto, di questa spietata visione, la fine stessa di Gaudi fu racconto inclemente: travolto da un tram, rimase per ore sul ciglio di una strada, tradito dagli abiti modesti che lo fecero scambiare per un barbone, prima di essere trasportato in in ospedale cittadino, dove mori' in pochi giorni. Cosi' la Rosa di Fuoco era anche distruzione e disgregazione della coscienza umana.

 

 

Sono arrivato attratto da questo titolo, questo nome quasi magnetico nell'associaretumulto e delicatezza. Mi sono trovato immediatamente nel mondo rovesciato di Gaidi e nelle proiezioni immaginate che evocavano le foto alle pareti. Eppure... eppure, mi sono presto perduto, lungo un percorso che abbozzava, suggeriva, ma continuamente mi sembrava povero e mancante. Cosi' che, rileggendo me stesso, adesso, colgo il significato, passaggio dopo passaggio, di una storia suggerita ma, a mio parere non ben raccontata. Piuttosto breve, un po' carente. Sono uscito deluso, con la sensazione che un po' le parti fossero accozzate dietro un nome ed un'idea affascinanti. E non parlo dei nomi. Anzi, alcuni sono stati stupore e piacere, sguardo nuovo e diverso. Mancava tutto il fuoco, da narrare.
Resteranno impressi lo sguardo di un giovane Picasso, emerso d'istinto su un foglio ingiallito e da un carboncino veloce, la stanchezza di una donna esausta in un salotto d'inizio secolo, ma soprattutto quel blu insistente che chiudeva il percorso espositivo. Toccante, fortemente indagatore, ed estremamente sofferente, l'immagine di chi rimane ultimo e distante, cosi' come l'aveva saputo cogliere questo gruppo di artisti catalani. Profondi, come il colore che li accompagna, scendono nell'anima.

 

 

"La rosa de fuego. La Barcellona di Picasso e Gaudí evoca la straordinaria fioritura che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ha cambiato il volto della città catalana e ne ha fatto uno dei più effervescenti centri dell’arte e dell’architettura in Europa.
I capolavori di Antoni Gaudí e di Pablo Picasso rappresentano i vertici assoluti di questo periodo aureo, accanto alla produzione non meno significativa di un’ampia cerchia di architetti, pittori, scultori, musicisti, poeti, scrittori e drammaturghi, protagonisti di quel movimento di rinnovamento artistico e culturale che ha preso il nome di modernismo catalano.
La mostra presenta un ritratto a tuttotondo della scena artistica di Barcellona tra il 1888 e il 1909, mettendo in luce la sua variegata fisionomia. L’entusiasmo per il dinamismo della vita moderna convive con la consapevolezza delle profonde lacerazioni che proprio la modernizzazione portava con sé. Di qui il titolo della mostra – “la rosa de fuego” – nome in codice attribuito all’epoca a Barcellona in alcuni circoli anarchici internazionali a causa delle aspre tensioni sociali che ne hanno contraddistinto la storia.
Di questi orientamenti si fanno, di volta in volta, interpreti i grandi nomi dell’arte catalana, a partire da Lluís Domènech e Gaudí, geniali innovatori del linguaggio architettonico e delle arti decorative; accanto ad essi un gruppo di artisti, tra i quali Ramón Casas, Santiago Rusiñol, Hermenegildo Anglada Camarasa, Isidre Nonell, Juli Gonzalez e il giovane Picasso, che mettono in scena con stili differenti una sorprendente rappresentazione della vita moderna tra Barcellona e Parigi, loro seconda patria.
I capitoli della mostra mettono a confronto le multiformi espressioni di questa stagione creativa, dai dipinti ai manifesti, dagli arredi ai gioielli, dalle scene teatrali alle sculture, facendo risaltare una rete di influenze reciproche e di interessi comuni."

(dall'Introduzione alla mostra)

 

 

 
 
 

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Post n°550 pubblicato il 26 Maggio 2015 da enodas

 

 

 

"...Hebbero sempre di mira que' Principi gloriosi d'accoppiare assieme l'utile et il dilettevole... particolarmente nelle fortificazioni fatte da essi attorno le mura della città con tanta magnificenza e maestà... poche furono cosi' costruite e disposte, che non solo rendessero sicura e forte questa piazza, ma nello stesso tempo riuscissero vaghe... a questo scopo furono per la maggior parte ordinate in guisa che in se stesse contenevano e pianure, e colline, e montagne, e palazzi e giardini, et horti, e parchi, et uccelliere, e vivai e vigne..."

 

Mura spesse e buio intenso. Scendo, livelli di terreno, date della storia. Attorno ad una città illuminata dal sole, separato da un fossato colmo d'acqua. Qui non arriva niente, o quasi, in uno spazio separato dal tempo. Ora che é vuoto, che le segrete sono silenziose, ed i piani più alti rimangono solo illuminati di luce, che danza, quasi, come le immagini alle pareti. E qualche nota, qua e là, racconta la vita dei signori, uno per uno, la storia di una casata, della città di cui avevano preso possesso, le lotte per sopravvivere, i fasti e le grandi operazioni politiche, fino alla fine, fino a quando scomparve. Una galleria di personaggi, evocati da poche linee, in italiano arcaico, si sfogliano come pagine di un libro di storia, quasi udendo danze rinascimentali, tratti curiosi, patti e congiure quasi sussurrate, tra queste pietre squadrate, possenti e, infiine silenziose. Cosi', ho pensato che lascerò siano alcune di queste descrizioni, un po' curiose, un po' altisonanti, ad affiancare questi passi, quasi come se il Castello Estense rimanesse ancora loro, e si muovessero invisibili, di stanza in stanza, accostando arte all'arte, ciò che rimane, a distanza di secoli, di epoche, talvolta quella che era allora semplicemente vita e che ora si eleva a testimonianza delo spirito.

 

"Io vidi celesti dee, ninfe leggiadre e belle,
novi Lini ed Orfei; ed altre ancora,
senza vel, senza nube,
e quale e quanta a gl'immortali appar,
Vergine Aurora sparger d'argento
e d'or rugiade e raggi; e fecondando illuminar
d'intorno vidi Febo, e le Muse;
e fra le Muse Elpin seder accolto..."

(Torquato Tasso)

 

 

"...Borso era un uomo prestante, di statura superiore alla media, aveva bei caplli e un aspetto piacevole: loquace, stava ad ascoltarsi mentre parlava, anche perché la sua conversazione piaceva più a lui che agli ascoltatori. Sulle sue labbra molte lusinghe e insieme molte menzogne... Ovunque si recasse, fra i suoi sudditi, il popolo non aveva per lui che voci di plauso, ma in terra straniera il suo nome era disprezzato, nonostante egli usasse dire che Ferrara era la scuola in cui gli Italiani avevano imparato tutto ciò che sapevano, ed egli era il maestro che a quella scuola presiedeva..."

 

E' un tratto veloce che da solo crea, materializza e come un alito, lo stesso delle donne cui restituisce forma e vita, sfugge via. Si', lo stesso pittore, quello della Belle Epoque e delle donne eleganti ed impossibili. Scorre, via, tra i salotti, le strade di una città illuminata la sera, sulle acque in movimento della Laguna. Scorre, quasi fosse poesia, versi raffinati o volute che si sollevano, come segni veloci di matita su un foglio appallottolato.

 

"...Al cardinal Ippolito era stato detto da una donzella che valeva più gli occhi di Don Giulio che non valeva tutto lui, et per tal parole detto cardinale gli havea fatto cavar gli occhi con stecchi aguzzi nella campagna di Belriguardo... et era stato in prigione 53 anni, 6 mesi e 17 giorni, et chi non era vecchio o sapesse ben le cose della corte non sapeva la prigionea di questo signore. Et io per me non lo sentei mai nominare, come se non fosse mai stati a questo mondo: e quando fu liberato mi parse - come anco alli due terzi di Ferrara - ch'el venisse dalla più estrema parte del mondo..."

 

Ed era poeta, nel senso stretto della parola, Filippo De Pisis. Si tratti di una delle città vissute lungo una vita, una riflessione filosofica od un mazzo di fiori. Anche e quando scende la sera, scura e silenziosa là fuori, e quegli stessi fiori, quasi appassiti, sembrano ormai uscire dal vaso, distaccati da un mondo che si allontana, proprio come una falena, appoggiata al davanzale, un istante soltanto. Ed il rumore delle strade, ogni cosa in movimento, le persone, le carrozze, scompaiono dietro una linea di colore che già si fonde nel cielo.

 

"...[Leonello] Aveva un modo di parlare dolce, la fronte derena, gli occhi allegri, e si muoveva sempre con compostezza, avvenente com'era... Aveva un ingegno cosi' vivace da non tralasciare quasi nessuno degli esercizi intellettuali: sempre assorto nella scrittura e in pensieri elucubrativi in inverno, d'estate dopo i doveri di governo si dedicava volentieri alla lettura e alle dispute letterarie..."

 

 

"...[Ercole I] Lui s'é piato tuti li piaceri che li é parso, e con musiche e con astrologie e negromancie, con pochissima audencia al suo puopulo... più tirano che mai benché se mostrava esser grande helimoxiniero e chatolico: la mazore parte del tempo vestiva de pano de lana et in testa uno capello pelloso, hora de uno collore e hora de l'uno l'altro..."


"Eleganti ritratti di protagoniste della Belle Epoque tra sale rinascimentali fastosamente decorate, camerini segreti che fanno da scrigno a paesaggi e nature morte pulsanti di emozioni. La città estense conserva le più ricche collezioni di opere di Boldini e De Pisis: questi tesori sono rimasti celati in seguito al terremoto del 2012 e torneranno accessibili al pubblico grazie all’allestimento nelle sale del Castello previsto fino alla riapertura dei musei a Palazzo Massari.
Nel sontuoso appartamento di rappresentanza al piano nobile si svilupperà un racconto per immagini dell’intero percorso boldiniano, attraverso una vasta selezione di dipinti e opere su carta: dalle prime prove eseguite a Firenze accanto ai macchiaioli, ritratti che hanno l’immediatezza della pagina di un diario, alle brillanti invenzioni che evocano le atmosfere della vita moderna nella Parigi degli impressionisti, fino alle icone della pittura boldiniana, effigi di aristocratiche quali la contessa de Leusse o Madame Lydig, quando Boldini si era ormai imposto come interprete incontestato del ritratto della Belle Epoque.
Nei celebri Camerini di Alfonso I, il testimone passa a De Pisis, altro più giovane ferrarese attivo sul palcoscenico parigino. Il percorso restituisce un intenso ritratto della personalità artistica depisisiana, a partire dalle testimonianze del periodo giovanile, dense di memorie, sogni e speranze alla vigilia del trasferimento a Parigi, per concentrarsi poi sulle creazioni della maturità, quando l’artista ha assimilato il ricordo di De Chirico e della pittura metafisica e plasma un linguaggio del tutto personale, trascrizione pittorica delle emozioni vissute nella Ville lumière. A chiudere il cerchio saranno infine le opere dell’ultima stagione in cui la poesia delle immagini si spoglia fino all’essenziale."

 

"...[Alfonso I] Era di statura onesta, mente grande, di faccia lunga, di aspetto grave e  signorile, ma piuttosto malinconico e severo che liscio e giocoso... et peritissimo musico, ebbe grandissimo giudizio d'armi, d'uccelli e di cavalli, fu mirabil nuotatore e della maggior parte di quelle arti che son ad uso e necessità degli uomini sapea più che mezzamente parlare e di molte eziandio di propria mano lavorare non mediocremente né volgarmente; delle quali sendo poi anco duca si prese spasso ed esercizio, quando non avea occupazion d'importanza..."

 

 

"...[Alfonso II d'Este] Quand'é in Ferrara i giorni festivi tiene quasi sempre pubblica corte, né piglia godimento maggiore d'esser salutato e corteggiato con umilissimi inchini da corteggiani et gentiluomini suoi sudditi, per il mezzo de' quali passando per andare alla cappella dove ode messa alle riverenze spessissime che gli fanno si vede gonfiar apparentissimamente... Ha la pronuncia articolata; ma la voce viscosa e crassa, apre molto gli occi quando spiega il concetto suo; et gira molto spesso il capo: tutti gli altri gesti sono pieni di decoro e venusità. Nel procedere gentile  emanieroso, né é quasi possibile far con più garbo et con più destrezza cerimonie di quelle faccia egli..."


 
 
 

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Post n°549 pubblicato il 24 Maggio 2015 da enodas

 

 

 

"Gran stupor! A chi vede ste piture
Ghe par de veder carne, vita e senso"

 

Erano le Belle. Le donne della borghesia veneziana che ammantate di tessuti preziosi diventavano protagoniste dei suoi dipinti. Giunto dalle valli bergamasche, Palma il Vecchio assorbì presto il mondo veneziano, i colori che creavano della scuola lagunare, e gli sfarzi della Repubblica. COn sé recava quel mondo, che non mancava di comparire, sullo sfondo, sulla scena, quasi una punta di nostalgica narrazione delle terre d'origine. Ed al centro, campiture di colore, accostamenti audaci, creavano forme, tessevano velluti e ricamavano stoffe raffinate. Così entravano da protagoniste. Cantando la propia bellezza con nobile semplicità ed uno sguardo sospeso tra intimità e malinconia, con sguardo intenso seppur privo di slancio drammatico. Il senso tremava, negli occhi di chi osservava, scosso da una sensualità nascosta, indotta nell'animo, allora come oggi. Sono loro, queste figure che rimarranno senza nome ad esercitare un'attrazione magnetica. Le Belle, appunto. Anche quando diventavano personaggi di una sacra conversazione o una scena della tradizione religiosa.


Queste, dunque, le immagini più belle. Unite ad un attenzione ai particolari e a sottili trasparenze che talvolta venivano svelate ai miei occhi profani. Molto celebrata come evento, non so onestamente dare un giudizio definitivo su questo percorso. Un percorso dall'allestimento intrigante, con riproduzioni di pavimenti rinascimentali tratti dalle opere così come da altri dipinti dell'epoca, citazioni trascritte lungo i corridoi, e pareti dipinte che creavano spazio attorno ad ogni opera. Leziosa l'audioguida (inclusa), narrata dal curatore che sì guidava da un quadro all'altro, ma con tono eccessivamente impostato, a tratti lggendo per intero i pannelli esplicativi. La sensazione che ho provato é di non aver saputo cogliere qualcosa, scoraggiato dal numero esiguo di dipinti (per quanto limitati dalla contenuta produzione artistica del pittore), dal mio occhio non sempre ammaliato e da una linea conduttrice difficile da seguire. E dati i riferimenti ad un'epoca che si vuole raccontare fortemente influenzata da questo artista, così inserito nella realtà della scuola veneziana, per quanto si tratti di una mostra monografica, la mostra avrebbe forse potuto essere integrata di altri autori? Detto questo, resta impressa, e valorizzata, la bellezza così come definita dalla sensibilità di un'epoca e di un uomo, che silenziosa ancora racconta, nell'eco sfumato della gloria veneziana, una storia senza tempo.

 

 

"Non vi é una linea e neppure un segno nelle sue opere che non rivelino lo spirito di uno che può pretendere sotto ogni riguardo di essere stato originale. La vera fonte alla quale egli attinse é più distante di quanto non abbiano immaginato gli storici; sarà trovata in Giovanni Bellini, Carpaccio, e Cima; e, partendo da questo punto, Palma divise con Giorgione e Tiziano l'onore di modernizzare e rigenerare l'arte veneziana."


"La nave della pittura veneziana ha disegno di Giovanni Bellini, opera viva creata da Tintoretto, timone per orzare fatto da Giorgione, per ammiraglio Tiziano, ma chi l’ha impalmata dandole la possibilità di essere messa in acqua e navigare nel grande mare della pittura mondiale è Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio, primo ufficiale."


“...un tocco di pennello d’esquisita finitezza, unito a morbidezza di colorito, di vera carne naturale, che si può dire con verità che niuno abbia unita la diligenza e la tenerezza com’egli che fu unico Maestro. Di una perfezione non ordinaria“

 

 

“Palma divise con Giorgione e Tiziano l’onore di modernizzare e rigenerare l’arte veneziana”: sono le parole di Giovanni Battista Cavalcaselle, nel 1871, a definire quanto la qualità pittorica, l’estrema abilità tecnica e la sagacia della tavolozza di Iacomo Negreti, detto Palma, ne faranno fin dal secondo decennio del Cinquecento il pittore forse più apprezzato dalla committenza privata veneziana, in un gusto collezionistico che si allargherà poi all’intera classe dirigente nobiliare europea.

Nato intorno al 1480 a Serina ma presto giunto a Venezia, emerge chiaramente per il ruolo fondamentale nella capitale lagunare, capace di raccordare l’arte dei maestri Giovanni Bellini e Cima da Conegliano con le meditazioni sulla lezione di Giorgione e il continuo confronto e dialogo con la pittura di Tiziano.
Nel secondo decennio del Cinquecento, centrale a Venezia per la costruzione di un nuova estetica, tanto nella pittura quanto nella letteratura, il ruolo di Palma è essenziale nel corrispondere ai nuovi gusti. Egli inventa e costruisce un canone di bellezza femminile, tratteggiata con immediata sensualità, che darà vita all’ideale della proporzione femminile del Rinascimento maturo, tanto nei suoi “ritratti” ideali e poetici, quanto nelle sue sante, che offre a una committenza privata attenta al piacere della contemplazione artistica più che alla devozione. Il naturalismo che sviluppa a partire dal paesaggio e dai volti di sante e santi corrisponde pienamente alla nuova stagione e anche a quel desiderio di fuga dalla storia, di ritorno ad una natura vissuta come luogo di serenità e intimità, che si chiede alla poesia.
Quella di Palma è una poesia fatta di sguardi, racconti, nostalgia, scoperte e aperture con immancabili rimandi ai luoghi natii donandoci una raffigurazione della spettacolosa bellezza del visibile.

Una poetica e un’altissima arte che per la prima volta si riesce a celebrare nell’eccezionalità di una mostra monografica, capace di raccogliere a Bergamo quasi quaranta capolavori dell’artista orobico. Capolavori raccolti in una mostra ove gli amplissimi apparati didattici e il suggestivo allestimento concorreranno a restituire al visitatore la sorpresa provata da Giorgio Vasari, così commentando nel 1568 la Burrasca infernale, l’enorme telero richiesto all’artista orobico dalla veneziana Scuola Grande di San Marco a segnare una grandezza ormai pienamente riconosciuta dalla Serenissima Repubblica: “Che più? Io per me non mi ricordo haver mai veduto la più horrenda pittura di quella; essendo talmente condotta, con tanta osservanza nel disegno, nell’invenzione e nel colorito; che pare, che tremi la tavola, come tutto quello che vi é dipinto fusse vero. Per la quale opera merita Iacopo Palma grandissima lode e di essere annoverato tra quegli, che posseggono l’arte.”

(dalla presentazione alla mostra)

 

[...]

 

 

 
 
 

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Post n°548 pubblicato il 20 Maggio 2015 da enodas

 

 

"Cinque son le vie che mi portano a te
Cinque i sentieri che mi parlano di te
Cinque son le terre
Terre di mille fatiche
Cinque le farfalle che vivono in me."

(Elisabeth Booms)

 

 

Sin da quando sono arrivato, la sera, ho desiderato sedermi ed ascoltare. Scendere il parapetto, verso la lingua di sabbia che é la spiaggia, o davanti al porticciolo che che si apre davanti alle case, una fianco all'altra. Così, questa sera, ormai prima di partire, mi ritrovo qui. Luci soffuse alle spalle e stradine che scompaiono prima di inerpicarsi, entro pochi metri, oltre la vista. Sono deserte, completamente. Ma non c'é silenzio. No, non del tutto. Non per come lo si intende comunemente, almeno. E' un rumore, un suono costante, l'infrangersi di onde che indebolite giungono fino a riva, increspano, e poi si ritirano, con l'acqua che smuove i sassolini, in un rigurgito che é un misto di sibilo e ruggito. E l'oscurità che mi avvolge, si proietta in questo suono costante, ripetitivo, un notturno senza fine, che mi parla nel profondo, in quello stesso buio che mi nasconde l'indefinito del mare, dinanzi a me, presente, con la sua voce, le sue vite, ed in me stesso.
E così, con il corpo che sente ancora l'acqua fresca, del mare, a  contatto, soltanto poche ore prima, mentre il sole calava, a ponente, e si nascondeva dietro la costa, osservo avanti ed alle mie spalle. Cosa vedo, i colori, sgargianti e vivaci, pastello, delicati uno sull'altro. Sono illuminati dal sole, a volte oscurati da nubi improvvise, uno scroscio di pioggia e poi la luce, nuovo. Sono pace e bellezza, quasi fuori da l mondo, una terra dopo l'altra, una terra più bella dell'altra, gemm nascoste da rivelarsi dopo strade tortuose. Vedo, e sento, il sapore del mare, nell'aria, così come nel cuore, che si sente sfiorato da un tocco sopito, e nelle cose, nelle barche tirate e secco e nel profumo del cibo.
Difficile immaginare luoghi così.

 

 

"Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio..."

(Eugenio Montale)

 

Ecco la scala. La salita. Avrà inizio, gradino dopo gradino, sulla strada mi inarpicherò. Per confondermi nella vegetazione, cercare l'ombra di un albero, respirare. E sì, voltarmi indietro, a guardare lo strapiombo che mi sto lasciando alle spalle. Da qui posso abbagliare i miei occhi di quell'azzurro che rende invisibile la linea dell'orizzonte. In salita, una goccia di sudore, un respiro profondo: quello di arrivo, a metà strada, ma che é anche cima. Il mare lo domino così, con gli occhi, nel silenzio che circonda un santuario, le sue storie che si perdono nel tempo e si rivelano come una scoperta attraverso un racconto, appollaiato su una terra in discesa, quasi in picchiata, verso l'acqua, e due tavolini. Ora la strada sarà in discesa, dolcemente, verso la prossima terra, verso un altro paese che in linea d'aria é solo pochi chilometri. E quella linea intracciabile, sfumata ed inesistente mi segue, sulla destra, mi accompagna e come magnete richiama il mio sguardo. Perché ora ogni passo posso goderne la vista. Sfiorando steli d'erba che arrivano fino alle mani. Attraverso, attraverso. Seguo una piccola linea di terra tracciata lungo il costone. Quando inizia a tramontare. Il mio racconto ha quasi termine: dietro un mazzo di fiori, sotto di me, la meta, la città illuminata dal sole, il mare che schiuma ai suoi fianchi. Sono arrivato, per oggi. Colore, pastelli nel cuore.

 

"La montagna si tuffa nel mare profondo
a cercare refrigerio dal sole
che scalda i chicchi d'uva ad uno ad uno
e scotta la pietra che si erge maestosa e imponente
a lambire il cielo."

(Mogol)

 

 

Golfo di poeti, e terra strappata alla natura. Del resto, non mancono di sottolinearli, entrambi gli aspetti, tra parole incise nella pietra e segni tracciati sul terreno. Sembra quasi difficile immaginare come effettivamente siano sorti questi villaggi. Uno appollaiato sulla roccia, gli altri divisi tra terra ed acqua: laddove un minimo riparo lo consentiva, mani hanno scavato verso la montagna ed al tempo stesso si sono protese, quasi a strappare un minimo spazio vitale, nel mare. Ed infatti si presentano, così le Cinque Terre: incastonate nelle pieghe della costa. Belle, bellissime oltre ogni immaginazione, lambite da un mare cristallino, ancora co quell'aria un po' da dimenticate, a dispetto delle folle che compaiono di giono e del nome che hanno tra i viaggiatori esteri. Fragilissime, come testimoniano quei sentieri colpevolmente lasciati inagibili. Fragilissime come il silenzio che le avvolge, con un senso di tranquillità e quella soddisfazione che si prova quando si arriva da qualche parte, ogni volta che si giunge in una delle cittadine. Cambiano colore, all'ora della giornata. Ed ogni passaggio é una scoperta, una di quelle barche alla deriva, pronta ad essere tirata in acqua, o una delle rocche, immancabili nella linea del cielo, come il profilo di una chiesa nascosta, o l'abbraccio di una piazzetta infilata dietro un paio di arcate, ogni passaggio si svela, ad un dato momento del giorno, attraverso gradini, salite, o curve scavate nlla roccia a picco sul mare. Dietro, il mare sibila incessantemente, mentre davanti, il sole scompare dietro la terra seguente.

 


"... Il bacio del poeta
posa lettere sulle labbra
parole nella bocca
un'impronta sul cuore.

...Appena percettibile
accarezza il cuore
espone pensieri
disegnando sulla retìna
immagini d'amore
come un pennello sussurrante."

(Elisabeth Booms)


 
 
 

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Post n°547 pubblicato il 14 Maggio 2015 da enodas

 

 

E' stata una strana associazione di idee a ricondurmi qui. Una fettina sottile di zenzero per il the più buono della Palestina. Sono tornato ad una giornata di sole, ormai un anno fa, di già. E la strada assolata di Betlemme, una voce che mi invita, ad un angolo della strada. Ed un sorriso bonaccione che esce da quello che in realtà é poco più di un garage, invitandomi a sedere ad un tavolino da giardino a bere il the più buono che possa gustare in questa terra assolata. Che sono pure in compagnia di alcune ragazze, volontarie qui a Betlemme. Eccolo, allora, menta, limone, zucchero ed una fettina di zenzero. Cinque shekel e chissà che altro. Lui esce, sparisce dietro una strada col vassoio pieno di bicchierini di the e caffe, per distribuirli di qua e di là e tornare dopo poco al suo bar. Amico mio, che mi riconosci per strada, giorno dopo giorno, e con sorriso mi inviti a bere l'essenza del deserto, il tuo volto rimane impresso come il sapore dolce della menta e quello pungente delle spezie. Come la luce, calda tra le vie strette di una città antica, e lo sguardo assorto di un bambino, dall'altra parte della strada, appoggiato ad un muretto, o altri due, un po' più grandi, che nel cortile dietro la chiesa vogliono giocare a pallone. Questa immagine rimane, come molte altre, di un viaggio che mi ha toccato come non mai. E proprio come per me, anche nel blog, ritorna. A volte per rivederle, quasi chiudo gli occhi e le osservo nel buio. Magari cercando di ricreare quel the un po' speciale.
Ed é già passato del tempo.

 

 
 
 

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Post n°546 pubblicato il 12 Maggio 2015 da enodas

 

 

...se qualcuno ti dice di sussurrare all'orecchio sinistro perché si trova più vicino al cuore...

 

 
 
 

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Post n°545 pubblicato il 09 Maggio 2015 da enodas

 

E' un altro amico che se ne va. Lontano, tornerà a casa. In fretta, praticamente un battito di ciglia. Sono passate sì e no un paio di settimance che ha annunciato: "lo scorso mese, che sono tornato a casa ho conosciuto la mia futura sposa, tra qualche mese siete invitati al nostro matrimonio". Lontano, e già il tempo scorreva velocissimo. Oggi ci ha detto che sarà ancora più veloce: un lavoro già lasciato, praticamente un biglietto di solo ritorno in tasca.
Poche settimane, appena.
Ma la sua vita é già cambiata, proiettato com'é su una nuova strada, ed in quel mondo dal quale proviene. A parte questo, che ovviamente é difficile da comprendere per le distanze culturali, ancora più complicato da capire, se si pensa che sì, é anche vero che per anni ha vissuto in un mondo diverso del quale ha assorbito inevitabilmente i caratteri. Ancora una volta é proprio vero che la felicità é qualcosa di impossibile da definire, ancora di più se mai si avesse la presunzione di applicare la stessa definizione ad altri. A parte questo, sempre più velocemente, vedo un altro amico in partenza. Un amico importante, di questi anni. E come altre volte, é come un puzzle che si sgretola, in questa terra di passaggio, dove molti - appunto - passano, lasciano un segno, chissà, e proseguono. Sempre più persone sono andate. E' sempre così comunque, ancora di più, in questo contesto in continuo movimento. E non c'é molto da fare, che essere contenti, ovviamente, per un amico, per una nuova strada, e probabilmente accettare come inevitabile quel po' di malinconia che questo accada, che a poco a poco un gruppo di amici si allenti, fino a frammentarsi, per la strada di ognuno, a volte disperatamete cercando di intuire la propria.

 

 
 
 

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Post n°544 pubblicato il 02 Maggio 2015 da enodas

 

 

 

Avevo quasi scordato cosa significhi quell'atmosfera "British" su cui magari si scherza ogni tanto. E' bastato scendere per strada, camminare tra le case in mattoni tutte simili, entrare in un pub rivestito di moquette e mille cianfrusaglie alle pareti e quasi spostare con le mani quell'aria di luogo sovraffollato. E' bastato sentire l'accento e quasi non capire. Ed il profilo dei comignoli, le strade un po' grigie, gli autobus a due piani.
C'é un luogo di Manchester in cui tutto sembra fuori posto. Una via soltanto, lunga poche decine di metri, giusto dietro la cattedrale. Vi si affacciano due pub, un paio di edifici a graticcio ed un apssaggio stretto. E' un'eco momentanea di un mondo talmente lontano, di un passato nascosto, quasi sepolto, da una città moderna che vive da millenni, ha nel nome una derivazione latina, ed ha vissuto in pieno la Rivoluzione Industriale prima, dello sviluppo economico dell'ultimo secolo poi.
E' così che mi sono ritrovato tra i silenzi di biblioteche contenute  tra arcate gotiche e teche di lucido legno scuro, e subito dopo girovagavo nel silenzio di edifici di industria pesante ormai sprofondati in un letargo che é quasi un oblio. Due aspetti che convivono e si fondono.
E poi, ho immaginato soltanto il rimbombo caotico del tifo avvicinandomi ad uno dei tempi del calcio: allora il silenzio irreale di una domenica senza partita rendeva le strade verso l'Old Trafford ancora più deserte. Lo stesso di una mattina dopo una serata da sbornia, quando una nebbia grigiolina prende forma senza che si sia materializzata realmente, ma esala dalle strade ancora dormienti.

 

 

Ho immaginato un cavaliere. Nel buio della sera arrivava, sotto un cielo grigio che rovesciava secchiate d'acqua. Le mura si imponevano dinanzi a lui, ed un portone, tra esse improvviso si apriva. Dentro era un dedalo di strade, stradine, strette e lastricate su cui si affacciavano insegne, locande di legno e case ammassate, qualcuna inclinata, con i graticci di legno in bella vista. Le luci si riflettevano, diffure sui sanpietrini bagnati. E folate di vento attraversavano la via.
Lo stesso cavaliere si muove, tra i vetri istoriati di una finestra enorme, una finestra su un mondo, che narra storie su storie, un Medioevo intero, una sequenza quasi infinita, da perdercisi dentro, tra colori improvvisamente illuminati dal sole e personaggi. Cammino letteralmente su secoli di storia, lungo l'asse di un castro romano, tra le fondamenta dei pilastri della terra.
Eccomi, dunque, tra casate reali, Rose che non sono soltanto quelle fiorite nel giardino dietro le cattedrale, immenso, di York, che svetta nel paesaggio da miglia di distanza. E lungo le mura, di rimando, scruto il mondo oltre, al di fuori, e quell'universo che si cinge attorno a quella cattedrale, all'interno. Eccomi, lungo una stradina che sarà poche centinaia di metri, un tempo appartenuta a schiere di macellai, e come ombre spettrali gli edifici quasi si incurvano sopra la mia testa. E di spettri é piena, la città, non potrebbe essere diversamente, siano essi nomi di re, leggende di uomini o pietre diroccate che tratteggiano linee gotiche. Come figure scure e silenziose scivolano, nella notte, tra le vie chiuse in una penombra, guardandosi bene di nascondersi da quelle fonti di luci e di vita corrente che filtrano dalle finestre. Suggestivo. Scivolo come il vento.

 

 

Sembra di trovarsi in uno di quei film, o tra le pagine di un libro, ancora meglio, di Jane Austen o di una delle sorelle Bronte. Prima ancora di varcare il cancello, lo senti, osservando una linea continua ed un tappeto verde della campagna inglese. Tutto sembra un abbozzo idilliaco, un dipinto dell'Ottocento inglese, un'eleganza ostentata ed un costrutto intero di buone maniere, piacevole e tranquillo. I nomi stessi dei luoghi quasi mi portano tra quelle pagine. Sotto un cielo che é sole e abbozzi di nuvole, lungo la riva di un lago, salendo un pendio e da lontano inseguendo il profilo di un castello, un cancelletto affiancato da due querce si apre sul nulla, ancora verdo, una distesa regolare che si perde alla vista. Passaggio illusorio. E parla, con quell'accento forte, che poi é la lingua reale, la parlata originale, stanza per stanza, dove le informazioni sono persone, personaggi che sembrano usciti da un'altra epoca, ognuno secondo i suoi canoni, che si avvicinano e parlano, testimoni curiosi e reali degli spazi nei quali si muovono, del mondo che rappresentano.

 

 
 
 
 
 

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