Creato da nuraghin45 il 02/10/2010

Fantasia +

Fiabe, leggende,racconti, storie ...

 

 

Il palloncino magico

Post n°4 pubblicato il 05 Ottobre 2010 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

IL PALLONCINO MAGICO

Personaggi: principessa - elefante - cane - cavaliere.
Luoghi: castello - giardino

Prima parte

C'era una volta una principessa di nome Viola che viveva in uno splendido castello. Attorno alla costruzione c'era un immenso parco che ospitava numerosi animali. La principessa non aveva nessuno con cui stare e spesso usciva nel parco per cercare qualche bestia con cui giocare un po'.
Ma soltanto un elefante accettava le sue carezze e si mostrava affettuoso. Il pachiderma era sempre molto triste perché sentiva la nostalgia per la sua terra, l'Africa, dove aveva lasciato i suoi genitori e i suoi fratelli adorati. Quando pensava alla sconfinata savana, ai giochi in riva al fiume e alla saporita erba di cui si cibava, gli veniva una gran malinconia. I suoi occhi divenivano lucidi e un lamentoso barrito usciva dalla sua bocca.

Allora la principessa gli si avvicinava e gli accarezzava le grandi orecchie per farlo calmare e dargli un po' di conforto. Anche lei capiva che il suo amico sarebbe stato molto meglio nella sua terra ma non sapeva come fare per riportarlo in Africa. Oltre a ciò, pensava al suo futuro di solitudine. Se avesse perso quell'unico compagno sarebbe rimasta completamente sola, e nessuno allora avrebbe allietato le lunghe giornate al castello.

In una bella mattinata di primavera i due amici decisero di andare a cercare nuove avventure fuori dal parco. La principessa stava seduta sull'ampio dorso dell'elefante che procedeva tra alberi e siepi in fiore per un sentiero di campagna. Ad un tratto si bloccarono a causa di un curioso animale che faceva strani versi, e si era fermato proprio davanti alle zampe del pachiderma impedendogli di procedere.
La bestiola era attratta soprattutto dalla grossa proboscide che l'elefante sollevava ed abbassava, e si mise a giocherellare spiccando buffi salti. Viola osservava la spassosa scena e rideva come mai le era accaduto prima. Ordinò al suo amico di sollevare lo strano essere e l'elefante ubbidì prontamente. L'animale era un piccolo cane molto giocherellone, che fece molte feste e ricambiò le carezze con leccatine alle mani e festosi gridolini. La fanciulla decise prontamente di portarlo con sé al castello.
Con il cagnolino la vita della principessa cambiò completamente. Ora aveva un piccolo amico che non la lasciava mai, scodinzolava ed abbaiava felice ogni volta che sentiva la sua voce, e non si stancava mai di giocare.

L'elefante però sentiva ancora più acuta la nostalgia per la sua terra e la principessa, distratta dal nuovo amico, talvolta non s'accorgeva nemmeno dei suoi momenti di sconforto. Allora egli barriva disperato, soprattutto nelle belle mattinate estive, quando il caldo sole gli ricordava le roventi giornate tropicali trascorse in riva al fiume a rinfrescarsi con abbondanti spruzzi d'acqua, insieme con i fratelli più grandi. Il cagnolino, sentendo la sua pena, gli andava vicino, gli leccava le grosse zampe, giocherellava con quel grosso "naso" e gli mordeva delicatamente le zanne, quasi fossero dei gustosi ossi da rosicchiare. La principessa infine capì il dolore del pachiderma e nel suo intimo pensò che fosse arrivato il momento di farlo tornare in Africa, visto che ormai lei aveva già qualcuno con cui trascorrere le giornate. Ma come fare?

L'Africa era lontana; bisognava percorrere grandi pianure, montagne innevate, strette valli, fiumi, dirupi e strapiombi per raggiungerla. Come avrebbe fatto un animale così grosso ad affrontare un così lungo e faticoso viaggio? E poi, ad un certo punto, sarebbero arrivati al mare... e allora? Come avrebbero fatto ad attraversare quell'immensa massa d'acqua? No, non era proprio possibile. Soltanto volando il nostro amico avrebbe potuto raggiungere la sua terra, ma purtroppo non aveva le ali.

Più passavano i giorni, e più i tre amici diventavano tristi. Ormai nessuno aveva più voglia di giocare e divertirsi. Tutti e tre, giorno e notte, cercavano una soluzione per quell'inquietante problema. Ma nessuna idea sembrava realizzabile, nessun progetto sembrava buono.
La principessa stava per intere giornate chiusa nella biblioteca a consultare atlanti e vecchi libri alla ricerca di qualche suggerimento utile. Cerca e cerca, andò a frugare in una cassapanca abbandonata in un angolo del sotterraneo. C'erano tubi di vetro, ampolle piccole e grandi, ed infine, proprio sul fondo, giaceva un libro. Era scritto a mano in una lingua un po' differente dalla sua.


In una pagina trovò un disegno che raffigurava un palloncino minuscolo, e, accanto, un grande pallone che sorvolava il mare e la terra. Un'altra illustrazione mostrava un buio labirinto dove vagavano strani personaggi. Provò quindi a leggere le arcane parole:


- Dove il sole cala stanco
c'è un castello nero e bianco.
Arrivare non si puote
se le teste son zucche vuote.
Sotto terra nel più scuro
in un loco assai securo
un pallone puoi trovare
che sorvola terra e mare.
Sol due volte tentar puoi
il percorso come vuoi.
Alla terza, oh gran doglianza,
diverrà la scura stanza,
una cella od un avello
per chi è senza cervello.

La principessa lesse e rilesse con molta attenzione, osservò anche i minimi dettagli dei disegni ed infine capì che in un lontano castello, che si trovava ad occidente, esisteva un pallone magico che poteva diventare grandissimo e che poteva volare sul mare. Però era difficilissimo impadronirsene perché era custodito nelle segrete della costruzione. Per avere il palloncino occorreva conoscere il percorso esatto. Non si poteva sbagliare il percorso per più di tre volte. Ma il malcapitato che avesse sbagliato, sarebbe rimasto rinchiuso nel sotterraneo insieme con il palloncino, fino al momento in cui qualcuno non l'avesse finalmente ritrovato. Già diversi cavalieri avevano cercato di impadronirsi del palloncino per provare la gioia di volare liberi nel cielo come gli uccelli, ma nessuno era riuscito nello scopo. Essi vagavano ormai da anni e anni senza scampo nei labirinti bui e freddi cercando una via d'uscita che era sbarrata per loro.
Sicura di aver capito tutte le indicazioni, Viola accompagnata dall'elefante e dal cagnolino si mise in viaggio in una bella mattinata di primavera. Sapeva bene che le speranze di riuscire nell'impresa erano minime ma non poteva rinunciare all'impresa.

La principessa aveva portato con sé il libro perché conteneva anche un disegno del maniero. Vi si vedevano le montagne e poi un picco sul quale sorgeva la costruzione. Spesso il cane avanzava annusando il terreno intorno e guidava l'elefante. Per giorni e giorni i tre vagarono attraversando pianure verdi di grano e rosse di papaveri finché in lontananza, quasi al confine del regno, videro delle alte montagne. Proprio nel punto dove il sole stava per tramontare la principessa vide un castello costruito con pietre scure e chiare, su un alto picco. Forse era il luogo che stavano cercando. Davanti a loro stava ora un fitto bosco che l'elefante a stento riuscì a percorrere passando tra la fitta vegetazione.  

 
 
 

Il palloncino magico

Post n°5 pubblicato il 07 Ottobre 2010 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

IL PALLONCINO MAGICO

Seconda parte

Ad un tratto grandi uccelli si misero a volare davanti a loro, ma quando il cane si mise ad abbaiare, si dileguarono lanciando alte grida stridule.

Le grosse zampe dell'elefante riuscirono a guadare un torrente dalle acque spumeggianti e gelide che trascinavano rami e tronchi. Dovettero camminare ancora per sette giorni ed infine i tre giunsero alla base della rocca. Sollevarono lo sguardo e videro che il sole si nascondeva dietro le possenti muraglie e calava lentamente tingendo le torri di rosso.
I tre erano felici d'esser riusciti a seguire il percorso esatto per giungere alla meta, nonostante i numerosi ostacoli, ma ora provavano una grande inquietudine guardando quella tetra fortezza che forse era diventata una tomba per coloro che avevano cercato di penetrarvi.
L'enorme portale era socchiuso e l'elefante lo spinse appoggiandovi la testa. La porta s'aprì con un fortissimo cigolio e ai nostri tre amici apparve un cortile spazioso e vuoto.
Erano troppo stanchi per procedere nella ricerca e decisero di riposarsi per quella notte. Avevano con sé ancora molte provviste e, dopo aver cenato, s'addormentarono nel vasto salone del castello. L'indomani mattina iniziarono ad esplorare il sotterraneo. Avrebbero cercato di scoprire tutti i passaggi nelle due ricognizioni consentite. Dopo aver trovato la giusta strada sarebbero riusciti nell'impresa, la terza volta. L'elefante era troppo grosso per poterli seguire. Lui sarebbe rimasto ad aspettarli e, in caso di bisogno, li avrebbe aiutati in qualche modo.

Per primo andò avanti il cane. Con il suo fiuto non avrebbe avuto difficoltà a ritrovare la via del ritorno. La principessa lo seguì stando attenta a non inciampare sul pavimento sconnesso. Ben presto s'accorse che l'impresa era pressoché disperata. Alle pareti stavano appesi grandi specchi che confondevano ancora di più, e i corridoi si diramavano continuamente a destra e a sinistra creando incertezza e disorientamento. A tratti s'udivano strani e paurosi rumori che venivano ampliati e distorti dal complesso dei cunicoli.
La fanciulla teneva in mano una torcia per illuminare il percorso e temeva d'incontrare trappole o botole aperte sul pavimento. Dovette camminare sulla sabbia, su un ponticello traballante, su uno strettissimo palo sospeso nel vuoto, su migliaia di biglie, sul ghiaccio sdrucciolevole; dovette attraversare bassi, lunghi e stretti cunicoli dove mancava anche l'aria, dovette calarsi in profondi pozzi, ed infine si trovò davanti ad una stanza allagata.

Il percorso finiva lì. Non era quella la strada per arrivare al palloncino. Ora bisognava tornare indietro. Risalì i pozzi, riattraversò i cunicoli, ripassò sul ghiaccio, sulle biglie, sul palo, sul ponticello, sulla sabbia, e poi si trovò di nuovo tra gli specchi e i corridoi. Il cane procedeva sicuro ma ad un certo punto si fermò disorientato. Un forte odore di fumo proveniva non si sapeva da dove e la povera bestia non era più in grado di ritrovare la via. I due iniziarono a vagare senza capire più niente e si ritrovarono sempre nello stesso luogo. Il tempo passava e anche l'elefante cominciava a preoccuparsi. Allora s'avvicinò all'ingresso e si mise a lanciare lunghi barriti. Il cane rizzò le orecchie e sentì distintamente il lontano richiamo. Allora iniziò a camminare nella direzione di quel suono e s'accorse che, secondo la strada presa, il barrito diveniva più forte o più debole. Infine capì qual era il giusto percorso e, dopo tanto girare e camminare, i due trovarono l'uscita.

La stanchezza era tanta che quella notte dormirono tutti e tre profondamente. L'indomani mattina la principessa stava per proporre d'abbandonare l'impresa, ma poi guardò gli occhi dell'elefante e non ebbe più il coraggio di dire nulla. Bisognava tentare, almeno un'altra volta.
Ma ora non si sarebbe più fidata del fiuto del cane, avrebbe cercato un sistema più sicuro per orientarsi nel labirinto. Pensa che ti pensa, capì che solo lasciando delle tracce avrebbe avuto la certezza di non sbagliare. Ma come fare queste tracce? Occorreva della vernice e un pennello per disegnare delle frecce nei luoghi attraversati. Frugò dappertutto nel castello, ma trovò soltanto dei grossi barattoli di marmellata alla fragola. Vide che si poteva usare per segnare le pareti e decise di portarne con sé una buona provvista, insieme con un cucchiaio. I due erano pronti per compiere il secondo tentativo. Questa volta cambiarono strada e si trovarono ad arrampicarsi su ripidissime scale, a scivolare lungo scoscesi pendii, ad attraversare corridoi che si facevano sempre più stretti, a dover saltare delle barriere. Ad ogni svolta la fanciulla lasciava una traccia con la marmellata, assicurandosi che fosse ben evidente. Alla fine i due amici si trovarono davanti ad un'inferriata chiusa. Al di là c'era una grande sala con un tavolo di legno sul quale erano appoggiati numerosi scrigni. Forse erano arrivati al palloncino magico, ma come fare per entrare? La principessa avvicinò la torcia alla porta e vide un cartello. Si mise a leggere:

- Il palloncino, lo vedi, è qua
ma non puoi averlo senza pensar.
La porta s'apre una volta l'anno,
solo i sapienti questo lo sanno.
Solo in un dì s'apre la porta,
nella nottata che è la più corta.

La fanciulla fu felice per essere giunta nel luogo dove si trovava il palloncino, ma s'arrabbiò perché l'inferriata era chiusa. Provò e riprovò a scuotere quel pesante cancello, ma non si mosse neppure di un millimetro. Pareva inchiodato alle pareti. Rilesse il messaggio, ma non lo capì. Forse non era abbastanza sapiente da conoscere la risposta. Che cosa significava "nella nottata che è più corta"? Forse le notti non avevano tutte la stessa lunghezza? Lei non le aveva mai misurate, e le pareva che fossero proprio tutte uguali. E i giorni non erano forse tutti uguali? Non ci capiva più niente. Il tempo passava ma la porta non si apriva. Dal fondo della sala, ad un tratto, udì una voce.

- Fanciulla! Fanciulla! Non andar via! Salvami!

La principessa non credeva alle sue orecchie. Guardò meglio nell'oscurità e vide un vecchio con una grande barba bianca che avanzava lentamente. Alla fine egli giunse all'inferriata e continuò con voce tremolante:

- Io sono l'ultima persona che ha cercato di prendere il palloncino magico, ma la porta si è richiusa al mio terzo tentativo, prima che io potessi uscire. Molti altri erano entrati prima di me, ma si sono persi nel labirinto e di loro non si sa più nulla. Se vuoi impossessarti del palloncino magico, dovrai tornare qui nel solstizio d'estate. In quel giorno la porta s'aprirà, ed io potrò uscire da questo posto maledetto. Però tu dovrai venire da sola, senza il tuo cane. Per ritrovare la via d'uscita potrai servirti del filo di Arianna.

Nel sentire quelle parole la principessa si confuse tutta. Non aveva capito quasi niente. Che cosa voleva dire "solstizio"? E che cosa era il Filo di Arianna? Provava vergogna nel chiedere spiegazioni, perché una principessa non poteva essere così ignorante, ma alla fine capì che se voleva raggiungere il suo scopo doveva servirsi della sapienza del vecchio. L'uomo sorrise quando sentì le sue domande e rispose:

- Il solstizio d'estate è il 21 giugno, ed è il giorno più lungo dell'anno. Io ho tenuto scrupolosamente il conto del tempo che passava e mancano ancora sette giorni al solstizio. Tu conta sette giorni da oggi e poi ritorna qui. Per essere più sicura ogni mattina traccia un segno con un coltello affilato sopra un ramo. Quando avrai tracciato sette segni, saprai che è giunto il giorno fatidico. Mi raccomando, non dimenticarti. Ora risponderò alla tua seconda domanda. Il Filo di Arianna è un semplice gomitolo che tu srotolerai man mano che avanzerai nel labirinto. Al ritorno l'arrotolerai e così arriverai, senza sbagliare, al punto di partenza.

 

 
 
 

Il palloncino magico

Post n°6 pubblicato il 09 Ottobre 2010 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

IL PALLONCINO MAGICO

Terza ed ultima parte

- Quando sono entrato qui non ero così giudizioso, ma ero imprudente ed avventato. Rimanendo qua dentro per tanto tempo, ho avuto modo di riflettere. Così ho capito che, per riuscire a realizzare ciò che si desidera, occorre saper ascoltare e pensare.

La principessa sentì nelle parole dello sconosciuto un gran rimpianto. Quindi lo ringraziò e pensò che fosse il momento di tornare indietro.

- Mi raccomando! Tra sette giorni dovrai tornare! Non sbagliare! -

Il cane procedette sicuro nella via del ritorno, ma ad un tratto si fermò.
Nell'aria si sentì un forte profumo di fiori di campo e non fu più possibile seguire la traccia degli odori lasciati all'andata. La principessa non si preoccupò. I segni lasciati sul muro l'avrebbero condotta all'esterno. Guardò con attenzione le pareti, ma non vide nulla. Allora s'avvicinò al cane e sentì che il suo muso aveva un vigoroso aroma di fragola. La bestiola si fece piccina piccina e si mise a guaire lamentosa. Si sentiva in colpa perché aveva scrupolosamente leccato tutte quelle saporite cucchiaiate di fragola che dovevano servire da traccia. Ed ora? Era inutile cercare l'uscita se non si sapeva dove andare. Erano perduti, non avrebbero più rivisto la luce del sole. Passarono così diverse ore.

L'elefante, preoccupato per il ritardo, si mise a barrire davanti all'ingresso, ma questa volta i due erano troppo lontani e non l'udirono. Infine il pachiderma decise di passare alle maniere forti. Iniziò a scalciare e a pestare con le sue enormi zampe sul pavimento e sulle pareti, tanto che il labirinto rimbombò paurosamente. Il cane allungò le orecchie e sentì dei boati lontani.
Tutto felice, corse a perdifiato per raggiungere il punto dal quale proveniva tutto quel frastuono che diventava sempre più forte. La principessa lo seguì chiamandolo perché la aspettasse, e s'affrettò per raggiungerlo. Quando arrivarono all'ingresso, l'elefante era stremato. La principessa era così felice, che perdonò al cane quella pericolosa marachella. Però decise di non dargli a cena marmellata di fragole, ma solo un pezzo di pane raffermo.

L'indomani Viola s'alzò molto presto, e vide che il sole era già sorto. A ben pensarci, nel periodo precedente, a quell'ora il cielo era ancora buio. Allora era proprio vero: le nottate potevano essere più lunghe o più corte. Ma come aveva fatto a non accorgersene prima? E, in effetti, ricordava come erano lunghe le fredde nottate invernali e come erano brevi quei lividi giorni.
Ora si trovavano quasi alla fine della primavera, dato che era iniziato il mese di giugno, ed in realtà le giornate erano lunghissime.
Quante cose doveva ancora imparare la nostra principessa se voleva diventare una saggia e sapiente regina per il suo popolo! Dove avrebbe potuto trovare tutte le informazioni necessarie per migliorare la sua cultura? Chi lo sa? Forse il vecchio del labirinto avrebbe potuto aiutarla nella ricerca della scienza e del sapere.

Per prima cosa prese un ramo e, con un coltellino, fece una tacca. Aveva imparato che, per raggiungere dei risultati, occorre essere precisi, accurati e scrupolosi nel seguire le indicazioni e i consigli. Avrebbe fatto tutto ciò che il vecchio le aveva raccomandato, perché si fidava di lui.
Il tempo passò lentamente. La principessa non vedeva l'ora di tornare nel labirinto per prendere il palloncino magico, ed ogni giorno contava e ricontava le tacche sul ramo. Infine giunse il momento fatidico. Il giorno più lungo era arrivato. La fanciulla scrutò l'oriente nell' attesa dell'alba ed infine vide che il cielo diveniva sempre più chiaro. Dopo un periodo interminabile il sole apparve all'orizzonte.

Viola doveva iniziare subito il percorso, se voleva arrivare in tempo davanti alla grata di ferro. Prese con sé un gomitolo e, salutati i due amici, entrò da sola nel buio corridoio. In una mano teneva il gomitolo e nell'altra aveva la torcia. Procedeva sicura, senza mai voltarsi indietro, e cercava d'infondersi coraggio.
Ora era veramente sola, nessuno poteva aiutarla, nessuno poteva soccorrerla. Tutto dipendeva da lei. Ormai conosceva bene la strada, sapeva che avrebbe trovato degli ostacoli, ma sapeva anche come superarli.

Quando fu di fronte alla scalinata, dall'alto caddero grosse gocce d'acqua rovente. Lei si fermò ed attese che quella pioggia si calmasse. Di corsa salì sulla ripida gradinata, giusto in tempo per evitare un'abbondante nevicata che rese le scale sdrucciolevoli.
Sentì il cuore che le batteva forte forte, stava per perdersi d'animo e per tornare indietro. Sconsolata, si sedette su una pietra. Se ci fossero stati ancora dei nuovi impedimenti, oltre a quelli già noti, come avrebbe fatto a superarli? I suoi amici erano troppo lontani, e il vecchio era prigioniero dietro l'inferriata. Quello era il suo terzo tentativo, e non ci sarebbe stato scampo per lei se avesse sbagliato. Era ancora in tempo per tornare indietro. Il filo l'avrebbe guidata verso l'uscita, verso la salvezza. In poco tempo sarebbe arrivata all'ingresso e lì avrebbe trovato i suoi amici.

Che cosa avrebbe detto loro? E che cosa avrebbe raccontato all'elefante? Per lui non ci sarebbe stata più la possibilità di tornare in patria, mai più. E lei non avrebbe più potuto guardarlo negli occhi, perché vi avrebbe letto un dolore senza fine ed un silenzioso rimprovero.
Stette a lungo a riflettere ed infine decise che avrebbe continuato, che poteva farcela, che doveva affrontare ogni situazione, come una vera principessa. La discesa fu ardua dato che il pavimento era cosparso d'olio e lei aveva le mani impegnate. Decise allora di sedersi e di scivolare cercando di rallentare la velocità appoggiando i piedi sulle pareti. Procedeva cauta nei corridoi, temendo qualche sorpresa. Ad un certo punto, davanti a lei, si scatenò una tempesta di chiodi e di spilli. Allora si rannicchiò e si protesse la testa con le mani. S'accorse che la tempesta si fermava per pochi secondi e poi riprendeva. Se fosse stata abbastanza veloce, sarebbe riuscita a passare senza pericolo. Attese una pausa della tormenta e schizzò via come una saetta. Si trovò dall'altra parte prima che la pioggia riprendesse. Gliel'aveva fatta! Trovò ancora trappole, buche sul pavimento, lingue di fuoco che la sfioravano, ma nulla ormai avrebbe potuto fermarla. Aveva capito che avrebbe potuto superare tutte quelle difficoltà con l'attenzione e l'impegno e si sentiva forte perché niente riesce a vincere il coraggio e la fiducia in se stessi. Ormai aveva deciso di lottare contro ogni ostacolo perché alla fine del percorso c'era un'inferriata che si sarebbe aperta al suo passaggio, un palloncino che avrebbe ridato la felicità al suo amico, e un vecchio che avrebbe rivisto la luce del sole. Tutto ciò dipendeva da lei.

Udì tutto intorno dei misteriosi sibili, dei fischi acuti che penetravano nel suo cervello come lame affilate, e poi sentì un gelo che la paralizzava, un formicolio insopportabile in tutto il corpo, e un vento che la avvolgeva tutta dal basso verso l'alto, facendo tremolare la fiamma della torcia. Pareva che mille forze si fossero scatenate per distruggerla, ma lei capiva che era solo l'impotente rabbia di un misterioso e malvagio essere che ormai aveva capito d'aver perso. Avanzò ancora, intrepida, senza più paura. Oramai era vicina alla meta. In lontananza vide l'inferriata, e al di là il vecchio la chiamava a gran voce.
- Corri, corri, la nottata è già iniziata da un pezzo! Dobbiamo sbrigarci!
La principessa si precipitò. Quando fu davanti alle sbarre, s'udì uno stridente cigolio e un rumore di ferraglia. La barriera lentamente s'alzò e la principessa entrò nella sala. Ora bisognava cercare il palloncino. C'erano cento scrigni tutti uguali sui tavoli e solo uno conteneva il palloncino. Nessuno poteva aiutarla nella ricerca che doveva essere rapida perché il tempo stava per scadere.
- Per non confonderti apri gli scrigni ad uno ad uno, fruga bene all'interno e poi appoggiali per terra. Ricordati di richiudere ogni volta il coperchio dello scrigno vuoto, altrimenti l'altro non s'aprirà.
Il vecchio le dava sempre dei consigli utili. La ricerca fu lunga e faticosa, anche perché i coperchi erano pesanti e difficili da sollevare. Inoltre il palloncino era molto piccolo e bisognava guardare bene dentro ogni cofanetto.
Viola frugava sempre con le mani il fondo, per essere ben sicura di non ingannarsi.

Ormai le rimanevano da aprire soltanto cinque scrigni. Sollevò gli occhi verso il vecchio e vide nel suo sguardo lo sconforto. Già dall'inferriata provenivano dei sinistri rumori, e pareva che la grata dovesse abbassarsi da un momento all'altro.

-Svelta! Ti prego, più svelta! Il palloncino deve esserci per forza!

La principessa non sentiva più nemmeno le sue dita. Come un robot apriva e richiudeva i piccoli forzieri, ma erano tutti vuoti. Infine sul tavolo ne era rimasto uno solo, l'ultimo. Già l'inferriata aveva iniziato a scendere lentamente. La fanciulla ebbe un attimo d'esitazione ed infine lo aprì. La grata era già arrivata alla metà dell'apertura. La sua mano toccò qualcosa di morbido. Viola l'afferrò stretto stretto, mentre il vecchio la prendeva velocemente per la mano e la trascinava fuori. Giusto in tempo per passare sotto l'inferriata che ormai era quasi del tutto abbassata!
La fiaccola e il gomitolo erano rimasti dentro la sala, ma lei non si preoccupò. Adesso aveva ottenuto il palloncino magico ed aveva la compagnia del vecchio che s'era dimostrato molto abile e saggio. La via del ritorno era segnata dal filo e, anche al buio, avrebbe potuto ritrovare il giusto percorso. Nel suo cammino non trovò più alcun ostacolo. Ormai avevano raggiunto lo scopo e ben presto i due arrivarono all'uscita. Il sole stava sorgendo all'orizzonte, la notte era finita. La principessa era tanto felice da non sentire neppure la stanchezza di quell'interminabile giornata. Abbracciò i suoi amici e infine si volse per ringraziare il vecchio. Si guardò più volte attorno, ma non lo trovò. Vide invece un giovane cavaliere che le sorrideva.

-Sei stata molto coraggiosa, le disse, e non ho parole per ringraziarti. E' merito tuo se ho ritrovato la libertà che credevo perduta per sempre. Anche il mio aspetto è ritornato normale. Come vedi non sono più quel vecchio che tu hai conosciuto nelle segrete. Ti sarò riconoscente per sempre e tu potrai chiedermi tutto ciò che vorrai.

La principessa porse la mano al giovane e gli annunciò che avrebbe voluto sposarlo perché si era dimostrato molto saggio e generoso. Sarebbe stato un buon padre per i suoi figli ed un buon re per il suo regno.

Anche il cane e l'elefante approvarono la decisione della fanciulla. L'elefante indicò il palloncino con la proboscide. Il cavaliere sapeva come trasformarlo in una comoda mongolfiera. Tutti salirono a bordo e ... via! Si diressero verso l'Africa, dove arrivarono in un batter d'occhio. Giunti nella savana vicino al grande fiume, scesero tutti vicino ad una famigliola d'elefanti. Alti barriti festosi s'alzarono nel cielo. L'elefante aveva ritrovato i suoi genitori e i suoi fratelli e corse verso di loro sollevando nugoli di polvere. I pachidermi si lanciarono nel fiume e si misero a giocare felici. Dopo aver salutato tutti, il cane, il cavaliere e la principessa risalirono sulla mongolfiera e raggiunsero rapidamente il castello. Pochi giorni dopo si celebrarono le nozze, e per la principessa l'avventura delle segrete divenne solo un lontano ricordo, da raccontare ai suoi figli. Le era rimasto però il prezioso palloncino che permise agli sposi di viaggiare in tutto il globo, Polo Nord compreso, per vedere il sole a mezzanotte, nella nottata più breve che ci sia al mondo.


E gli altri cavalieri prigionieri delle segrete? Di loro non si seppe mai niente, ma noi speriamo proprio che abbiano trovato il gomitolo di Viola e, con esso, la salvezza.

 
 
 

Capo Caccia d'inverno

Post n°7 pubblicato il 22 Gennaio 2011 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

Il nostro Gigante avvolto dalla nebbia di gennaio.

 
 
 

LA LEGGENDA DI BARATZ

Post n°8 pubblicato il 23 Gennaio 2011 da nuraghin45
 
Foto di nuraghin45

Baratz, l'unico lago naturale della Sardegna

(foto 21 maggio 2006)

LA QUESTIONE DELLA LINGUA ALGHERESE

Prima di parlare della leggenda di Baratz voglio dire che questo lavoro è scritto nella lingua algherese. L'algherese ci è arrivato come lingua parlata e, quando è stata scritta, nei primi tempi, si usava la grafia italiana, cioè si scriveva come si leggeva. In seguito si sono imposte delle regole di grafia prese dalla lingua catalana e questo ha reso illeggibile l'algherese per tutti coloro che non conoscevano tali regole.

La questione della grafia della lingua è molto importante e mi rendo conto che non sia facile decidere quale grafia usare. Se scriviamo in pura grafia catalana perdiamo il senso di quel che è scritto dato che è necessario andare a scuola di catalano, altrimenti non si riesce a leggere. Se scriviamo le parole come si leggono si incontrano altre difficoltà. Non sempre la stessa parola si legge nello stesso modo ed allora occorre trovare una sola grafia che si possa adattare alle differenti pronunce.

Qualche volta ho risolto il dilemma usando le due grafie. Questo può essere un modo per aiutare gli algheresi a leggere la loro lingua madre e per zittire anche coloro che sostengono che è un fatto di ignoranza scrivere come si parla.

Queste diatribe mi rendono molto triste perché così non si fa altro che dare il colpo di grazia ad una lingua che sta morendo e che ha bisogno dell'aiuto di tutti per trovare il modo di parlare ancora al cuore delle persone, al cuore dei ragazzi, dei giovani, e di tutti quelli che non vogliono vivere in una città straniera, ma vogliono sentirsi algheresi come lo erano i padri e i nonni.

Detto questo, passo a presentare la leggenda di Baratz.

Io non sono di famiglia algherese e non conoscevo la leggenda. Me l'ha raccontata Franco Ceravola, così come l'aveva appresa dal padre Luigi che è vissuto tra il 1906 e il 1985. In seguito ho sentito altre versioni, più elaborate, ma non ne conosco la provenienza.

La versione da me utilizzata per allestire una breve rappresentazione richiama la Bibbia. Per prima pubblico la versione in italiano e in seguito quella in algherese.

Questa breve recita è stata organizzata in una scuola elementare con alunni di quinta classe che l'hanno preparata in algherese. Se qualcuno vuole può utilizzare il testo allo stesso scopo. Chiedo che sia citato il sito dal quale il testo è stato preso. Sono comunque disponibile per chiarimenti o suggerimenti sull'allestimento.

 

 LA LEGGENDA DI BARATZ

 

La scena è divisa in due parti: a destra si vede uno scorcio dei Bastioni con pescatori, donne, bambini. Alla sinistra c'è il paese di Baratz. Ogni volta viene illuminata la parte dove si svolge la scena.

Siamo ai Bastioni negli anni cinquanta.

È una giornata primaverile. Il sole è alto nel cielo e l'aria è calma. Seduti su seggioline o sul gradino di casa, tre pescatori, cuciono le reti, due donne,  stanno ricamando,  tre bambini giocano a cavall a una monta e tre bambine giocano a peu cossu.

 

 
 
 

La leggenda di Baratz

Post n°9 pubblicato il 24 Gennaio 2011 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

Case sui Bastioni, sfondo per i narratori. 

Personaggi
Pescatori: ciù Calminucciu, ciù Asteva e Alfonso
Donne: Cià Assuntina, cià Antunica
Bambine: Annuccia, Madarena, Rafelica
Bambini: Vissente, Gliuis, Bastianino

Personaggi della leggenda
Uomo, panettiere, panettiera, giovane donna, bambina

La scena è divisa in due parti: alla destra si vede uno scorcio dei Bastioni con pescatori, donne, bambini. Alla sinistra c'è il paese di Baratz. Ogni volta viene illuminata la parte dove si svolge la scena.

Siamo ai Bastioni negli anni cinquanta.

È una giornata primaverile. Il sole è alto nel cielo e l'aria è calma. Seduti alcuni su seggioline e altri sul gradino di casa, tre pescatori cuciono le reti, due donne stanno ricamando, tre bambini giocano a cavall a una monta e tre bambine giocano a peu cossu.

Ciù Calminucciu - Tutte le volte i delfini mi tagliano la rete. Non so più cosa fare.

Alfonso - Ma non parlarmene! Guarda come è la mia! Tutta a buchi, è tutta distrutta.

Ciù Asteva - Che si possano distruggere come Baratz, questi delfini che non fanno altro che imbrogliarsi nella rete.

Alfonso - Cosa hai detto?

Ciù Asteva - Che i delfini si possano distruggere come Baratz!

Alfonso - E che cosa vuol dire?

Cià Assuntina - Ma non lo sai? Ah, è vero, tu sei venuto da Napoli e non conosci la leggenda di Baratz.

Alfonso - E come è questa leggenda? La voglio sentire.

Ciù Calminucciu - E' una vecchia leggenda. Quando io ero piccolo come questi bambini ma la raccontava mio nonno.

Alfonso - Ma è una storia molto lunga?

Ciù Calminucciu - No, non è lunga. E va bene, ora racconto.

Ciù Calminucciu (sistema meglio la rete sopra le ginocchia ed inizia il suo racconto) - Allora ... uno storico dice che tanto, tanto tempo fa, quando Alghero non esisteva ancora, c'erano due villaggi: Si chiamavano Carbia e Baratz. Gli abitanti dei due paesi non andavano d'accordo e hanno fatto una guerra che è durata per più di venti anni.

I bambini sentendo che Ciù Calminucciu sta raccontando una storia, interrompono il gioco e si mettono ad ascoltare.

Annuccia - Ascoltate, Ciù Calminucciu sta raccontando una favola!

Madarena - Io non voglio sentire niente! Io voglio giocare!

Rafelica - E con chi giochi? Da sola? Io non ti posso lasciare da sola perché sei piccola e ti devo guardare. Aiò, vieni anche tu ad ascoltare. (Prende per mano Madarena, che si mette a piangere).

Le bambine si mettono accanto a ciù Calminucciu che intanto si è fermato nel racconto.

Rafelica  (parlando con i maschietti) - Aiò, venite anche voi, che ciù Calminucciu sta raccontando una bella storia!

Vissente - Aiò, andiamo ad ascoltare il racconto. Già giochiamo dopo!

I bambini lasciano il gioco e si mettono vicini a Ciù Calminucciu.

Ciù Calminucciu - Ci siamo tutti? Ma voi già siete algheresi. Non conoscete la leggenda di Baratz?

Rafelica - Baratz?

Vissente - No, io non l'ho mai sentita.

Gliuis - Mi sembra di averla già sentita, ma adesso non me la ricordo.

Annuccia - Aiò, ciù Calminu', racconti.

Madarena - Io voglio giocare.

Rafelica - Statti zitta, altrimenti buschi.

Ciù Calminucciu - Va bene! Allora ascoltate tutti. E non fate rumori o chiacchiere, altrimenti vi caccio.

Stavo raccontando che in un tempo molto antico c'erano due paesi, Baratz e Carbia che si odiavano e hanno fatto una guerra durata più di vent'anni. Alla fine Carbia è riuscita a vincere la guerra e ha distrutto tutto il paese di Baratz. Questo dice uno studioso di storia.

Ma sopra questo fatto ad Alghero si racconta una storia straordinaria e terribile, successa al paese di Baratz. Per di più ad Alghero è rimasto un modo di dire: "Che ta pughis dasfè coma Balcia" (Che ti possa distruggere come Baratz). Beh, ora continua tu, Asteva, che la conosci anche tu...

Asteva - Va bene, ora ne racconto un po' io. Baratz era un bel villaggio, pieno di gente lavoratrice e allegra. Era un mattino d'estate, e le strade erano tutte piene di vita e di rumori, come ogni giorno. Dal forno si spandeva un odore di pane fresco che faceva piacere sentirlo.

Non era ancora mezzogiorno quando nel paese è arrivato un forestiero, pieno della polvere del viaggio, con un mantello rosso tutto a brandelli. Camminava a capo chino, lasciano dietro di sé le impronte dei piedi scalzi.

 

 
 
 

La leggenda di Baratz

Post n°10 pubblicato il 24 Gennaio 2011 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

 Il paese di Baratz con i due forni in primo piano

 

 

Mentre Asteva racconta, si spengono le luci sui narratori e si accendono per illuminare il paese di Baratz. Tanta gente cammina per la strada e dalla sinistra esce un uomo con un mantello rosso.

Cià Assuntina - Dalla fronte bruciata dal sole gli cadevano gocce di sudore. Le labbra erano spaccate per la  sete e lui camminava con affanno in mezzo alla gente che non lo vedeva nemmeno.

Cià Antunica - L'uomo aveva fatto un viaggio molto lungo ed aveva anche tanta fame. Ma non aveva nemmeno un centesimo. Allora...

L'uomo si ferma presso il banco dove un Panettiere sta vendendo il pane.

Forestiero - Buon uomo, vengo da un luogo molto lontano e ho tanta, tanta fame. Non ho soldi per pagare ma per carità, datemi un pezzetto di pane ...

Panettiere - Vattene, disgraziato! Non c'è pane per te, se non hai soldi! Vattene in fretta da qui, se non vuoi bastonate.

Forestiero - (con grazia) Dio te lo paghi!

Si avvicina al banco di una donna

Forestiero - Buona donna, per carità, un pezzo di pane!

Panettiera - Brutto delinquente, vattene se non vuoi un colpo di pala!

Forestiero - Dio te lo paghi, buona donna!

Cià Assuntina - L'uomo aveva continuato a camminare e un po' più avanti aveva visto una giovane donna che usciva da un forno portando sulla testa un canestro pieno di pane ancora caldo. Teneva per mano una bambinetta. L'uomo si era avvicinato e l'aveva fermata.

Forestiero - Buona donna, ho troppa fame. Mi dai un pezzetto di pane, per carità?

La donna ha preso una focaccia e l'ha data all'uomo con grazia.

Donna - Tenga, buon uomo, mangi.

Asteva - La donna aveva ripreso la bambina per la mano e aveva continuato la sua strada. Ma l'uomo l'aveva seguita e fermata.

Forestiero - Buona donna, solo tu in questo paese mi hai aiutato, e adesso ti voglio aiutare io. Ascolta bene ciò che sto per dirti. Devi prendere quella strada che porta fuori da Baratz. Dovrai camminare sempre dritta, senza girarti mai indietro, per nessuna ragione. Anche se ti chiamano, tu devi andare sempre avanti, anche se senti rumori o altro.

Donna - Ma perché devo andarmene dal mio paese?

Forestiero - Adesso non te lo posso dire. Tu però devi ascoltarmi e devi fare ciò che ti dico. Vai veloce, sempre avanti o sei perduta, tu e la bambina.

Ciù Calminucciu - La giovane donna ha guardato fissa gli occhi dell'uomo e in quel momento ha capito che doveva fare ciò che lui diceva. Allora ha iniziato a camminare dando le spalle al paese, cercando di allungare il passo più che poteva, quasi trascinando la bambina che non riusciva a seguire la madre e si lamentava.

Cià Antunica - Poco dopo aver lasciato il villaggio la donna ha sentito un mormorio sordo, come un tuono da lontano, che si faceva sempre più forte. Un'onda alta come una montagna si è presentata dall'altra parte di Baratz, e aveva cominciato a distruggere tutto ciò che trovava al suo passaggio.

La gente che era nelle strade, nelle botteghe, nella piazza, vedendo quell'onda si è messa a gridare, a correre, e sembrava tutta impazzita.

Si sentono grida, pianti, versi di animali terrorizzati, e rumori di un'onda che corre.

Ora la luce illumina i narratori.

Annuccia - Ohi che paura! Mi sta venendo la pelle d'oca!

Rafelica - Ohi babbo mio! Povera gente!

Asteva - Qualcuno cercava di salire sul tetto, o correva verso le alture per salvarsi. Anche gli animali si muovevano senza sapere dove andare e si mescolavano alla folla in fuga. Come una lingua lunghissima, l'onda si è divisa nelle strade, si è allargata nella piazza, e si è ristretta per entrare nelle case dalle porte e dalle finestre, per uscire dopo aver distrutto tutto.

Annuccia - Ma la madre con la figlia si sono salvate da questo disastro?

Vissente - E statti zitta e lascia raccontare!

Madarena - Ohi che racconto! Altro che favola!

Gliuis - Ci'Assunti', non stia a sentire a queste bambine, concluda il racconto.

Cià Assuntina - Il racconto si conclude così. La giovane donna ha preso la bambina in braccio e si è messa a correre sempre più forte. Sentiva alle sue spalle il rumore terribile dell'acqua, e aveva capito che per Baratz era arrivata la fine. Pianti, grida, lamenti di cristiani e di animali la facevano disperare.

Cià Antunica - Lei pensava a tutti quelli che conosceva, amici, parenti ... cosa stava succedendo a tutta quella gente? Voleva guardare, voleva capire meglio, ma ricordava le parole dell'uomo "Vai veloce, sempre avanti, o sei perduta tu e la bambina"

Ciù Calminucciu - Ad un certo momento la giovane ha sentito una voce disperata che la chiamava: "Caterina, Caterina, vieni ad aiutarmi, non lasciarmi qui a morire! Vieni, Caterina, vieni!"

Quando la giovane ha sentito il suo nome, si è fermata di colpo. Chi la chiamava? Non aveva riconosciuto la voce, ma forse era la madre, oppure la sorella. Allora non ha pensato più a nulla, e vinta dalla pietà ha voltato il capo all'indietro. Ma ... in quel preciso momento lei e la sua bambina sono diventate di pietra.

Qualche bambina si asciuga le lacrime

Bastianino - Hai visto? Io lo sapevo che sarebbe finita male.

Annuccia - Oh, che pena!...

Cià Antunica - Più tardi l'onda ha perduto la sua forza e si è fermata. Dove prima sorgeva il paese di Baratz adesso c'era un lago. La statua della madre con la bambina era rimasta sul fondo. Ed ancora oggi, nelle giornate di sole, quando l 'acqua è calma e trasparente, si può riuscire a vedere sul fondo del lago la statua di una donna con una bambina in braccio e un canestro sulla testa.

Alfonso - Bella questa storia. Vorrei proprio andare a Baratz per vedere questa statua. Ma voi l'avete vista qualche volta?

Rafelica - Anche io voglio andare a Baratz per vedere la statua.

Gliurenz - Certo, possiamo andare un giorno a Baratz. Io non ho mai visto niente sul fondo, ma almeno ci facciamo una bella passeggiata.

Rafelica - Povera donna. Io però non mi sarei girata mai, per nessun motivo...

Gliuis - Si, si, proprio tu! Soffiami l'occhio.

Annuccia - Ma chi sarà stato il forestiero?

Bastianino - Boh! Certo che sapeva troppe cose.

Gliurenz - Di sicuro era un uomo che ha distrutto il paese per colpa degli abitanti, che non avevano buon cuore e non aiutavano i poveri e quelli che avevano bisogno.

Rafelica - Aiò, Madarè, torniamo a giocare.

Madarena - Vedrai che stanotte mi sogno l'onda. Colpa tua!

I bambini riprendono i giochi. I pescatori e le donne continuano a lavorare. Si spengono tutte le luci.

La rappresentazione si conclude con un coro di tutti i bambini che cantano "Lu conta de Balcia" canzone scritta da Franco Ceravola e musicata da Enrico Ceravola. La traduzione in italiano è letterale.

La canzò de Balcia

Ritornello

Baratz è caduta / nel fondo del lago / la donna di pietra  / è ancora là

voi se andate / di giorno o di notte / tenete presente / ciò che è successo.

 

Baratz è caduta / nel fondo del lago / la donna di pietra / è ancora là

con la bambina / stretta abbracciata / la notte di luna / quando l'acqua

è più chiara. / Il sole tramonta / dove finisce il mare / di giorno l'abbagliava

sino a quando era stanco. / La notte il chiarore / della stella più grande

colorava le case / di un velo grande e bianco.

 

Ritornello - Baratz è caduta ...

 

Ogni uomo al mattino / Andava al lavoro / e ogni vicolo / era pieno di chiasso

le donne lavavano  / i panni al ruscello / la vita passava / in maniera normale.

Ma il cuore della gente / era pieno di veleno / per l'odio nessuno / faceva all'altro del bene

vinceva l'invidia / il rancore, il peccato. / Era ora che fossero / dal cielo castigato.

 

Ritornello - Baratz è caduta ...

 

Da terra straniera / un povero è venuto / vestito di stracci / un giorno di pioggia

un pezzo di pane nero / ha chiesto ad ognuno / non c'è persona  / che gliene abbia dato.

Una giovane madre / che tornava a casa / sopra la testa / portava un canestro

pieno di pane ben caldo / gliene ha dato uno solo / per farlo contento.

 

Ritornello - Baratz è caduta ...

 

Solo tu figlia mia / hai avuto pietà / e questo bel regalo / ti sia restituito

ora corri signora / più che puoi / lontano da Baratz / più in fretta che puoi

e non girarti mai / per vedere nessuno / e non fermarti mai / per sentire qualcuno

La donna stringendosi / la figlia al petto / getta il canestro / che l'uomo ha insistito.

 

Ritornello - Baratz è caduta ...

 

Mentre lei fugge / dietro la schiena / sente suoni di passi / che schiacciano la sabbia

rumori di mare / pianti di gente  / suoni di campane / disastro di vento

Un tuono grande pauroso / e grida vicino / si gira e di pietra / diventa di colpo

è l'acqua di Baratz / che tutto ha coperto / e più nessuno / là si è trovato

 

Ritornello - Baratz è caduta ...

Immagini del lago scattate il 13 novembre 2011 sono pubblicate nel blogspot:

http://tholos.blogspot.com

 
 
 

Lu conta de Balcia

Post n°11 pubblicato il 25 Gennaio 2011 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

Il Lago di Baratz (foto 21 maggio 2006)

LA CHISTIO' DE LA GLIENGUA

Primè de palà del conta de Balcia vul dira che achesc traball ès ascrivit ne la palara algaresa. La gliengua algaresa mus ès arribara coma gliengua palara i quant ès astara ascrivira, als primelz tenz, s'amprava la grafia itariana, s'ascriviva com sa gligiva.

Achescia de la grafia de ra gliengua ès una chistiò massa ampultanta i ma randesc conta che no ès fasil dissirì quara grafia amprà. Si ascrivim an pura grafia catalana paldem lu sensu del che ès ascrivit pè cosa manastè fè ascoras  o si no, no sa cumpren. Si ascrivim las parauras com sa gligin hi ès un' altra difficultat. No sempra la matescia paraura sa gligi al matesc modu i alora manastè trubà una sora grafia che sa pughi adattà a las diferentas  pronuncias.

Calchi volta he risulvit la chistiò amprant las duas grafias. Achesc pot essar un modu de agiurà lus algaresus a gligì, i de accuntantà tambè lus che sustenan che ès un fet de agnuranzia ascrira com sa pala.

Achescias chistionz ma fanan tanta tristura pe' cosa ascì no sa fa altru che dunà lu cop de grassia a una gliengua che astà murint i che tè manastè de l'agiut de toz pe' trubà lu modu de pala' ancara al cor de ra gent, al cor dels mignonz, dels giovas i de totas acheglias palsonas che no voran viura in una siutat astraniera, ma sa voran antrenda algaresus com eran lus paras i lus iaius.

Dit asciò, pas ara a prasantà lu conta de Balcia.

Iò no so de famiria algaresa i no cunasceva lu conta. Ma r'ha racuntat mun marit, Franco Ceravola, ascì com el l'havia antès del babu Luigi che era portual i ès vissut del 1906 al 1985. Dasprès he antès altras versions, mès elaboraras, ma no cunesc l'origine de achescias elaborasions.

La versiò utirizara de mi fa pansà a la Bibbia.

Achescia patita recita ès astara organizara a l'ascora elementar, ama mignonz de quinta classe che l'han praparara an algares. Si calchi u vol, pot amprà lu testo pe' lu matesc mutivu. Daman che sighi ascrivit de qual sito es astat pres lu testo. So' dispunibra pe' crarimenz, o sugerimenz pe' l'allestiment.

 

L'escena ès divirira en duas palz: a la mà reta sa veu un tros dels Bastions ama pascarolz, donas, mignonz. A la scherra hi és lu pais de Balcia. Vè illuminara cara volta la palt ont s'asvulgesc l'escena.

Sem als Bastions nels ans sinquanta.

Ès un dia de primavera. Lu sol ès alt nel sel  i l'aria ès calma. Saguz an carietas o als gradins  del pultò tres pascarolz cusin las reras, duas donas astanan racamant,  tres  mignonz giugan a cavall a una monta i tres  mignonas giugan a peu cossu.

 
 
 

Lu conta de Balcia

Post n°12 pubblicato il 25 Gennaio 2011 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

 

 

 

CIÙ CALMINUCCIU

Cara volta lus grafins ma taglian la rera. No sep mès cosa  fe'.

 

ALFONSO -

No na palis! Mira la mia com ès. Tota a furaz. Es tota dasfeta.

 

ASTEVA -

Accu sa pughin dasfè coma Balcia, achescius grafinz che no fanan altru che s'ambruglià a la rera!

 

ALFONSO -

Cosa has dit?

 

ASTEVA -

Che lus grafins sa pughin dasfè coma Balcia!

 

ALFONSO -

I cosa vol dira?

 

CIÀ ASSUNTINA -

I no'l sas? Ah, già ès ver, tu ses vangut de Napuls i no cunescias lu conta de Balcia.

 

ALFONSO -

I com ès achesc conta? Lu vul antrenda.

 

CALMINUCCIU

És una storia antiga. Quant era patit coma achescius mignonz, ma la racuntava lu iaiu.

 

 

 

ALFONSO -

Ma ès un conta glionc assai?

 

CALMINUCCIU

No, no ès glionc. I va bè, ara ta'l dic.

 

Calminucciu sa posa mès bè la rera a damunt dels gianols i ascumenza a racuntà.

 

CALMINUCCIU  

 

Alora ...  Diu un astòric che tanta, tanta tenz fa, quant l'Alghe' ancara no asistiva, hi avian dos viragias. S'avisavan Carbia i Balcia.

Lus abitanz dels dos paisus no anavan de coldiu i han fet una  gherra che ès durara de mès de vint ans.

 

Quant las mignonas han antès che Calminucciu asta' racuntant un fet, sa felman i sa posan a asculta'.

 

ANNUCCIA -

Ascultau, ciù Calminucciu astà dient una rundaglia.

 

MADARENA -

Iò no vul antrenda arrès. Iò vul giugà!

 

RAFELICA -

I ama chi giugas? De sora? Iò no ta puc descià de sora. Aiò, vina tambè tu, anem a asculta'. (Pren pe' ma' Madarena, che ès la mès patita i s'ès pusara a prurà)

 

Las mignonas sa posan a custat de Calminucciu che s'ès falmat de racunta'.

 

RAFELICA -

(Palant als mignonz) Aiò, vaniu tambè vusaltrus, che ciù Calminucciu astà racuntant una beglia storia!

 

VISSENTE -

Aiò, anem a ascultà lu conta. Già giughem dasprès!

 

Lus mignonz descian lus gioz i sa posan a custat de Calminucciu.

 

CALMINUCCIU -

A hi sem toz? Ma vusaltrus già seu algaresus. No'l cunasceu lu conta de Balcia?

 

RAFELICA

Balcia?

 

VISSENTE

No, iò no l'è mai antes.

 

GLIUIS

Ma paresc che l'è antès, ma ara no ma'l racolt.

 

ANNUCCIA

Aiò, ciù Calminù, raconti.

 

MADARENA

Iò vul giugà.

 

RAFELICA

Càgliata mura, o si no buscas.

 

CALMINUCCIU -

Va bè! Alora ascultau toz. I no feu ramo' i ciaciaras, o si no vu'n cacci.

Astava dient che un tenz antic assai, hi eran dos paisus, Balcia i Carbia, che no sa purivan vera i han fet una gherra che ès durara de mès de vint ans.

A ra fì Carbia ès rasiscira a vinzì la gherra i ha dastruit tot lu pais de Balcia.

Asciò diu un astudiòs de historia.

Ma adamunt de asciò a r'Alghè sa raconta de un fet astraordinari i terribra, sussait al paìs de Balcia. An de mès, a l'Alghe' ès arrastat un modu de dira, "Che ta pughis dasfe' coma Balcia".

Beh, ara continua tu Asteva, che già la sas tambè tu.

 

ASTEVA -

Va bè ara na dic un tros iò.

Balcia era un bel viragia, prè de gent trabagliarora, i alegra.

Era un maitì de istiu, i lus carrels eran toz prenz de vira i de ramolz, com cara dia. Del fol isciva un uro' de pà fresc, che feva praie' a l'antrenda.

No era ancara misdia quant nel pais ès arribat un homa furistè, prè de la polz del viaggia, ama un mantell valmell tot asgarrat. Caminava a cap abasciat, dasciant anrera las improntas dels peus dascalzus.

 

 
 
 

Lu conta de Balcia

Post n°17 pubblicato il 26 Gennaio 2011 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

 LU CONTA DE BALCIA 

Quant Asteva raconta, las gliumeras sa daspagan i s'anzenan a damunt del pais de Balcia. Tanta gent camina pe'ls carrelz i de la scherra  isci un homa ama un mantell valmell.

 

CIÀ ASSUNTINA

De la front anzesa de la carò hi caievan guteras de sor. Lus morrus eran aspacaz pè la brugior del  sol, i el anava ama l'afannu, caminant a mig de la gent che no'l vaieva nimancu.

Aiò, Antunì, continua tu.

 

CIÀ ANTUNICA -

L'homa havia fet un viaggia assai glionc i taniva tambè fam. Però no havia nimancu un ascut. Alora....

 

L'homa sa felma en un banchet ont un panateri  astà vanent lu pa'.

 

FURISTE'-

Bon homa, venc de un glioc assai agliunt, i tenc tanta, tanta fam. Pe' caritat, donghi-ma un bussinet de pa'.

 

PANATERI -

Vestatan, dasgrassiat. No hi ha pa' pe ra tu, si no tenz munera! Iscitan legu de nanchì, si no volz cariaras.

 

FURISTE'-

(Ama grassia) Deu ta'l paghi!

 

 (S'acosta al banchet de una dona)

 

Bona dona, pe' caritat, un tros de pa'!

 

PANATERA -

Brut delinquent, vestatan si no volz un cop de para!

 

HOMA -

Deu ta'l paghi, bona dona!

 

Cià ASSUNTINA -

L'homa havia rapres lu camì i un poc mès anvant  havia vist una giova iscint de un fol ama'l canistru al cap prè de pà carent. Praniva pe' ma' una criatura.

L'homa s'era acustat i  l'havia falmara.

 

HOMA -

Bona dona, tenc massa fam. Ma donz un bussì de pà, pe' caritat?

 

La dona ha près una coca i l'ha dara a l'homa ama grassia.

 

GIOVA -

Tenghi, bon homa, mengi i astighi bè.

 

ASTEVA -

La dona ha raprès la criatura pe' ma' i ha continuat lu sou camì. Ma l'homa l'ha sighira i l'ha falmara ...

 

HOMA -

Bona giova, tu sora an aschesc pais m'has agiurat, i ara ta vul agiurà iò. Ascolta be' lu che ta dic. Tenz de prenda acheglia astrarò che polta a foras de Balcia. Tu tangaràs de caminà sempra reta, senza ta girà mai anrera, pe' ninguna raò. Tambè si t'achirran, tu tenz de anar sempra anvant, tambè si antenz ramols o altru.

 

GIOVA -

Ma per cosa ma'n tenc de anar del pais?

 

HOMA -

Ara no tal puc dira. Tu però ma tenz de ascultà i tenz de fe' lu che t'è dit. Ves, gliestra, sempra anvant, o si no ses paldura, tu i la criatura tua.

 

CALMINUCCIU -

La giova ha mirat mès bè lus ulls de l'homa i an achel mamentu ha cumprès che taniva de fe' lu che el dieva.

Alora ha ascumanzat a camina' dunant las aspallas al pais, salcant de agliunga' lu pas mès che puriva, quasi astrijinant la criatura che no hi feva mès a sighi' la mara i sa gliamantava.

 

CIÀ ANTUNICA-

Dasprès de un poc s'ès antès una ramò solda, coma un trò de gliunt, che a poc a poc sa feva sempra mès folt. Un'onda  alta coma una muntagna s'era prasantara de l'altra palt de Balcia i havia ascumanzat a distrui' tot lu che trubava nel sou camì.

La gent che era nels carrels, ne las butigas, ne la prassa, vaient achegli'onda, s'ès pusara a tichirria', a curri', i parasceva tota iscira del salvell.

 

S'antenan tichirrius, prolz, velsus de animalz assustaz,  i ramolz de algua.

Ara vè illuminat lu Bastiò.

 

ANNUCCIA -

Ohi chi por! M'asta' vanint la tuda!

 

RAFELICA -

Ohi babbu meu! Proba gent!

 

ASTEVA  -

Calchi u' salcava de muntà a la taurara, o curriva velsu la muntagna pe' sa salva'. Tambè lus animals sa muievan senza sabe' ont anar, i sa amascravan a ma ra gent.

Com a una gliengua glionga glionga, l'onda s'ès divirira nels carrarols, s'ès aglialgara ne la prassa, i s'ès astrignira pe' antrà ne las poltas i ne las finestras, pe' isci' daspres de haver destruit tot.

 

ANNUCCIA -

Ma la giova ama la figlia sa son salvaras de 'chescia dastrossa?

 

VISSENTE -

I astata mura i descia racuntà!

 

MADARENA -

Ohi chi conta! Altru che rundaglia!

 

GLIUIS -

Ci'Assuntì, no donghi urienza an achescias mignonas, acabi lu conta.

 

CIA ASSUNTINA -

Lu conta acaba ascì.

La giova ha près la criatura al brass i s'és pusara a curri' sempra mès folt. Antaneva la ramor terribra de l'algua, i havia cumprès che a Balcia era arribara la fì. Prolz, tichirrius, gliamenz de cristians i de animals la fevan dasaspara'.

 

CIÀ DOLORETTA

- Eglia pansava a toz lus che cunasceva, amiz, parenz ... cosa astava sussaint a tota achescia gent? Vuriva mirà, vuriva cumprenda mès bè, ma s'arraculdava las parauras  de l'homa: - Ves, gliestra, sempra anvant, o si no ses paldura, tu i la criatura.

 

CALMINUCCIU -

A un seltu mamentu la giova ha antès una veu dasasparara che l'achirrava: - Catarina, Catarina, vina a m'agiurà, no ma descis ananchi'! Vina Catarì, vina!...

Com la giova ha entès lu nom sou, s'ès falmara de cop. Chi l'avisava? No avia cunasciut la veu, ma folsis era la mara, oppuru la gialmana.

Alora eglia no ha pansat mès an arrès, i, vinzira de la pietat ha girat lu cap anrera. Ma ... an achel precis mamentu eglia i la criatura sa son trasfurmaras an perra ...

 

 

Calchi mignona s'asciuga las gliagrimas.

 

BASTIANINO -

Has vist? Gia'l sabiva iò che finiva mal.

 

ANNUCCIA -

Ohi, chi gliastima!...

 

CIA ANTUNICA -

Mès talt l'onda ha paldut la folza  i s'és falmara. Al glioc del pais de Balcia ara hi era un gliac. La statua de la giova ama la criatura era rastara al fondu.

I tambè ara, ne las giunaras de sol, quant l'algua ès calma i trasparenta, sa pot rasisci' a vera al fondu la statua de una dona ama una criatura al bras i un canistru al cap.

 

ALFONSO -

Bel achesc conta. Già vul ana' a Balcia, a vera achescia statua. Ma vusaltrus l'haveu vista calchi volta?

 

MIGNONZ   I MIGNONAS-

Tambè iò vul ana' a Balcia a vera la statua.

 

GLIURENZ -

Già pughem ana' un dia a Balcia. Iò no è mai vist arres al fondu, ma almancu  mus fem una beglia passaggiara.

 

RAFELICA -

Proba donna. Iò però no ma fora girara mai, pe' ninguna rao'.

 

GLIUIS -

Si, si, propiu tu! Bufama l'ull.

 

ANNUCCIA -

Ma chi sigarà astat lu furistè?

 

BASTIANINO -

Boh! Selt che sabiva massa cosas.

 

GLIURENZ -

De sagur era un homa che ha dastruit lu pais pe' culpa dels abitans, che no tanivan bon cor i no agiuravan lus probas i lus che tanivan manaste'.

 

RAFELICA -

Aiò, Madare', tunem a giugà

 

MADARENA -

Asta nit ma sumic l'onda. Culpa tua! (Rivulginsa a Rafelica)

 

Lus mignonz raprenan lus gioz. Lus pascarolz i las donas continuan a trabaglià. Sa daspagan totas las gliumeras.

 

 
 
 

la canzone di balcia

Post n°18 pubblicato il 26 Gennaio 2011 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

 

 LU CONTA DE BALCIA

Alla fine della rappresentazione tutti i bambini insieme cantano " Lu conta de Balcia", canzone scritta da Franco Ceravola su musica di Enrico Ceravola.

Algherese con grafia italiana                          Algherese con grafia catalana

Ritornello

Balcia és calgura

nel fondu del gliac

la dona de perra

ès ancara anaglià

vusaltrus si anau

a de dia o a de nit

tangheu prasent

lu ch'ès sussait.

 

Balcia ès calgura

nel fondu del gliac

la dona de perra

ès ancara anaglià

ama la creatura

astretta abrassara

la nit de gliuna

quant l'algua

ès mès crara.

Lu sol che tramonta

ont acaba la mar

de dia l'agliuinava

finzas che era astrac

la nit 'l craror

de l'astreglia mès gran

tigniva las casas

de un vel gran i branc

 

Ritornello

Balcia ès calgura...

 

Cara oma al maitì

s'an anava al traball

i cara vaì

era prè del buldell

las donas rantavan

la roba nel riu

la vira passava

an manera normal.

Ma 'l cor de ra gent

era prè de varè

pe l'odiu ningù

feva a l'altru del bè

vinsiva l'anviria

'l rancor, lu pecat

era ora che fossin

del sel castigaz.

 

Ritornello

Balcia ès calgura...

 

De terra astraniera

un proba ès vangut

vistit de straccius

un dia che ha prugut

un tros de pà negra

a cara'u ha damanat

i no hi ha palsona

che n'hi agi dunat.

Una giova mara

che an casa tunava

damunt del cap

'l canistru pultava

iscint del fol

prè de pà ben carent

n'hi ha dat sol 'u

pe'l felu cuntent.

 

Ritornello

Balcia ès calgura...

 

Sol tu figlia mia

has tangut pietat

i achesc bel ragaru

ta sighi tunat

ara curri signora

de mès che poz

agliunt de Balcia

mès legu che poz.

I mai no ta giris

pe' vera ningù

i mai no ta felmis

pe' antrenda calchi u

La dona astrigninsa

la figlia nel pit

gita 'l canistru

che l'oma ha ansistit.

 

Ritornello

Balcia ès calgura...

 

Mentras eglia fugi

rarera la schena

anten so' de passus

che aschician la rena

ramols de mar

prols de gent

sons de campanas

dastrossas de vent.

Un trò gran pauros

 i tichirrius a prop

sa gira i de perra

diventa de cop

ès l'algua de Balcia

che tot ha tapat

i mès ningù

anaglì s'es trubat.

 

Ritornello

Balcia ès calgura...

 

Ritornello

Baltxa és calguda

nel fondo del llac

la dona de pedra

és encada enalla

vosaltres si anau

a de dia o a de nit

tengueu present

lo que és succeït.

 

Baltxa és calguda

nel fondo del llac

la dona de pedra

és encada enalla

amb la creatura

estreta abraçada

la nit de lluna

quant l'algua

és més clara.

Lo sol que tramonta

ont acaba la mar

de dia l'alluinava

finses que era estrac

la nil 'l claror

de l'estrella més gran

tinyiva  les cases

de un vel gran i blanc.

 

Ritornello

Baltxa és calguda ...

 

Cada home al maitì

s'en anava al treball

i cada veì

era plé de bordell

les dones rentavan

la roba nel riu

la vida passava

en manera normal.

Ma 'l cor de la gent

era plé de veré

per l'odio ningù

feva a l'altro del bè

venciva l'envìdia

lo rancor, lo pecat

era hora que fossin

del cel castigatz.

 

Ritornello

Baltxa és calguda ...

 

De terra estraniera

un pobre és vengut

vistit de estratxos

un dia que ha plogut

un tròs de pà negre

a cada u ha demanat

i no hi ha persona

que n'hi hagi donat.

Una giova mare

que en casa tornava

damunt del cap

lo canistro portava

ixint del forn

plé de pà ben calent

n'hi ha dat sol u

per fer-lo content.

 

Ritornello

Baltxa és calguda...

 

Sol tu filla mia

has tengut pietat

i aquest bell regalo

te sigui tornat

ara curri senyora

de més que pots

allunt de Baltxa

més lego que pots.

I mai no te giris

per veure ningù

i mai no te fermis

per entrende qualqui u.

La dona estrinyinse

la filla nel pit

gita lo canistre

que l'home ha insistit.

 

Ritornello

Baltxa és calguda...

 

Mentres ella fugi

en rera la esquena

enten sons de passos

que esquitxan la rena

remors de mar

plors de gent

sons de campanes

destrosses de vent.

Un  trò gran paoròs

i tiquirrios a prop

se gira i de pedra

diventa de cop

és l'algua de Balta

que tot ha tapat

i més ningù

en allì s'és trobat.

 

Ritornello

Baltxa és calguda ...

 

 

 
 
 

Un'altra leggenda di Baratz

Post n°19 pubblicato il 27 Gennaio 2011 da nuraghin45
 
Foto di nuraghin45

Il lago di Baratz (foto febbraio 2008)

UN'ALTRA LEGGENDA DI BARATZ 

Quella che ho riportato e trasformata in recita, non è l'unica versione della leggenda che, come si vede, è molto simile ad antichi racconti biblici e greci.

Ricordo ad esempio che Niobe, impazzita dal dolore per la morte dei suoi figli provocata da Apollo e Diana,  fu tramutata in statua.

Ma più aderente appare il racconto biblico di Lot e sua moglie. La moglie di Lot, scappando da Sodoma, disubbidì all'ordine che aveva avuto di non voltarsi indietro e diventò una statua di sale.

Altre versioni della leggenda di Baratz riportano particolari differenti soprattutto nella parte iniziale, mentre concordano tutte sull'onda che travolge Baratz e sulla statua della donna con un canestro sulla testa e un bambino in braccio.

Vediamo ora un'altra versione della leggenda.

 Il re Cesare Barcellone era ricco e potente, amato dalla gente, aveva terre da Alghero a Villanova. Aveva la passione per i cavalli, il suo più grande desiderio era quello di avere Stelle Diame un bellissimo cavallo dal manto verde. Dicevano che fosse mandato dagli dei, era magico e misterioso, ed era sotto la protezione del Conte di Villanova. Il re Barcellone implorava il conte di dargli il cavallo, ma il conte non glielo poteva dare perché aveva fatto un giuramento.

Allora il re Barcellone gli fece la guerra e la perse.

Il re arrabbiato tornò nella città di Baratz, fece uccidere i preti, distrusse le chiese e negò il battesimo.

Dopo sette anni arrivò nella città di Baratz un vecchio venuto dal nulla e andò dal re per convincerlo ad essere buono e a governare la città come una volta.

Ma il re, ancora arrabbiato per la sconfitta, lo mandò via, lo fece picchiare e maltrattare dalla gente; solo una donna lo aiutò, gli diede da mangiare a lo fece riposare.

A un certo punto il cielo diventò nero, e il vecchio disse alla donna:

- Donna, prendi il tuo bambino e scappa, ma mentre corri non fare lo sbaglio di voltarti indietro.-

La donna scappò ma intanto sentiva alle sue spalle un forte rumore di acqua e pietre che cadevano, gente che urlava, grida di bambini.

Si dice che allora la donna si voltò e rimase pietrificata con il suo bambino mentre la città di Baratz sprofondò nella terra che si riempì di fango ed acqua, e così nacque il lago di Baratz. Ma si dice anche che in un giorno di primavera si sentano le voci del re Barcellone e di tutta la gente che viveva nella città di Baratz.

 Immagini del lago di Baratz scattate il 13 novembre 2011 si trovano nel blogspot:

http://tholos.blogspot.com

 
 
 

I - Pioggia improvvisa

Post n°20 pubblicato il 07 Marzo 2011 da nuraghin45
 
Foto di nuraghin45

Pioggia improvvisa

Nella fretta di spogliarsi la sciarpa scivolò sul pavimento. Si chinò per raccoglierla e i capelli fluirono sul viso impigliandosi tra le labbra. Si sollevò infastidita, scostò quei ciuffi ribelli e li riportò con un gesto deciso dietro le orecchie.

I suoi occhi cercarono con insistenza un posto tranquillo dove sostare nell'attesa che quella pioggia improvvisa finisse di tempestare con grosse gocce la città divenuta in un attimo cupa e oscura.

Sui vetri l'acqua colava come impazzita senza una direzione e senza pause. Brividi di freddo si impadronirono della sua schiena e le parve di tremare.  Sua madre era morta da poco più di due anni e da allora nelle giornate di pioggia la tormentava un senso di oppressione e di soffocamento.

Entrarono altre persone, cinque o sei ragazzi; sgocciolanti e chiassosi si avviarono verso un tavolo accanto al bancone colmando quello spazio con suoni provocati da passi, spostamenti di sedie, risate, imprecazioni, starnuti, mezze frasi e saluti.

La pioggia continuava a scrosciare e non dava alcuna speranza; Bianca si accorse che stava per precipitare in una situazione senza scampo. Come avrebbe fatto a passare quel tempo senza far nulla, senza un qualcosa da leggere, senza il minimo appiglio per occupare il suo cervello, senza la minima distrazione dalla vita ...

Fu presa dal terrore: si sarebbe messa a pensare! No, tutto, ma pensare no!  Già le si presentavano ricordi di frasi glaciali, di delusioni, di sconfitte.

Signorina, lei è troppo qualificata, le faremo sapere.

E quel giorno, quando ormai aveva creduto di aver conquistato l'amore e lo aveva visto insieme ad un'altra, molto più caloroso che con lei!

Anche sua madre, in fondo, le preferiva sua sorella.

Il suo essere spigolosa e integra le aveva allontanato opportunità, affetti, gratificazioni.

Lei era così, non sapeva perché, ma non poteva cambiare.

Non sopportò più quella tortura. Si alzò di scatto. Aveva visto sulle pareti dei quadri. Ecco, si sarebbe avvicinata per osservarli, si sarebbe distratta da se stessa, si sarebbe data una tregua.

 

 
 
 

II - Pioggia improvvisa - I quadri e la chitarra

Post n°21 pubblicato il 17 Marzo 2011 da nuraghin45
 
Foto di nuraghin45

Si mosse lentamente ma in maniera decisa scansando tavoli e sedie. Sulle pareti si apriva un mondo di colori che la riportava all'estate appena trascorsa.

Ombrelloni sgargianti e policromi raggruppano famigliole felici a un passo dal bagnasciuga. Un  mare ambiguo e invitante culla un cielo azzurro e profondo, meta di piccoli sogni che si perdono in lunghe ore di lavoro e di fatica.

Ma i piedi affondano nella bianca rena tra quei granelli microscopici frutto di accumuli millenari di conchiglie sbriciolate e gli occhi infastiditi dalla abbagliante luce solare si volgono alla pineta per riposarsi nel verde di migliaia di aghi così perfetti, così sottili, così eleganti in quei loro ventagli che ondeggiano alla brezza.

La tecnica di quei quadri era molto chiara: pastelli a cera su cartoncino bianco. Le sembrava quasi di vedere le dita stringere il pastello e muoverlo velocemente sul foglio per catturare le forme alla realtà. Erano proprio delle istantanee che qualcuno aveva creato  forse per mantenere nella memoria particolari atmosfere irripetibili.

A volte ci sembra di rivivere sempre le stesse situazioni ma non è così. Panta rei, tutto scorre. Quegli scorci, quei gruppetti sotto l'ombrellone, ci sono ogni estate, ma niente è uguale, niente è come sempre.

Radice sulle dune

Una radice fuori dalla duna inquadra la città sullo sfondo. Era un'estate che si era ormai chiusa per aprirsi in un autunno a volte tiepido e dolce, a volte brusco come i tuoni che a tratti si sentivano in lontananza. Il presente dell'estate si era traformato in passato. Eppure sembrava più vicina la calda stagione perché dalle pareti quelle forme colorate emanavano una vita così prepotente che inondava tutti gli spazi, anche i più lontani.
Catturata da quel sortilegio non riusciva a staccarne lo sguardo.
Un lampo accecante seguito dal rimbombo del tuono vicino illuminò per una frazione di secondo una chitarra appoggiata in un angolo buio del locale. Si avvicinò per vederla meglio. Era una chitarra classica, a sei corde, da studio, come la sua.
Il suo amore per le chitarre datava da molti anni; ricordò il suo primo incontro con una chitarra. Aveva meno di dieci anni e si trovava a Sassari, a casa di sua zia. La sera precedente c'era stata una festa e la chitarra era rimasta nella camera da pranzo, su una sedia, portata da un ospite che doveva tornare a riprenderla. Per lei fu amore a prima vista. Allungò la mano ma la ritirò immediatamente. Non osava toccare le corde, chissà perché. La fissò a lungo studiandone la forma, il grande buco misterioso, le corde, il manico, le chiavi. Era bellissimo vedere la luce che si rifletteva sulla lucida superficie del legno.
Arrivò sua zia che le disse subito di non toccarla e lei si ritirò nella cameretta. Quando tornò nella sala la chitarra non c'era più.
Con il suo primo introito comprò una chitarra da due soldi, giusto quello che poteva permettersi. Più avanti però decise di acquistare una chitarra seria, da studio, e certamente non si pentì. Quel suono era spesso il suo unico compagno in qualsiasi stagione, a qualsiasi ora della giornata.
Prese lo strumento e si sedette sulla sedia vicina. Appoggiò il piede sinistro sulla traversa di un'altra sedia e provò l'accordatura. Nel frattempo pensava a quale musica eseguire. Chissà perché, ma spesso aveva dei vuoti per cui all'inizio le sue mani ciondolavano senza sapere che cosa fare. Poi le dita cominciarono a muoversi. Il suono le piacque molto; era nitido, deciso, penetrante. Andò avanti per un po', quindi involontariamente iniziò un canto a bocca chiusa. Intanto il suo pensiero volava indietro nel tempo e tornava ad un'estate di tanti anni fa quando, appena adolescente, sostava nella sua camera con le persiane socchiuse mentre i sogni, tanti sogni, riempivano quello spazio che si dilatava fino a contenere l'universo.
Una mattina però qualcosa entrò in quella tiepida penombra. Era una voce di donna che cantava. Si avvicinò alla finestra e percepì alcune parole di quel canto: "Chiagneva sempe ca durmeva sola, mo dorme co' li muorte accompagnata... " Ascoltò con grande attenzione ma nonostante lo sforzo  comprese solo a tratti il testo. Intanto quella melodia si insinuava dentro di lei e le dava una profonda pena. La morte: l'aveva colpita l'idea di quel sonno eterno forse meno triste perché condiviso, non solitario. "Dormire accompagnata dai morti" le sembrava un pensiero tanto assurdo quanto consolatore.
Poi il canto era finito. Lei aveva schiuso piano la persiana per cercare di capire da dove provenisse quella voce, ma vide solo tante finestre tutte uguali, silenziose, spalancate ma complici nel proteggere il mistero.
Nel corso dell'estate sentì più volte quel motivo e alla fine aveva imparato anche lei le parole. Non riuscì mai a dare un volto a quella voce e lei immaginò che fosse una giovane donna forse molto triste, forse molto innamorata, o forse soltanto un po' malinconica e nostalgica della sua terra.
Mentre le dita continuavano a muoversi automaticamente sulle corde il canto muto si trasformò e si articolò in parole sussurrate, appena comprensibili. Il locale sparì dalla sua percezione, non c'era più pioggia né vento: esisteva soltanto il suono della chitarra e la sua voce che davano vita a una melodia incredibilmente dolce e trascinante "Fenesta ca lucive e mo nun luce..." Sentì un tremolio nella voce e una lacrima lentamente segnò la sua guancia. La lasciò scorrere e smise di cantare.
La sua voce fu subito sostituita da un altro suono. Un flauto traverso accompagnava adesso la chitarra. Lei non alzò gli occhi dal manico del suo strumento e continuò a suonare. Quando arrivò alla conclusione del brano rimase in pausa aspettando che chi aveva suonato il flauto si allontanasse. Non era in vena di parlare né di ascoltare, voleva solo godersi in pace quella magica atmosfera che era riuscita a creare.
Invece quel momento così unico fu spezzato da un accenno di applauso e da una voce maschile che disse qualcosa che lei si rifiutò di ascoltare.
I capelli le nascondevano in parte il viso e lei non li scostò. Si sollevò, rimise la chitarra nell'angolo buio e tenendo gli occhi rivolti al pavimento di ceramica chiara ed opaca tornò al suo tavolo.

 

 

 
 
 

III Pioggia improvvisa - Carthago delenda est

Post n°22 pubblicato il 25 Aprile 2011 da nuraghin45
 
Foto di nuraghin45

Guardò verso le vetrate. Si accorse che ormai era sceso il buio. Si avvicinò ad una finestra e vide che la pioggia era quasi cessata.  Si mise il giubbotto, prese in mano la sciarpa e si avviò verso la porta per uscire finalmente da quel locale.

Si vedeva già nel suo soggiorno accoccolata sul divano con una tazza di cioccolata calda in mano dopo aver indossato un comodo golfo e una morbida gonna di lana lavorati a mano da lei durante le sere dopo cena, mentre teneva accesa la TV prima di andare a letto.

Spinse la porta e uscì per strada. Sentì subito l' odore di terra bagnata che proveniva dai  terreni intorno ancora liberi da costruzioni. Le automobili correvano lanciando lampi di luce e schizzando l'acqua delle pozzanghere sui marciapiedi. Ben presto si accorse che la pioggia aveva ripreso a cadere copiosa.  Accidenti! Non era proprio possibile andare avanti.

Strinse i pugni dalla stizza e corse verso il locale. Entrò e senza spogliarsi si sedette al tavolo vicino alla porta. Voleva essere pronta a sgusciare via da quel posto prima possibile. Ma subito sentì che il giubbotto bagnato le dava fastidio, così decise di liberarsene. Le tornò il freddo, si sentì a disagio e si alzò quasi senza volerlo.  Guardò fuori e si accorse che la pioggia scrosciava incessante, senza tregua, illuminata dai fari delle automobili.

Tanto valeva prendere lì la cioccolata. Certo non sarebbe stata come la sua, non gliel'avrebbero servita in una tazza di porcellana bordata di oro zecchino, e le sue dita non avrebbero sentito i caldo contatto di un cucchiaino d'argento. Le sarebbe mancato il rito ma non aveva scelta, in quel momento aveva un'assoluta necessità di qualcosa di caldo e di confortante.

Il barista commentava con un altro cliente: "È arrivata la pioggia ... e chi se l'aspettava? Si può dire che fino a ieri si andava in spiaggia..."  Si rivolse a lei con un sorriso: "Desidera?"

"Una cioccolata calda" Mentre lo diceva la sua voce le parve strana, quasi quella di una sconosciuta.

Ogni tanto le capitava di non riconoscere la sua voce e di odiarla.

Dopo poco tempo si vide davanti la tazza con la cioccolata fumante. "Xocolatl" era il suo nome azteco. Moctezuma la beveva fredda, con il pepe e altre spezie, e non la poteva diluire con il latte perché in America non c'erano pecore e mucche. Era il cibo degli dei che i comuni mortali potevano sorbire per fare il pieno di energie fisiche e mentali.

A lei piaceva caldissima, al limite della scottatura della lingua, perché così ne gustava in pieno  l'aroma e si sentiva riscaldare dentro, dove spesso regnava il gelo.

La bevanda la conciliò con quella situazione assurda e cercò di guardarsi intorno per prendere consapevolezza dell'ambiente di cui era prigioniera. I quadri li aveva già visti, con la chitarra aveva fatto la conoscenza, non rimanevano altro che le persone.

Un quadro ha un suo messaggio, tu puoi accettarlo o rifiutarlo e tutto dipende da te, ma con le persone non funziona così. Hai davanti un antagonista, uno che può mettere in crisi le tue certezze, demolire i tuoi ragionamenti, scavare dentro di te per scoprire ciò che nemmeno tu sai, e distruggere le tue faticose costruzioni.

C'è chi adora conoscere persone nuove perché si illude di stabilire rapporti umani di amicizia, stima, apprezzamento. Pensa di avere un amico in più su cui contare in caso di necessità, o di aggiungere un nuovo nome alle liste degli invitati alle feste. Talvolta quando fai una nuova conoscenza ti sembra di aver trovato qualcosa di unico, di interessante, così simile a te che ne sei stupita tu stessa. Ma quando si accende il lume della ragione capisci che non è così, che siamo tutti individui che vagano sulla Terra alla ricerca di un sostegno ma nessuno vuol fare da sostegno, tutti vogliono essere sostenuti.

Da quando aveva capito questa evidenza, Bianca aveva smesso di avvicinarsi ai suoi simili poiché aveva sempre l'impressione che le si attaccassero addosso con dei micidiali viticci che prima o poi l'avrebbero strangolata.

Evitava, quando poteva, anche le semplici conversazioni di cortesia. Il pericolo era sempre in agguato.

Il suo bisogno di contatto umano era ampiamente soddisfatto dal rapporto che riusciva a stabilire con gli scrittori, quelli morti, ovviamente. Per lei, che era letteralmente catturata dai russi, leggere Cechov, Puskin, Gogol, Tolstoj era come parlare con un amico. In loro ritrovava il suo mondo ed era sicura che mai l'avrebbero delusa o tradita. Anche con Proust aveva stabilito un certo rapporto, ma lo trovava più ricercato, meno spontaneo. Peccato che ormai avesse letto e talvolta anche riletto tutte le loro opere. Doveva ora accontentarsi di qualche francese o, siccome era interessata alla storia, aveva passato in rassegna diverse opere di James Michener per non parlare di un libro che l'aveva entusiasmata, "Sarum" di un inglese di cui ora non ricordava il nome.

Tutti questi pensieri la tenevano occupata mentre sorseggiava la cioccolata che era diventata tiepida. Annoiata, si guardò intorno e si imbattè in una palma che svettava da un vaso. Non era una palma nana, né una Washingtonia, piuttosto le sembrava una palma da dattero, come quelle che le crescevano nei vasi dove lei buttava i semi dei datteri. Si ricordò di una palma mai cresciuta perché mai seminata. Aveva acquistato i datteri in Tunisia in quella oasi nel deserto dove i turisti vengono trasportati con le carrozze tirate da cavalli.  Tornata a casa sentì un rifiuto a dare a quei semi una speranza di vita in un vaso.

Quel seme non avrebbe mai potuto conoscere la sabbia delle lontane oasi, non avrebbe mai visto lunghe mistiche foglie librarsi nel cielo africano partendo dal suo cuore, non avrebbe mai sentito il caldo infuocato su di sé. Forse sarebbe divenuto sterile vegetazione con frutti immaturi ed aspri ma nessuno avrebbe più potuto restituirgli distese immense e cieli e terre natii.

A Cartagine lei aveva cercato le sue radici tra millenarie pietre. Le aveva trovate in un tunisino che raccontava la pena di un popolo che, come il seme di dattero, aveva visto spezzarsi ogni speranza di vita e aveva visto sciogliersi quel disegno già elaborato con tratti decisi e con i colori dell'avventura e dell'allegria attraverso mari e spiagge lontane, al di là dell'orizzonte. Delenda Carthago, e così fu.

La sua voglia di passato aveva finalmente trovato un angolo dove ancora era lecito cercare se stessa senza nascondere parole e gesti, sguardi e sorrisi. Il fascino di antiche genti, delle quali anche lei portava il segno, la coinvolgeva dolcemente e la rendeva sensibile alla loro piacevole fisionomia, all'acutezza e profondità del loro pensiero e ad un'umanità che riusciva a svelare l'essenza di tutto ciò che è reale come se fosse stato da sempre davanti ai suoi occhi.

Forse la loro lingua aveva parole più adatte per esprimere i pensieri che nascono in chi cerca di penetrare in mondi interiori sconosciuti fino a farsene sommergere.

Ma ben presto scialbe e vuote immagini si sarebbero sovrapposte al ricordo di mitici racconti e di antichi resti animati da moderne presenze modellate da centinaia di generazioni. E poi, forse, la ricerca del passato era per lei una fuga dal presente. Quel che non c'è più è comunque un punto fermo, un riferimento sicuro per chi ancora deve trapassare. Nel non senso di tutto ciò che Bianca percepiva intorno le sembrava che, se esisteva un valore, questo era nel mondo che non aveva conosciuto, in quei giorni persi per sempre.

Era dunque una rinuncia alla vita? Era paura di mettersi in gioco, di assumersi responsabilità, di dare forma concreta ai suoi pensieri, ai suoi desideri? I giorni passavano, i mesi trascorrevano, gli anni volavano e nulla cambiava.

 

Cyperus alternifolius

In un piccolo vaso di cristallo appoggiato sul bancone vide una rosa dai colori sfumati che prendeva la scena a frondosi tralci di edera argentata e a tre alti papiri. I petali color rosarancio ostentavano una superficie ricca di leggeri e simmetrici rilievi che  davano l'impressione di una seta pregiata.

Quella presenza silenziosa apriva scenari di giardini con roseti fioriti, gruppi di papiri che svettavano con la loro infiorescenza verde su incredibili steli lunghissimi apparentemente esili che si allungavano per superare la vegetazione intorno alla conquista di un raggio di sole, e antichi muri fatti a pietra e fango ricoperti da edere argentate.

La regina dei fiori, al massimo del suo splendore, mostrava una bellezza che non poteva avere rivali. Ma Bianca, osservando meglio, aveva visto qualche segno di stanchezza nei risvolti dei petali, già completamente aperti, che rivelavano un cuore di stami e pistilli, il centro della vita. Il suo ciclo si avviava alla conclusione. Forse domani già un primo petalo sarebbe caduto,  poi un altro, e un altro ancora. Mentre l'edera e il papiro avrebbero continuato a trionfare, per la rosa sarebbe presto arrivata la fine.

 

 
 
 

La spiaggetta felice

Post n°23 pubblicato il 04 Settembre 2011 da nuraghin45
 
Foto di nuraghin45

Sin da quando era nata, forse si era già nel quaternario, aveva capito che era solo una spiaggetta, e nient'altro. Non era le cascate del Niagara, né il Gran Canyon, né le Grotte di Nettuno. Era solo una spiaggetta. Non aveva grandi sogni, non poteva pensare di avere milioni di entusiastici visitatori anche perché non avrebbe avuto neppure lo spazio per ospitarli. Aveva imparato presto che la vita può essere un inferno se non si riesce a scoprire la magia del sassolino colorato, della conghiglia iridescente, della risacca che ti canta una melodia infinita, e si va invece alla continua ricerca di illusorie mete irraggiungibili.

Ogni giorno stava là, e quasi ogni giorno qualcuno calpestava la sua sabbia. Niente di che, una sabbia fine di colore tendente al grigio, qualche roccia che spuntava qua e là, qualche legno arrivato chissà da dove, l'astracarura, che la arredava.
Certo, avrebbe avuto mille ragioni per lamentarsi. Chi le buttava addosso rifiuti e cicche, chi di notte le lasciava sgraditi ricordini che poi olezzavano per ore ed ore ... ma poi pensava ai tanti bambini che avevano imparato a nuotare nella vaschetta delimitata da una serie di scogli piatti, ricordava i ragazzi che si erano scambiati proprio sulla sua sabbia il primo bacio, e sapeva che molti la amavano tanto da preferirla a tutte le altre.
E di notte, quando le luci dei lampioni del Lungomare la raggiungevano, sembrava un luogo incantato. Dall'alto il suo mare era così trasparente che si vedevano i fondali a tratti sabbiosi, a tratti disegnati dagli scogli allineati e paralleli, strati geologici di un passato silenzioso e intrigante. Quanto le piaceva la luna quando si specchiava nelle sue acque! Le donava tutto il suo argento e la rivestiva di autentici gioielli scintillanti.
Quasi mai arrivavano grandi tempeste, perché si trovava in un posticino riparato. Giusto qualche mareggiata durante l'inverno quando, per la verità, soffriva un po' la solitudine.
Eppure c'era sempre un motivo per sorridere e, se non c'era, se lo inventava. Aveva capito che era decisamente unica e voleva rimanere così come era. Davanti a lei si snodava un tempo vagabondo e lei voleva imparare a conoscere i ritmi del suo andare lento, antico e seducente. Non c'era possibilità di annoiarsi, di piangersi addosso, di deprimersi. Era troppo forte il desiderio di scoprire i misteri della vita per diventarne una vittima.
Non la annoiava il continuo sciacquio del mare, né la infastidivano il freddo e il caldo, né si lamentava della indifferenza di tanti. Nel caleidoscopio del creato trovava infinite seduzioni per stupirsi ogni giorno.
Lei era una spiaggetta, lo sarebbe stata al meglio per tutta la sua vita, era felice di esserlo e nessuno avrebbe potuto toglierle la gioia di esistere.

 
 
 

IV Pioggia improvvisa - Van Gogh

Post n°24 pubblicato il 09 Ottobre 2011 da nuraghin45
 
Foto di nuraghin45

- Ehi, Antò! Guarda un po' questo capolavoro...
- Fammi vedere ...
Prese il cellulare e scrutò il piccolo display.
- E questo che cosa è? Non si capisce niente. Sembra uno scarabocchio.
- Certo con la tua ignoranza non puoi capire questo dipinto. Scommettiamo un caffè che questa signorina invece lo riconosce al volo. Mi scusi, signorina, ho fatto una scommessa perché secondo me lei sa riconoscere questa immagine.
Bianca era totalmente immersa nel suo intricato mondo interiore. Non riusciva a venir fuori da quel groviglio che diventava sempre più fitto e avvolgente. Una voce echeggiava da un lontano universo, si diffondeva nell'atmosfera con suoni umani penetranti ma incapaci di trasmettere significati.
Si accorse di tenere stretta tra le mani una tazza ormai diventata quasi fredda e lentamente riprese i contatti con la realtà. Si volse verso il punto dal quale erano partiti quei suoni e vide una mano che le tendeva un cellulare. Sollevò appena lo sguardo e incontrò due occhi sorridenti e dubbiosi che si interrogavano sull'opportunità di continuare il tentativo di mettersi in contatto con la ragazza della cioccolata. Un rifiuto non lo avrebbe messo in difficoltà, dato che era abituato a riceverne come tutte le persone che cercano una relazione con gli spazi circostanti che non sempre vogliono essere violati.
Bianca non fece in tempo a rifiutare l'approccio, che vide sul piccolo display la "Notte stellata" di Van Gogh con una figura femminile in un angolo.
Guardò a lungo in silenzio ma a un tratto la mano che reggeva il telefono si ritirò. Sentì una voce scherzosa che diceva:
- Il tempo è scaduto. Allora sa che cosa è? Su, non mi faccia perdere la scommessa!

Beh, era tra i suoi quadri preferiti. La faceva sognare quel cielo popolato di luci e poi le piacevano da morire quelle pennellate decise, sicure, avvolgenti che fanno sembrare lo spazio infinito così vicino, così intimo, così interiore. E i colori poi la sconvolgevano con le tante tonalità che, pur fredde, avevano un loro centro sfolgorante che pareva dover esplodere all'improvviso Quegli azzurri, quei gialli, la riempivano di voglia di casa, di calore in una di quelle minuscole costruzioni del paese dove un'umanità semplice e laboriosa aveva creato un rifugio tiepido e confortante per una vita fatta di stenti.
Un cielo sempre uguale per esistenze sempre diverse che si succedono come i fiori dei prati che cambiano ad ogni stagione in uno stesso terreno.
Chissà perché ora si sentiva tanto leggera, come se dovesse aprire delle magnifiche immense ali per sovrastare quello spazio soffocante e ristretto.
Perché la vita non è mai come la vorremmo? Perché il volo di chi lascia il nido è spesso devastante? Perché non c'è risposta ai nostri richiami, anche quando diventano interiori urla di soccorso?
- Mi scusi, sta bene? Ha bisogno di qualcosa?
Pioveva ancora, ancora il vento strappava le foglie dagli alberi; qualcuna smarriva la strada, arrivava sui vetri e ci si attaccava sopra, quasi a curiosare là dentro, dove c'era gente che rideva, parlava, riempiva frammenti di tempo in attesa del dopo.
Lei aveva bisogno di qualcosa? Si, aveva bisogno di tanto, ma nessuno lo sapeva e nessuno poteva darglielo.
- Hai visto? Neanche la signorina sa cosa diavolo hai dipinto.
- Ma la scommessa non è ancora persa. Adesso chiedo a quei ragazzi.
- Ehi, ehi, non cambiare le carte in tavola. Il patto era che lo doveva riconoscere lei.

van Gogh


Bianca, senza alcuna volontà da parte sua, sentì dei suoni raggiungere le sue labbra. Non voleva parlare, ma quasi in trance disse:
- Che cosa ci fa una donna nella "Notte stellata" di Van Gogh?
Lo disse con voce decisa e ironica, senza guardare in faccia il destinatario, come se stesse parlando con se stessa, come faceva tante volte nella solitudine della sua casa, a volte senza neanche accorgersene.
Parlava da sola. Era l'unico modo per esprimere opinioni, ma il bello era che spesso si sdoppiava e rappresentava due punti di vista sulle questioni.


- Dovresti essere meno acida
- Ma io non sono acida, solo che non sopporto la faciloneria, il menefreghismo, l'opportunismo degli altri.
- Se continui così finirai col diventare una vecchia zitella sola e incattivita.
- Oh basta con le prediche, adesso devo occuparmi della cena.
Erano monologhi/dialoghi di questo tipo. Insomma, non riusciva ad andare d'accordo neppure con se stessa.


- Beh, che ti dicevo? La signorina ha indovinato e adesso mi devi offrire un caffè.
- E chi mi dice che ha indovinato? Signorina, è sicura di quello che ha detto?
- Sicura, sicurissima. È una manipolazione di un quadro di Van Gogh.
- Mi scusi, perché parla di manipolazione? Ho soltanto adeguato la notte ottocentesca alle mie fantasie. Ho inserito un elemento che si fonde con il paesaggio remoto, una creatura che è quasi un astro che però vive sulla terra. La mia donna è come una stella per me ma non sta in cielo.
- Mamma mia che sofisticheria! Ha una bella faccia tosta! Prende un dipinto bell'e fatto, con un suo linguaggio ben definito e lo stravolge per suo comodo! Viva Van Gogh!
- Ah certo, non tocchiamo i mostri sacri! Mi dispiace ma, se parla così, è perché  lei vive vive nell'epoca di Van Gogh.


A questo non aveva mai pensato. Forse aveva proprio sbagliato epoca. In realtà il pittore aveva sottolineato la sua mentalità antiquata e rancida, ma lei lo aveva preso come un complimento.
- Meglio essere ottocenteschi che mistificatori.
- Ho notato come ha guardato i miei lavori a pastello poco fa. Mi è sembrato che le siano piaciuti.
- Ah, sono suoi?
Bianca volse lo sguardo intorno per rinfrescare la memoria. Voleva trovare qualcosa di molto offensivo da dire ma non ci riuscì. Che cosa si poteva dire di quelle istantanee marine così vivaci, immediate, seducenti ...

 Posò la tazza vuota sul bancone davanti a sé e si accorse che la mano le tremava. Evitò di guardare quell'inquietante movimento e si lasciò assorbire dal rumore della pioggia sul tetto. Era uno scroscio incessante che ormai le dava l'angoscia. Forse la strada si era già trasformata in un fiume di acqua sporca che un po' stagnava e un po' correva verso i tombini ormai intasati e incapaci di smaltire quella massa liquida fangosa Sentiva rari automezzi transitare lenti, a passo di guado in mezzo all'acqua, accompagnati da schizzi involontari che si sollevavano con piccoli vortici ad ogni giro si ruota.
Aveva voglia di guardare per strada ma non riusciva a muoversi. Era come bloccata lì, davanti al bancone, e provava imbarazzo perché si sentiva osservata dal pseudo-pittore, dal cameriere e, ad un certo punto, le parve che tutti avessero gli occhi fissi su di lei. Si sentiva tremare, e non capiva che cosa le stesse accadendo.
Fu il pittore ad allontanarsi e lei si sentì meglio, riuscì a sollevare lo sguardo, e si accorse che nessuno la guardava. Il gruppo dei ragazzi era diventato più silenzioso, qualcuno giocava col cellulare, qualche altro parlottava con il vicino, o beveva la sua birra, e negli altri tavoli c'era chi aspettava in silenzio la fine dell'acquazzone e chi approfittava di quella sosta forzata per leggere il giornale. Da più di mezz'ora non entrava più nessuno nel locale e arrivavano telefonate di clienti che chiamavano per annullare la prenotazione. Antonio, il cameriere, era gentile con tutti, ma una volta messo giù il telefono diventava scuro in volto e si lamentava perché quella serata si presentava
piuttosto magra.

 
 
 

Memorie 1997

Post n°25 pubblicato il 23 Dicembre 2011 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

30 dicembre 1997
Questo dicembre non sa di Natale. Altri pensieri oscurano le luci intermittenti e allontanano le note delle pastorali. Forse non c'è neanche voglia di Natale. Però ho una gran nostalgia di quel mio primo presepe fatto sul tavolo nella sala da pranzo tra l'insofferenza di mamma e l'entusiasmo di zia. Come brillavano quelle luci piccole piccole tra il muschio appena raccolto nei terreni incolti attorno a casa e le statuine appena comprate...

Andavo avanti e indietro per sentire il ticchettio dei miei primi tacchi: un paio di scarpe blu, tanto carine, che non mi stancavo mai di guardarle.
E la carta stellata era lo sfondo della grotta realizzata col sughero mentre mamma brontolava perché avevo sporcato per terra e zia diceva :- No fazzi nienti, abà cun d'un'istrazzu, vi bò assai a ...
Non ricordo più bene come suonavano quelle parole e ne ho una gran nostalgia. Mi ritorna ancora la allegra atmosfera dei miei quattordici anni e ripensandoci mi viene da piangere. Mamma, zia, non ci sono più e anche la casa è cambiata. Ci sono solo io e anch'io sono tanto diversa.
Altri tacchi risuonano nelle stanze: tutto cambia ma, forse, qualcosa ritorna. Un gesto, un modo di parlare, un modo di pensare ... chissà, forse uno sguardo o un sorriso che hanno attraversato i secoli per arrivare fino a noi e seminano ancora per i giorni futuri.

 
 
 

Il senso della vita

Post n°26 pubblicato il 25 Gennaio 2013 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

Ivana lavorava a maglia nel suo soggiorno. Un silenzio quasi religioso riempiva l'aria della stanza dove i quadri appesi al muro parevano visioni di un tempo lontanissimo ormai perso per tutti. La lunga sciarpa si arrotolava ad ogni cambio di ferri mentre il gomitolo andava e veniva sul pavimento lucidato a specchio. Ivana ogni tanto tirava il filo e poi lo faceva passare tra le dita della mano destra, così come le aveva insegnato sua madre tanti, tanti anni fa, quando era ancora bambina. Pochi ninnoli sullo scaffale che separava la zona pranzo dal salotto denotavano un gusto particolare per le ceramiche e per i vetri mentre erano del tutto assenti i portacenere. Una bella pianta grassa invasata in un contenitore di rame era appoggiata al centro del tavolino. Dai trafori della tovaglietta in cotone ecrù lavorata a uncinetto posata sul tavolino si intravedeva il colore scuro del legno. Aveva proprio azzeccato il motivo della tovaglietta, era proprio soddisfatta del suo piccolo capolavoro.
L'ampia vetrata faceva entrare luce in quantità nel locale. Mentre dalle finestre delle abitazioni intorno si indovinava l'uso della luce elettrica, lei aveva il privilegio di godere della luce naturale per gran parte della giornata anche durante l'inverno. Eh, si, era stata una bella idea quella di fare una vetrata che dava direttamente sulla terrazza. Oltre ad avere luce in abbondanza, durante l'estate poteva avere la vista riposante della vite americana che tappezzava di verde il muro di fronte. E poi spesso sulla terrazza passavano i gatti del vicinato. Erano così carini! Arrivavano alla vetrata, si sedevano lì davanti e guardavano dentro casa. Qualche volta, spinti dalla fame, poggiavano le zampe sui vetri allungandosi il più possibile. Allora Ivana guardava se aveva qualche avanzo, oppure del latte, per sfamarli. Però quei malandrini il più delle volte storcevano il muso. Infatti erano ormai abituati alle crocchette e al cibo per gatti e non si litigavano più per una zuppa di latte o per delle lische di pesce come avveniva un tempo. Per non parlare della pastasciutta che non toccava quasi il contenitore perché già si allungavano i musi e le zampe per intercettarla. Altri tempi.
Questa sciarpa non finiva più. Più aveva fretta, più le sembrava corta. Colpa sua se aveva perso la sua bella sciarpa? E dove era successo il fatto? Al supermercato, al negozio dei detersivi o per strada? Quando era andata a cercarla nessuno l'aveva vista. Possibile? Sparisce così una sciarpa bicolore lavorata a mano? Mah! Per fortuna a casa si era trovata della lana uguale, anche se già usata, e adesso la rifaceva identica.
Ripensava alla fine del film "Departures" che aveva visto poco prima. Una fine pacificante, consolatoria, con uno sguardo verso il futuro. Strano film. Quando aveva visto l'inizio Ivana era rimasta perplessa. Le era piaciuta molto la scelta di far vedere l'automobile che viaggia nella nebbia. Lasciava presupporre una buona scenografia. Ma quando era comparso il cadavere adagiato sul pavimento ed erano iniziate le pratiche per prepararlo, aveva subito bloccato la pellicola. Suo marito già brontolava "Bei film registri!" In effetti non era un film da vedere per chi cercava uno spettacolo possibilmente divertente e spensierato, giusto per conciliare il sonno. Tuttavia non lo aveva cancellato. Nei giorni successivi ripensava al film. Chissà, forse avrebbe assistito a sequenze interessanti sul culto dei morti in Giappone e avrebbe potuto aggiungere delle notizie al suo lavoro di ricerca sulle superstizioni. Così, un pezzo per volta, lo aveva visto tutto. Era decisamente un bel film ma certo occorreva lo spirito giusto per guardarlo. A lei interessavano le pratiche del tanato-esteta, le interessava soprattutto capire perché i parenti volevano che il loro caro venisse preparato in maniera impeccabile visto che poco dopo si sarebbe proceduto alla cremazione. Era forse un ultimo omaggio per rendere meno traumatica la separazione, un risarcimento al defunto che, avendo perso la vita, otteneva un'attenzione speciale da parenti ed amici, che assistevano alla preparazione in raccoglimento, attenti ad ogni gesto del rito... Ivana non sapeva, ma aveva capito che la cerimonia serviva ai parenti per attutire il dolore del distacco perché vedere il loro caro fatto oggetto di tanta sollecitudine li gratificava, e ancora di più era motivo di consolazione osservare come quel viso ormai inanimato diventasse bello dopo il trattamento, come se la morte non lo avesse toccato. Molti vedevano così la vera immagine del proprio caro, quella che non sempre erano riusciti a cogliere durante la vita. Pochi minuti per riempirsi gli occhi di quelle sembianze, e poi solo un po' di cenere.
Dopo aver visto il film Ivana lo aveva cancellato. E poi si era posta tante domande. Aveva scoperto che la pratica dei tanato-esteta era ormai sparita dalle grandi città ed era caratteristica dei centri più piccoli del Giappone, e chissà, forse era destinata all'oblio. Il senso pratico prevale poi su tutto, si sfronda ciò che è ritenuto superfluo, e con ciò si spoglia il senso della vita che diventa sempre più scarno, più sottile, più impalpabile.
E poi ci si chiede perché viviamo, che significato ha il passaggio sulla terra, a che cavolo serve la nostra fatica, il nostro impegno, la nostra volontà di andare avanti, e non ci sappiamo dare neppure uno straccio di risposta. Ivana aveva risolto il problema immaginando di partecipare ad una grande festa che un giorno sarebbe finita, ma finché c'era bisognava ballare. Non si poneva più domande da quando aveva capito che se nessuno fino ad oggi era riuscito a trovare risposte, certamente non ci sarebbe riuscita lei. E allora viveva senza porsi inquietanti perché, senza credere in fantasmi che nessuno aveva mai visto. Conosceva un solo modo di passare il tempo: andando alla ricerca dell'uomo, dei suoi pensieri, dei suoi sogni, delle sue scoperte, di quel mondo di idee che gli aveva permesso di ottenere una vita comoda e gratificante in un habitat che non sembrava fatto per lui.
Squillò il telefono. Oh,no! Sarà qualcuno che vuole farmi un nuovo contratto per il telefono! Ti prego. No! Gli squilli continuavano. Ivana lasciò il lavoro sulla sedia e andò a rispondere. - Pronto? .... Ah, ciao. Come stai? ... Come al solito, si va avanti, come sempre ... Certo che mi fa piacere, vieni pure, stasera non devo uscire. Ciao, a dopo.-
La sua amica veniva a trovarla, chissà, sicuramente voleva qualcosa. Aprì la vetrina e prese tre piattini, due tazze da tè, e la teiera; no, non mancava niente. C'era il limone? Guardò in frigo. Sì, il limone c'era. Lo affettò e lo posò su un piattino. Prelevò due cucchiaini, e li adagiò sui due piattini. Si ricordò dei tovaglioli da tè e li mise vicino ai piattini dopo aver controllato che fossero puliti. Non li usava spesso. Mise sul fuoco un bollitore con abbondante acqua e attese la scampanellata che non tardò a farsi sentire.
Baci, abbracci. -F
inalmente ti fai vedere! Ti trovo bene. Sei dimagrita? E questo che cosa è? Oh, delle arance. Grazie! Che profumo! Scommetto che le hai appena colte. Sono meravigliose e saranno sicuramente buonissime!
- Sono le prime arance. Quest'anno gli alberi hanno caricato.
- Sto preparando il tè. Non ho biscotti, ma possiamo accompagnarlo con i crakers. Preferisci zucchero o miele?
- Sono venuta per dirti che mio figlio si è candidato.
- Prima che continui ti dico che io sono "antipolitica" e "populista". Non so con chi si sia candidato Emanuele, ma per quanto mi riguarda non intendo andare a votare. E poi, scusa, non hai sempre detto che tuo figlio è un buono a nulla?
- Eh,si, è vero. Ma tu credi che chi fa politica sia capace di fare qualcosa? E' proprio perché sono buoni a nulla che fanno politica! Anzi, a ben pensarci, mio figlio è troppo onesto per ficcarsi là in mezzo! Ma sicuramente potrà cambiare.
- L'acqua bolle!
- Cara mia se vogliamo che qualcosa cambi in questo schifo di paese bisogna farsi sentire.
- No, io credo che ormai niente più ci salverà, e non intendo diventare complice di chi sta divorando l'Italia. Stanno distruggendo una nazione intera e non darò il mio avallo. Non posso bloccarli, ma non voglio essere complice.
- Ho capito, non voglio stare a convincerti. Anch'io penso che non si possa fare niente di niente in questo schifo di posto, ma arrivare in parlamento significa avere un ottimo stipendio, privilegi a non finire, possibilità di fare affari... è insomma, una buona sistemazione ...
Tra una sorsata e l'altra di tè si materializzavano intorno alle due amiche euro in quantità smisurata, privilegi, appalti, contratti ... Ad ascoltare con attenzione nella stanza si sentivano anche i dlin dlin dei soldi.
Quando l'amica andò via dicendo che aveva ancora tante visite da fare Ivana ritirò le sue tazzine di porcellana prima che facessero una brutta fine e riprese il lavoro. Ma ora non vedeva più bene. Appoggiò il lavoro sul grembo e attese un po' prima di accendere la luce. Le piaceva quella penombra che dava al suo soggiorno un aspetto particolare, mettendo in evidenza ciò che la luce nascondeva. Mio Dio! Che cos'era la vita? Era forse quel buio dove milioni di diseredati cercavano a tentoni l'uscita dall'incubo della disoccupazione, della cassintegrazione, del lavoro perduto e più ritrovato, o era la luce sfolgorante dei privilegiati che non conoscevano ostacoli al loro bengodi? Quando sei immerso nella luce non vedi chi sta nel buio. Era per questo che i due mondi non potevano incontrarsi. Ed era per questo che Ivana, angosciata per non poter aiutare i condannati alle tenebre, non avrebbe certo acceso altri lumi per chi già godeva della luce.
Rimase ancora a lungo seduta sulla sedia al buio ad ascoltare le voci di chi chiedeva giustizia, equità, uguaglianza. Ma non seppe dare nessuna risposta.

 

 
 
 

Una triste storia

Post n°27 pubblicato il 01 Febbraio 2019 da nuraghin45
Foto di nuraghin45

In un paese molto molto lontano regnava un sovrano che si nutriva del sudore dei suoi sudditi. Soltanto il sudore lo nutriva e lo saziava. Per procurare tanto sudore i sudditi, uomini e donne, dovevano lavorare dall'alba al tramonto senza requie.

Come andrà a finire?

 
 
 
Successivi »
 

AREA PERSONALE

 

TAG

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 3
 

ULTIME VISITE AL BLOG

tholos1994giovannatiloccanuraghin45amiciverdeAussiematepion62roby20113francescapedron1975tuttofiniscequac.raffaele1967domibertigiadacubalibreromerorainbowsixtygianni.iorizzo
 

CHI PUÒ SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

CONTATTA L'AUTORE

Nickname: nuraghin45
Se copi, violi le regole della Community Sesso: F
Età: 78
Prov: SS
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963