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I MIEI RACCONTI, LE MIE FANTASIE, LE MIE ESPERIENZE.

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L'ALBERGO (capitolo I)

Post n°111 pubblicato il 20 Aprile 2010 da fittavolo
 

L’albergo a quest’ora comincia la sua fase di rem. I clienti, alcuni sono fuori, altri stanno per andare a dormire. Anche questa giornata è finita, finalmente fra qualche attimo sarò libero. Oggi ho lavorato tanto, le chiamate sono state molte e, per fortuna, sono riuscito a soddisfarle tutte. Tutte tranne quella dei clienti della stanza 115, lì non ho potuto farci niente. Io dalle beghe familiari ne sto alla larga. Ormai ho superato la fase critica di questo lavoro, dove soddisfare il cliente è l’unico insindacabile comandamento. Tempo fa non sarebbe andata così, mi sarei lasciato coinvolgere, e in buona fede avrei detto la mia. Ma ora non più, possono anche richiamarmi, farmi un formale rimprovero, multarmi per essere venuto meno a dei “doveri”, non me ne importa nulla. Assolutamente nulla. Io ho la mia vita, loro la loro.
Basta! Butto sul tavolo lo strofinaccio, mi asciugo il sudore con un tovagliolo di carta e vado in camera mia. Doccia. Abbigliamento da svago e questo vuol dire pantaloncini corti, tshirt bianca, scarpe ginniche e berretto. E poi via di corsa in spiaggia. Comincia ora la mia notte, pienamente dedicata a me, solo a me. A dire il vero passo solo un paio d’ore steso su una sdraio a guardare le stelle e ad ascoltare il mare. È il mio modo di rigenerarmi, di rinvigorire le mie forze per poter affrontare le fatiche del giorno dopo. L’ho scoperto lo scorso anno quasi per caso, quando gli altri “colleghi” una volta mi hanno dato buca. Allora non sapendo cosa fare, mi sono steso sulla prima sdraio che ho trovato in riva al mare e sono rimasto lì, a pensare. L’ho trovato molto rilassante, molto meglio del bum bum della discoteca, e del caos di certi locali notturni. Da quella volta, molto spesso passo qui la mia serata libera, e questa è una di quelle volte.
“Fa un caldo cane fuori” mi dice il portiere, e ci credo! Qui in albergo c’è l’aria condizionata che falsa ogni percezione della realtà al di fuori di questi locali. Vado al bar e prendo una birra ghiacciata, anzi due. Saluto il portiere e mi dirigo verso il mare. Il viale Lungomare è l’unica barriera che incontro, qui anche di notte c’è gente che corre in macchina, l’attraverso. Seguo il vialetto di cemento che spacca la spiaggia in due, fino a quando affondo direttamente i piedi nella sabbia. Al limite della battigia vedo la mia sdraio. Fede’ il bagnino, è un vero amico me la lascia aperta, pronta all’uso. Come sempre, la luna rischiara i granelli dorati e mi permette di raggiungere con facilità il mio giaciglio. Mi fermo un attimo, appoggio le birre nella sabbia, e mi stiro guardando il firmamento. È qualcosa di veramente favoloso. Manca qualche giorno alla notte di San Lorenzo, ma questa notte non ha nulla da invidiarle. Bene! Recupero le due birre e mi avvicino alla sdraio, ma vedo qualcosa d’insolito. Un’ombra sovrapposta a quella della sdraio. Odo un rumore simile a un cigolio. Qualcuno è steso sul mio giaciglio e sembra non essersi accorto della mia presenza.
“Scusi, è vietato occupare il bagno nelle ore notturne” dico con fermezza.
Vedo una figura tirarsi su e sedersi, sembra una donna.
“Non lo sapevo, mi spiace, avevo solo voglia di stare un po’ da sola” dice con voce rauca, poi da un colpo di tosse per schiarirla. La luna le è alle spalle e non mi permette di vederla bene, tuttavia dai contorni mi sembra di conoscerla.
“Chi è lei?” chiedo.
“Sono una cliente di quell’albergo – lo indica, è quello dove lavoro – non voglio assolutamente disturbarla, vado via subito” si alza, è la signora della stanza 115. Nella poca luce riesco a malapena a intravedere i lineamenti del viso, sembra molto triste, ho l’impressione che abbia pianto. Non so che fare, ma istintivamente le dico di stare comoda, che essendoci io nessuno potrà dire niente. Rovino così la mia libera uscita!
“Vuole bere una birra?” gliele porgo una. La prende senza dire nulla e la sorseggia.
“Grazie, ci voleva” dice dopo.
Guarda fisso il fondo del mare, come incantata, io resto in piedi e sorseggio l’altra birra.
“La prego, non resti lì, venga a sedersi anche lei” dice, ed è un invito al quale non so rinunciare. Sono molto stanco. Mi siedo dall’altra parte della sdraio e faccio finta che non esista. Scorrono i minuti. Il rumore del mare è sempre lo stesso, nonostante la sua presenza, vuol dire che sono riuscito a estraniarmi. Il caldo è qualcosa di opprimente, nonostante l’ora la sabbia scotta ancora. L’aria è ferma e l’odore della salsedine è ovunque. A me piace, mi ricorda da piccolo quando andavo al mare in colonia, ci portavano inquadrati in fila per tre fino al bagnasciuga e sentivo lo stesso odore.
“Le va di parlare” chiede timidamente.
“Parlare? Di cosa?” chiedo.
“Qualsiasi cosa, le va?” dice, ed è più che un invito.
“Va bene, purché la smetta di darmi del lei” preciso.
“Anche lei…cioè tu” puntualizza.
Parlare, ma di cosa. Perché questa donna vuole parlare con uno sconosciuto, non è meglio che parli con suo marito?
“Tu lavori nell’albergo, ti ho riconosciuto, sei quello che oggi con molta classe ha evitato di rispondere a mio marito” dice.
“Molta classe! Non ho risposto e basta…io non voglio essere coinvolto nelle beghe altrui” dico.
“Sei modesto, mio marito è rimasto colpito dal tuo atteggiamento, era convinto che comunque una risposta gli fosse dovuta, se non altro perché lui è un cliente dell’albergo” dice.
Bel cliente suo marito, coinvolgermi nelle vostre faccende solo per dimostrarle di aver regione, Beh! Io non ci sto, che se la sbrighi da solo.
“L’avevo capito subito, cosa voleva che dicessi. Forse qualche tempo fa, ci sarei cascato ingenuamente, ma ora dopo tanti anni d’esperienza…” affermo.
“Hai capito che voleva solo ridicolizzarmi, sfruttandoti?” chiede.
“E l’ho capito sì. Era così evidente! Ma tuo marito è sempre così stronzo?” chiedo, ma forse non dovevo, s’irrigidisce e tarda a rispondermi.
“Non sempre…a volte sa essere dolce, mi fa sentire una regina…ma sempre più raramente” dice con dispiacere. Ed è evidente che c’è qualcosa che le resta in gola e la soffoca.
“Tu hai una donna?” chiede, e mi suona strana questa domanda.
“Ho rinunciato ad avere una donna anni fa” dico.
“Per scelta?” chiede.
“Non proprio…per necessità” rispondo.
“Quale necessità?” chiede fissandomi. Sembra molto incuriosita.
“Non ho più voglia di soffrire, le pare poco?” dico.
Sorpresa dalla mia risposta resta in silenzio, quasi come se sia delusa, forse si aspettava qualcos’altro. Un motivo di quelli da dare in pasto a psicologi per tirare fuori teorie sui rapporti umani, sull’amore, invece una rinuncia per evitare di stare male è solo una necessità opportunista, da vile.
“Anch’io sono stufa di soffrire” dice e mi sorprende e mi impaurisce. Questa affermazione potrebbe celare dietro motivi che è meglio che non conosca. Meglio alzarsi ed andare via, al più presto. Ed è quello che sto per fare, quando mi afferra la mano costringendomi a rimanere seduto.
“Perché voi uomini siete crudeli, non vi fate mai bastare quello che avete?” chiede.
“Cosa intendi dire? E poi perché generalizza, non tutti gli uomini sono uguali, ce ne sono di veramente dolci, che per la propria donna farebbero faville” dico.
Mi lascia la mano, non ha più paura che scappi via.
“Dove sono questi uomini? Prima di sposare Fabrizio, ho avuto altre relazioni, altri uomini con cui ho cercato di costruire qualcosa, sai qual è stato il risultato? Questo!” prende un pugno di sabbia e me lo mostra, lascia scivolare i granelli tra le dita, poi scuote la mano vuota.
Niente! Questo è stato il risultato, ho capito e allora io cosa dovrei dire? Ho avuto tre relazioni, una peggio dell’altra. Ogni volta mi sembrava quella giusta, davo me stesso perché si costruisse qualcosa di solido. Alla fine mi sono sempre ritrovato da solo, con i miei sogni sbriciolati e le solite scuse: non siamo fatti l’uno per l’altra, credevo di amarti invece…e così via, e non credere che sono stati degli uomini a farmi questo. Mia cara signora triste, anche voi donne avete dei bei difettucci. Questo lo penso, ma devo avere lasciato trasparire qualcosa, la mia espressione non è certo serena.
“Perché quella faccia, non sei d’accordo?” chiede meravigliata.
“Ognuno ha le proprie storie, fatte di gioie e dolori. Anch’io ne ho, e a sentire le tue sono riemerse” dico e mi alzo. Tolgo le scarpe vado verso il mare per bagnarmi i piedi. È una cosa che faccio raramente, solo quando non ho voglia di pensare. Il mare è caldo. Le onde si susseguono con lentezza, a pochi metri dalla riva c’è calma, l’acqua sembra adagiata su una tavola piatta, impossibilitata nel movimento. La sua mano si appoggia sulla mia spalla. È un tocco amichevole, ne sento il calore. Anche lei si lascia bagnare i piedi.
“Spero che suo marito non sia geloso, io e te da soli qui, potrebbe pensare chissà cosa!” dico francamente.
“Non preoccuparti, quando litighiamo sparisce per un po’. A volte sta via così tanto da preoccuparmi” dice.
“E quando torna…?” chiedo.
Lei sorride.
“E quando torna facciamo pace. Facciamo l’amore. Sono così contenta di rivederlo che tutto mi scivola addosso” risponde.
“Fino alla prossima volta…” azzardo a dire.
Lei sospira.
“Fino alla prossima volta, esatto!” dice con rammarico.
Non aggiungo altro. Rimaniamo in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, con le proprie speranze sospese.
“È tardi, devo rientrare, domani è un altro giorno di lavoro” dico e mi siedo e mi metto le scarpe.
“Già tu non sei vacanza” dice.
“Già…” sottolineo.
“Possiamo continuare questa chiacchierata un’altra volta, domani?” chiede.
“Hai intenzione di litigare anche domani con tuo marito? Altrimenti come farai a restare sola?” dico sorridendo.
“Domani, torna a Pavia, per tre giorni. Motivi di lavoro. Per questo abbiamo litigato. Per questo ti ha fatto quella domanda” dice.
“Ah! Per questo?” dico compiacente.
“Saputo il motivo, non mi dirai che anche tu la pensi come lui, che lo giustifichi?” chiede.
Non so che dirle, tuttavia io non l’avrei lasciata sola in vacanza, però voglio provocarla.
“No…no…non voglio giustificarlo, penso solo che il lavoro è importante, e se si assenterà per soli (sottolineo soli) tre giorni, non è la fine del mondo, ti pare?” dico.
“Anche tu…la stessa opinione di Fabrizio…sono stanca, sono stufa…scusami” dice e si allontana andando verso l’albergo. Resto lì impassibile: non mi aspettavo una reazione così vistosa e soprattutto non mi aspettavo che se ne andasse. Mi stendo sulla sdraio, cerco di rilassarmi nel poco tempo rimastomi. I pensieri non si pacano, sono sempre focalizzati su quella donna, sulle sue parole, sulla sua tristezza tanto grande da renderla incapace d’accorgersi di una provocazione. Ma l’avrà capito che stavo scherzando? Mah!
Intanto il mare infischiandosene di tutto, continua col suo perenne moto e una leggera brezza comincia a muovere un po’ l’aria.

 
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CARPE DIEM (terza e ultima parte)

Post n°110 pubblicato il 15 Aprile 2010 da fittavolo

Vivevo a Milano da dieci anni e avevo lasciato il sud che ne avevo quindici. Ormai delle vecchie e sacre tradizioni del sud mi restava un vago ricordo. Alle spalle avevo due esperienze sentimentali deludenti e non ne volevo altre: avevo già sofferto abbastanza. Ma questo non fu sufficiente a convincermi ad abbandonare il desiderio di provarci con la ragazza dagli occhi piccoli.
L’amore si presenta alla tua porta quanto meno te l’aspetti, entra senza chiedere il permesso, si insinua nei tuoi pensieri, annulla la tranquillità che pensavi di avere. Non molla la presa, fino a quando non hai fatto la tua scelta, e a volte, anche dopo.
Ebbi la profonda sensazione di essere stato invitato a questo, a decidere del mio futuro: dovevo fare una scelta. Così vidi scorre davanti ai miei occhi ore di discussioni con gli amici, ore passate a riflettere da solo, su uno dei più grandi argomenti del genere umano. L’amore. Ma che cos’è l’amore? Delle tante cose dette e ascoltate ho maturato un concetto d’amore che le comprende quasi tutte, senza tuttavia chiarirne completamente la natura. L’amore resta comunque un sentimento misterioso, senza una logica sceglie le sue vittime e cerca di accoppiarle. A noi rimane solo la facoltà di accettare o rifiutare questa sua proposta. Detto così sembra arido, e lo era anche allora, ma era l’unica cosa tangibile e concreta che giunsi a formulare. L’amore ci invita a fare una scelta. Allora Carpe Diem, cogli l’attimo.
La ragazza dagli occhi piccoli aveva acceso in me la fiammella dell’amore, e io dovevo scegliere. Quel 18 agosto del ’86 fu un giorno lungo, fatto di riflessioni, decisioni e ripensamenti continui. Ma alla sera, la mia conclusione era ben chiara. Supposto che, anche lei provasse le stesse cose per me, la decisione d’iniziare una relazione a distanza, l’avrei lasciata prendere a lei. Era giusto così, perché lei avrebbe dovuto allontanarsi dal suo mondo, rinunciare alla quotidiana presenza dei propri cari, abbandonare gli amici e cambiare vita; pensavo già ad un futuro insieme. Io non potevo trasferirmi al sud, quei luoghi sono sempre stati poveri di lavoro e sinceramente non sarei riuscito a riadattarmi alle loro abitudini. Decisi di telefonarle il giorno dopo a metà mattinata, e dichiararmi, dalla sua reazione avrei deciso cosa fare.
La sua disponibilità al dialogo confermò ciò che avevo pensato.
“Ascolta volevo dirti che mi hai colpito, che mi piaci” dissi, non ci fu una risposta immediata, come se dovesse pensarci, metabolizzare la notizia. Invece dal filo di voce tremante emesso dall’auricolare della cornetta, capii che era emozionata e doveva solo riprendersi.
“Anche tu mi piaci” disse quasi sottovoce.
Questa volta fui io ad accusare il colpo emotivo, sapevo che era una delle possibili risposte, ma sentirselo dire fece tutto un altro effetto.
“Ti scriverò una lettera e ti spiegherò tutto. Io non voglio scherzare con te, non voglio prenderti in giro, ma tu devi decidere sapendo tutto, in piena coscienza. Nella lettera ti parlerò del posto dove vivo, e dove un giorno, spero, deciderai di vivere anche tu. È una scelta difficile, piena di rinunce, me ne rendo perfettamente conto, proprio per questo voglio che tu decida dopo aver letto la lettera” dissi e incrociai le dita.
“Va bene” fu la risposta.
Scrissi la lettera e la spedii il giorno dopo e non aspettai molto per la risposta. La sua lettera mi confermò la sua scelta. Ci mettemmo insieme e al telefono ci demmo il primo bacio, la prima carezza, nella attesa d’incontrarci.

 
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CARPE DIEM (seconda parte)

Post n°109 pubblicato il 14 Aprile 2010 da fittavolo

Il giorno dopo andammo nuovamente al mare. Questo suscitò molta meraviglia da parte dei miei, considerato che ne ero sempre stato restio: quella volta non feci alcuna obbiezione. Arrivammo in spiaggia che il sole era già alto, faceva un caldo torrido e io ero già tutto sudato. Sinceramente, avevo dei dubbi di rivedere quelle ragazze, la sera scorsa era andato tutto bene, ma non avevo certo brillato. E poi, non sapevo cosa ci trovassero in noi. Già allora ero convinto che ad ogni effetto c’è la sua causa, che nulla accade senza motivo. Quindi un motivo ci doveva essere, ma quale? Legate e imprigionate nelle vecchie e sacre tradizioni del sud, con un padre autoritario, non potevano pensare di fare qualcosa al di fuori di quei canoni così ferrei. E io? Perché desideravo ancora di rivederle: era per la ragazza dagli occhi piccoli o per il semplice gusto di stare in loro compagnia?
Il mare era calmo. Le piccole onde si dissolvevano nella sabbia, senza quasi dar sentore della loro esistenza. Neppure un leggero soffio di vento ad alleviare la calura opprimente. Comprai una birra e cominciai a berla prima ancora di essere sotto l’ombrellone, diversamente dalle altre volte, non ce la feci ad aspettare il pomeriggio, avevo subito bisogno di qualcosa che mi desse la sensazione di fresco. La birra era un’ottima cosa. La mattinata trascorreva tranquilla, delle ragazze nemmeno l’ombra, mio fratello era sparito e io seduto sotto l’ombrellone continuavo a sudare. Nel mare c’erano tante persone, era così pieno che la voglia d’entrarci non s’affacciò neppure sulla soglia di un pensiero. In tarda mattinata, vidi arrivare mio fratello in loro compagnia. Qualcuna si sedete, qualcun’altra si buttò in mare. Mio fratello preferì fare un bagno. La ragazza dagli occhi piccoli mi disse che erano riuscite a convincere loro cognato a portarle al mare. E che potevano trattenersi poco perché sua sorella era incinta, prossima al parto. Suo cognato con la sorella vivevano a Foggia, nei pressi della stazione ferroviaria. Da qualche giorno si erano trasferiti a casa sua, per poter ricevere un valido e più immediato aiuto, prima e dopo il parto. La sorella partorì dopo qualche giorno, io ero già a Milano. Si trattennero veramente poco. Dopo una mezz’oretta le vedemmo andar via in compagnia di un uomo, loro cognato. L’appuntamento per la sera restò confermato, salvo complicazioni, e ora sapevo quali potevano essere.
Stesso posto stessa ora. Così come ieri, avevo spavaldamente detto “dovete dirci solo il giorno, l’ora e il posto. Noi ci saremo”. Era uno dei miei cavalli di battaglia, un modo di dire che è rimasto incastrato tra quelle due giornate e che nel tempo è diventato l’emblema del nostro rapporto. Estratto da un vecchio brano di un noto gruppo italiano, ogni volta che la ascoltiamo è un’emozione fortissima, un ritorno al passato che si conclude sempre con un bacio incorniciato in un abbraccio mozzafiato.
La sera davanti alla villa comunale mi sembrava di rivivere il flashback della sera precedente. Noi arrivammo in anticipo e loro in ritardo. Questa volta c’era anche una ragazzina molto giovane, quasi una bambina: sua sorella minore. In loro compagnia passeggiammo per le strade di San Severo, ripercorremmo percorsi fatti la volta prima con qualche piccola variazione. Era come se recitassimo un copione, scommetto che se ci fosse stato un altro incontro, sarebbe stato uguale. Nonostante questa limitazione dovuta soprattutto alla non possibilità di farsi vedere in giro, furono comunque serate straordinarie, inconsuete per noi in quei luoghi. Poi giunse il momento di salutarci, lo scambio degli indirizzi, dei numeri di telefono e le solite promesse di mantenerci in contatto. Strinsi la mano alla ragazza dagli occhi piccoli, ed era una stretta che non voleva allentarsi. La fissai negli occhi e le dissi “ti telefonerò, sicuramente”. Lei intimidita, forse non si aspettava una simile certezza mi disse “va bene, ma non il 18, ché è l’onomastico di mia madre e saranno tutti a casa per festeggiarla e se puoi di mattino, perché lei è al lavoro”. Era la sera del 16 agosto del ‘86.
Il mattino dopo, io e mio fratello prendemmo l’espresso delle ore 7.50 a Foggia e arrivammo a Milano alle ore 19.00. Non fu un viaggio facile. Il caldo nel compartimento era opprimente, la lentezza del treno e le sue fermate continue stressanti. Il pensiero di stare a fare una cavolata mi divorava dentro. Continuavo a ripetermi che dovevo restare, che stavo perdendo l’occasione buona, forse quella giusta. Ma quella vacanza breve, pianificata in fretta e furia esisteva proprio perché corta, perché partissimo quel giorno. Né io né mio fratello la avremmo altrimenti fatta e non potevo tirarmi indietro solo per inseguire una sensazione. Il momento più triste è stato quando il treno fermò alla stazione di San Severo. Volevo scendere. Ricordo lo sguardo di mio fratello, nei suoi occhi c’era tutta la gioia dei momenti passati in loro compagnia e a pensarci bene, anche l’invito a fare qualche colpo di testa. Lui l’aveva capito, anche se non gli confidai nulla. Nel momento in cui il convoglio riprese la corsa, ero in piedi in corridoio e fissavo la stazione, le persone, quelli che consideravo fortunati perché con delle grandi valigie si avviavano verso il paese. “È persa” mi sono detto. “È andata” qualche attimo dopo. Rimasi a guardare il paese sparire lentamente, poi i binari curvarono all’interno di una piccola gola e quando il treno riaffiorò in superficie, c’era già la campagna che aveva preso il suo posto.
L’arrivo a Milano in prima serata, la stazione centrale, la metropolitana per tornare a casa, l’autobus per fare l’ultimo tratto e infine il palazzo dove vivevo, mi hanno riportato lentamente alla normalità. Era stato bello, ma era finito, comunque non poteva avere un seguito. Ma come fare a cacciare via il pensiero di quella ragazza che continuava a tormentarmi? La lontananza era un buon deterrente e volevo riappropriarmi della tranquillità che avevo prima di quella breve vacanza. Avevo promesso di telefonarle, l’avrei fatto, sì ma quando? Se da un lato volevo dimenticare tutto per evitare sia a me sia a lei, complicazioni di qualunque tipo, dall’altro avevo una fottuta voglia di provarci. Allora mi venne in mente che mi disse di non telefonarle il giorno 18 perché era l’onomastico di sua madre. Diamine il giorno 18 era quello dopo il nostro ritorno, allora si aspettava che io la chiamassi subito. Ma perché? Quale altro motivo se non quello che qualcosa si era mossa anche in lei. Questo pensiero mi fece riflettere e riaccese in me tutta la faccenda. Quale grande scelta stavo per fare e soprattutto quale grande scelta avrei chiesto di fare a lei! Vissi quel 18 agosto combattuto tra un sì e un no, che si alternavano continuamente nella testa, nei pensieri, in quel castello che stavo costruendo su una semplice conoscenza estiva.

 
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CARPE DIEM (prima parte)

Post n°108 pubblicato il 12 Aprile 2010 da fittavolo

Ero ritornato a Milano. La vacanza era durata solo quattro giorni. Un lasso di tempo sufficiente a sconvolgere di nuovo la mia vita. Dopo l'ultima delusione non volevo saperne più d'innamorarmi. Ma come si fa a restare insensibili di fronte a un paio d'occhietti dolci? Ho sempre odiato il mare, o meglio ho sempre odiato la sabbia: s'insinua dappertutto, s'appiccica addosso e insieme alla salsedine mi dà la sensazione di essere lurido. Quella volta, non ricordo come, riuscirono a convincermi, o semplicemente, anch'io avevo voglia di uno svago diverso, senza che riuscissi ad ammetterlo a me stesso. La spiaggia di Marina di Lesina non è mai stata un granché, ed era il posto di mare più vicino al paese dove alloggiavamo, Lucera. Distava circa trenta chilometri, fatti tutti sotto la calura d'agosto. Un panino a pranzo e una birra da bere a piccole sorsate in tutta tranquillità sotto un ombrellone che a malapena mi copriva. Ero in compagnia dei miei fratelli e fu proprio l'intraprendenza di uno di loro a permettermi di conoscere delle ragazze. Una di loro aveva due occhietti piccoli e quando rideva diventavano due fessure. Il suo viso era ovale e si adattava benissimo alla lunga chioma che le copriva la testa. Trascorremmo un po' di tempo in loro compagnia. Era un gruppo formato da amiche e sorelle e vivevano a San Severo. Da San Severo ci passavamo per andare al mare e conoscevamo solo qualche via, ma non la zona dove da alcuni anni loro abitavano. Non fu difficile riuscire ad ottenere un appuntamento, grazie alla faccia tosta di mio fratello. Io non mi aspettavo niente di particolare, era solo un modo come un altro per trascorrere la serata in compagnia. L'appuntamento era in villa, davanti al cancello d'ingresso. Alla villa comunale di San Severo non c'ero mai stato e la immaginavo come quella di Lucera, con un via vai di persone che boccheggiavano al fresco della sera. Quando arrivammo, parcheggiammo l'automobile nel piazzale dei cappuccini, la chiudemmo sperando di ritrovarla intatta al nostro ritorno. Capimmo subito che la villa comunale di San Severo non aveva nulla a che vedere con quella di Lucera. Era tutta recintata con un enorme cancello all'ingresso. All'interno, c'erano tre grandi viali coperti da grossi alberi, ai lati spaziate con regolarità erano poste delle panchine, tutte occupate.  C'era molta gente lungo i viali, in questo era simile a Lucera. Davanti alla villa piazzale Padre Pio era chiuso al traffico e anche Corso Garibaldi, in modo da permettere il fluire delle persone senza alcun intralcio e pericolo. Corso Garibaldi era il normale prolungamento della villa comunale. Sul grande viale continuava lo struscio della gente fino all'incrocio con Via T. Solis. Un'andata e ritorno senza fine, così consumavano le suole delle scarpe i cittadini di San Severo e anche quelli di Lucera. Io e mio fratello, eravamo fermi davanti all'ingresso della villa comunale, guardavamo il fiume di persone attraversarne l'uscio e speravano di non aver preso una fregatura.
Arrivarono con un po' di ritardo, ben vestite e ben truccate. Del gruppo conosciuto di mattino, ne mancava qualcuna, ma per me non aveva nessuna importanza. La ragazza dagli occhi piccoli aveva un trucco alquanto evidente. Aveva dipinto le palpebre con un disegno che finiva a punta verso l'estremità esterna degli occhi. Le labbra erano di un rosso acceso. Aveva tirato su i capelli, mettendo in risalto il viso lungo e bene in mostra le piccole orecchie. Indossava in vestito leggero di colore azzurro che faceva intravedere dai due brevi tagli laterali una sottana ricamata di raso bianco. Chiedemmo dove andare e la loro risposta mi stupì.
"Andiamo a fare un giro per le strade del paese, la villa è troppo frequentata" disse una e le altre annuirono. Compresi dopo il motivo, quando avvicinandoci al viale della stazione la ragazza dagli occhi piccoli disse "su questo viale ci viene sempre mio padre con i suoi amici. Frequenta quel bar - lo indicò - è meglio non farsi vedere in vostra compagnia. Lui è uno all'antica". Suo padre faceva il cuoco in un noto hotel del paese, era al lavoro a quell'ora, però qualcuno dei suoi amici poteva vederle e riferirglielo. Fu una serata svoltasi lungo le viuzze di un paese che fino a qualche ora prima era solo uno dei tanti del tavoliere, con delle ragazze conosciute durante la mattinata, ma fu anche la prima volta che passeggiai in dolce compagnia nel mio sud. E mi fece uno strano effetto. La ragazza dagli occhi piccoli mi aveva colpito. Nonostante non avessi nessuna intenzione d'innamorarmi sentivo di stare per cascarci di nuovo. E gli altri non mi diedero in alcun modo una mano, anzi avevano fatto gruppo con mio fratello, distaccandosi di qualche metro, lasciandomi solo con lei. Non ricordo quali furono gli argomenti con cui ci facemmo compagnia, ma ricordo molto bene l'attenzione con cui seguiva il movimento delle mie labbra e i brividi che ebbi quando le nostre mani distrattamente si sfioravano. Avevo bisogno di una donna, non c'era alcun dubbio, o forse, avevo solo bisogno di sesso. Mi venne in mente cosa dissero le mie cugine, incontrate per puro caso, mentre aspettavamo davanti alla villa comunale,  "quelle di San Severo sono facili, basta comprarle un sacchetto di patatine che te la danno". Mi sembrò una stronzata galattica, una di quelle costruite ad arte dalla ignoranza della gente e a volte dall'invidia. Non comprai le patatine alla ragazza con gli occhi piccoli e riuscii lo stesso ad ottenere un appuntamento per il giorno dopo, al mare se suo cognato le avesse portate, oppure la sera davanti alla villa comunale.
Ci avviammo verso Lucera che erano le 21.00 passate, dopo aver accompagnato a qualche metro da casa alcune delle ragazze. Durante il tragitto non dissi niente. Ogni tanto mio fratello rompeva il silenzio per dire qualche sua cretinata. Ricordo un cielo stellato e una luna luminosa. Avrei voluto fermarmi e restare a guardarlo tutta la notte quei puntini luminosi, piccoli come gli occhi della ragazza con cui avevo trascorso la serata.

 
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Post n°107 pubblicato il 17 Marzo 2010 da fittavolo

Ora che guarda Alina con gli occhi della morte, comincia a capire di esserci riuscito. Accenna ad un sorriso, nonostante il dolore atroce che gli strizza lo stomaco. Neppure ora vuole chiedere perdono per il male che fece, per la sofferenza procurata a colei che da sempre ama. É ancora troppo presto, la morte ha appena iniziato ad alitargli addosso, e Dio solo sa come possono essere lunghi questi attimi prima della fine. La morte inganna il tempo, lo espande rendendolo sottile sottile, tagliente. Alina in piedi lo fissa. Non voleva perdere un solo attimo della sua sofferenza.

Borgo Fornasotto era uno dei tanti centri rurali che a metà del secolo scorso sorgevano nelle campagne italiane: una piccola chiesa aperta solo di Domenica dal prevosto che veniva appositamente da Bergamo; un negozio che vendeva ogni genere di cose, e tante case costruite alla rinfusa senza particolari disegni urbanistici. Alina viveva lì dalla nascita, vi era cresciuta e quando fu in età da matrimonio, in tanti le misero gli occhi addosso. Ma lei preferiva aspettare, era convinta che il grande amore della sua vita dovesse ancora arrivare. – Quando arriverà, lo riconoscerò tra mille –ripeteva a sua madre che la invitava a fare una scelta in ogni occasione. Intanto gli anni passavano e i pretendenti, uno dopo l’altro, deviavano le attenzioni dei loro cuori verso altre donne. Uno di questi, Alfonso, era deciso a resistere, incoraggiato dall’abbandono degli altri e dalla certezza, che il trascorrere del tempo, giocasse a suo favore.
Ormai Alina era in età avanzata, le sue coetanee si erano accasate ed alcune avevano anche dei figli. I suoi genitori, rassegnati, avevano smesso di parlarle di matrimonio. Un giorno, qualche anno prima del secondo conflitto, arrivò a Fornasotto un distinto signore in cerca di un podere da comprare. Veniva da un paesino sul lago di Garda e dopo la morte di entrambi i genitori, aveva venduto la sua eredità per cercare fortuna altrove. Alina ne aveva sentito parlare da suo padre, un forestiero faceva sempre notizia da quelle parti. Lei lo incontrò per caso, mentre andava alla fonte a prendere l’acqua. “Perché il cuore mi batte così forte? Perché le mani mi sudano ed ho come un vuoto allo stomaco?” si chiedeva Alina fissando gli occhi di quello sconosciuto. Uno sguardo così intenso e insistente, non sfuggì a Luigi, che dopo qualche passo si voltò per rivedere quella donna un po’ sfiorita, ma ancora tanto bella. Alina fece lo stesso e con quella azione capirono che i loro cuori avevano cominciato a battere insieme. Si sposarono nella piccola cappella del borgo, un anno dopo. Il forestiero, Luigi, ormai era stato accettato ed era diventato parte di quella piccola comunità cui condivideva usi e tradizioni. Quel giorno, Alfonso maledì se stesso per non essere stato capace di conquistare il cuore di Alina. Seguì la cerimonia e i festeggiamenti di nascosto, come un ladro spiava la coppia felice e sentiva addosso il peso degli anni passati ad aspettare Alina. Maledì Luigi, causa del suo dolore.
Vennero anni di miseria e povertà. La guerra aveva spazzato via ogni gioia dal cuore della gente. I contadini, riuscivano a sopravvivere nascondendo i prodotti della terra in cantine ben celate ai tedeschi e ai fascisti. Dopo l’armistizio del 8 Settembre del ‘43 l’Italia era divisa in due. Al nord costituirono la repubblica sociale e molti cittadini, per scampare agli arruolamenti forzati, scapparono in montagna, in collina, e si organizzarono in bande. Le bande dei partigiani combattevano i tedeschi e i repubblichini fascisti, con attentati che miravano ad indebolirne il sistema. La gente comune, i contadini, erano con loro. Luigi e Alina, molto spesso, ne ospitavano qualcuno, quando scendevano dai monti per procurarsi cibo e materiale vario. Cibo e materiale che i due coniugi recuperavano facendo collette nella loro comunità.
Quando una sera arrivarono i tedeschi, ed entrarono in casa sfondando la porta, Luigi sapeva già che la sua vita era giunta al termine. Individuato la botola d’accesso alla cantina che faceva da deposito a svariate cose, tra cui anche divise del regio esercito italiano lasciate lì dai disertori prima di passare in latitanza, non fu difficile accusarlo di spalleggiare i partigiani o addirittura di essere uno di loro. I processi sommari erano delle farse, e molto spesso si limitavo alla lettura dell’accusa con la conseguente condanna. Luigi fu impiccato all’alba. Restò appeso per tre giorni, così disponeva l’ordinanza, per dissuadere altri a dare man forte ai briganti partigiani. Alina rimase ai suoi piedi per tutto quel tempo, supplicando chiunque passava affinché l’aiutasse a tirarlo giù. Le donne cercavano di darle conforto, ma niente poteva calmare la disperazione di Alina. Al terzo giorno, durante il funerale, si avvicinò Alfonso, le disse parole di sostegno, cercò di darle ancora qualche ragione per vivere. Ma quale ragione poteva trovare ancora Alina per una vita che le aveva negato la felicità?  Nessuna, se non quella di vendicare Luigi combattendo contro i suoi carnefici.
Passarono le settimane, passarono i mesi e la guerra sembrava non avere più fine. Alina partecipava attivamente alla vita partigiana, faceva da staffetta tra un paese e l’altro, portando notizie alle varie brigate nascoste nel territorio. Alfonso iniziò a frequentarla quasi quotidianamente. Pian piano le riempì il tempo quando era a casa nell' attesa di qualche missione, per lei era il buon vecchio amico di sempre. Poi cominciarono ad arrivarle degli strani biglietti. Li trovava sotto la porta e dicevano di non fidarsi degli amici. Ai primi non diede molto retta, ma quando cominciarono ad essere tanti, decise di vederci chiaro. Un giorno fece finta di allontanarsi, e rientrò in casa di nascosto dal retro. Appena il biglietto sbucò da sotto l’uscio, aprì la porta e vide una donna. Le chiese spiegazioni – sono la serva del podestà di Brembate, ho sentito il mio padrone parlare di alcuni fatti successi qui qualche mese fa. Io ho una cugina che abita qui – disse la donna. – Che fatti? – chiese Alina, quasi soffocata dal cuore che le batteva forte in gola. – Il podestà parlava di un’operazione ai danni dei partigiani, di qualcuno che aveva detto il nome di Luigi Grembi come un loro basista a borgo Fornasotto – rispose la donna. Alina tutta tremante prese per il bavero la serva e spingendola contro il muro gridò – Chi? Chi ha detto quel nome? – . La serva cercò di liberarsi, ma Alina la teneva ben stretta. – Lasciami, ti prego non riesco a respirare – supplicava la donna – va bene va bene… te lo dico, ma lasciami – disse ansimando – è stato Alfonso Chiesi a denunciare tuo marito –. Alina allentò la presa e mentre si piegava su se stessa dallo sconforto, la serva ne approfittò per scappare.
Dopo aver cenato Alfonso iniziò ad accusare i primi sintomi del veleno che Alina aveva mescolato con la minestra. Sapeva cosa gli stava succedendo, lo capì guardando gli occhi rossi di odio di Alina. – Cosa hai messo nella minestra? Quale maleficio mi hai fatto? – le chiese Alfonso. – Che importanza ha saperlo? Ora pagherai tutto il male che hai fatto al mio Luigi, tutta la sofferenza inferta a me per la sua morte – rispose Alina. – Sapevo che prima o poi l’avresti scoperto….speravo di avere più tempo – disse sofferente Alfonso – speravo finalmente che tu t’innamorassi di me…perché io…io…io ti amo…per questo l’ho fatto….ho voluto dare un’altra possibilità al nostro amore. – Al nostro amore! – ripeté Alina inorridita – non c’è mai stato amore tra noi due, bastardo. Muori bastar… –. Alina portò le mani al ventre, ebbe una fitta, un dolore lancinante che la piegò in due. Una risatina echeggiò nella stanza, più che una risata era un verso misto tra gioia e dolore. Alina alzò gli occhi verso Alfonso, lo vide sorridere in malo modo, storcere la bocca cercando di dire qualcosa, ma non riusciva a pronunciare parola. A fatica si teneva sulla sedia e quando racimolando le poche forze rimastogli disse qualcosa, Alina capì di aver fallito. Alfonso esalò l’ultimo respiro pronunciando quelle parole, poi morì accasciandosi sul tavolo.
Alina si muoveva a fatica, si trascinava sul pavimento cercando di raggiungere la porta per chiedere aiuto. Malediceva Alfonso e il giorno in cui era nato, ma non bastò per cancellarle dalla testa la sua ultima frase – verrai con me, staremo per sempre insieme –.

 
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SCRIVIMI

Post n°106 pubblicato il 04 Marzo 2010 da fittavolo

Il colpo di chitarra diede inizio alla canzone:

Scrivimi quando il vento avrà spogliato gli alberi…

Allora aspetterò con ansia che si alzi, che mi porti le tue parole.

 
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AMORI APPESI

Post n°105 pubblicato il 03 Febbraio 2010 da fittavolo

Guardo i segni della vita passata. Sono presenze quotidiane, ignorate dai più.
Un ramo spezzato, ai piedi di un albero, rinsecchito senza più linfa, quanto può raccontarci. Stagioni passate a guardare gente fluire. Ascoltare le loro parole, una dopo l’altra formare discorsi, arginare dolori, esaltare amori, giustificare azioni, sostenere tesi, cominciare litigi e infine soffocate con un bacio. Molte volte abbiamo sostato sotto la sua ombra, appoggiati al fusto cui appartiene, senza notare la sua discreta presenza.
Due lucchetti. Due amori sospesi a mezz’aria. Promesse intrise d’emozioni, legate per non farle volare via al primo colpo di vento.
“Io ti amo e lego questo mio amore per sempre a te, per l’eternità”.
Parole ascoltate da testimoni immobili che non potranno mai affermare di averle udite. Le chiavi buttate giù dal cavalcavia, in un momento di quiete, così le automobili sfrecciando le porteranno lontane da ogni tentazione. Amori legati per non slegarsi più.
La ruggine, il segno del tempo. La testimonianza certa che qualcosa può essere successo, solo questo ci è consentito sapere. Nessuno saprà mai come è finita. Solo il ramo può raccontarlo, ma lui non lo farà. Non tradirà la fiducia accordatagli e soprattutto non spezzerà il respiro del prossimo amore, affidato a un tenerissimo rametto che guarda dall’alto chi l’ha preceduto strizzargli un occhio.
La vita va avanti.

 
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BUBBLE WASH

Post n°104 pubblicato il 19 Gennaio 2010 da fittavolo

Il libro che stava leggendo, l’annoiava. Erano pagine intere che scorreva senza capirci nulla. Lucy la protagonista della storia le era ormai estranea, persa tra le righe di un romanzo da buttare. Chiuse il libro e lo mise nella borsa. Intorno a lei gente indaffarata continuava a caricare le macchine. Al centro dell’ampia sala c’erano un paio di tavolini con delle riviste. Ne prese una a caso e cominciò a sfogliarla. Certo che il Clooney e la Canalis sono una bella coppia, pensò. Si soffermò su quelle pagine che mostravano i due abbracciati, a leggere l’articolo. Immaginò, come sarebbe stato bello se anche lei potesse vivere una storia simile. Non necessariamente con un uomo bello e ricco, come l’attore americano, si sarebbe accontentata di Luca il collega dell’ufficio di fronte al suo, o di Marco il vicedirettore. Erano entrambi attraenti e affascinanti, ma anche dannatamente impegnati. Sentimentalmente impegnati. Nella vita agli appuntamenti importanti si arriva o troppo presto o troppo tardi, pensò con rabbia, mai una volta puntuali. Mai una volta la ruota della fortuna era girata per lei, mai una volta aveva avuto il piacere di sentire le calde labbra della dea bendata sfiorarle le guance. Questi pensieri la misero di malumore, e fecero crescere l’ansia. Ora più che mai aveva bisogno di aria fresca, di scappare via, di distrarsi. Le succedeva spesso di trovarsi in quelle condizioni, quasi sempre quando pensava alle occasioni mai avute. Ma non poteva lasciare lì tutta la sua roba e andarsene, mancava mezz’ora alla fine del lavaggio. Serrò forte la mandibola e trattenne la rabbia.
Il cigolio della porta le provocò dei brividi, gli stessi che aveva avuto a scuola quando il gessetto strisciava sulla lavagna. Chiuse forte gli occhi per ammorbidire l’effetto, scrollò le spalle come se sbattesse le ali, infine allungo in avanti le braccia per stirarsi. Sentì il corpo rilassarsi e uno strano calore solleticarle la pelle. La rivista cadde sul pavimento. Istintivamente si chinò a raccoglierla e solo allora riaprì gli occhi. Era caduta su un paio di stivali alla sua sinistra. Il secco rumore di teste che si toccarono e la mano portata sulla zona d’impatto, era stato l’epilogo.
“Scusi” fece lui.
“Scusi” fece lei.
L’uomo entrato poco prima, stava mettendo i suoi indumenti sporchi nella lavatrice, e avrebbe fatto volentieri a meno di quella cozzata. Guardava sottecchi la donna che aveva tirato fuori dalla borsa un enorme paio d’occhiali da sole e li aveva inforcati. Peccato coprire così gli occhi, pensò l’uomo. Per lei era un modo per estraniarsi da quell’ambiente che la soffocava, anche se, il nuovo arrivato non era niente male. Impostato il programma per il lavaggio l’uomo prese un giornale e si sedette di fianco. Ecco questa potrebbe essere una buona occasione, penso lei. Continuava ad agitarsi sulla sedia, come se aspettasse un segnale per tentare un approccio. Accavallava la gamba destra, dopo meno di un minuto la sinistra, chiedendosi cosa attendesse il tizio che aveva di fianco per cominciare una conversazione. Non so, parlare del tempo, chiederle quale era il suo nome, qualsiasi fottuttissima cosa, purché cominciassi a parlarle. Invece lui rimaneva immobile, saldamente seduto senza accennare ad alcuna iniziativa. Era un blocco di ghiaccio. Perché tutti quelli che mi piacciono sono già pignorati, oppure sono ottusi a capire, o peggio, hanno tendenze particolari, pensò, non c’è limite alla sfiga, alla mia sfiga. Rassegnata riprese a guardare la foto del Clooney e della Canalis. L’uomo si abbassò, cercava qualcosa nel suo zaino. Ah! Si è mosso, allora è vivo, ci provo io, penso lei.
“Scusi…mi sa dire che ore sono per cortesia” chiese tutto d’un fiato.
L’uomo si raddrizzò e guardò l’orologio che aveva al polso.
“Il mio fa le quindici e venti, e il suo?” rispose indicando il polso.
“Si è fermato, mezz’ora fa” gli disse tenendo ben nascosto il quadrante e addolcendo con un largo sorriso lo sguardo per non scoraggiarlo, nonostante il suo acuto senso d’osservazione fosse fuori luogo.
Bene il ghiaccio era rotto! Ora si aspettava che le chiedesse il nome, che continuasse nell’azione, ma lui tornò alla sua lettura, compostamente seduto sulla sedia. La donna mutò la sua espressione e rimase per un attimo immobile a guardarlo. Il suo viso sintetizzava tutta la sua delusione. Sei irrecuperabile bello mio, pensò.
Passarono dei minuti pesanti come macigni, ognuno rimase fermo al proprio posto, finché l’uomo si voltò di scatto verso di lei, come se si fosse ricordato di qualcosa. Lei lo notò e gli mise gli occhi addosso. Occhi che chiedevano, cosa c’è ora? Cosa vuoi?
“Mi sono ricordato che stavo prendendo una lattina di coca, prima che lei mi chiedesse l’ora” le disse.
“Ah!” fece lei. Embé! Pensò.
“Guardi ho anche i bicchieri di plastica, ne prenda un po’?” senza aspettare la risposta gliene mise uno in mano. Finalmente si è deciso, bene! Pensò. L’uomo prese la lattina, afferrò la linguetta e la spinse in giù con forza. Un guizzo inaspettato di liquido nero uscì con prepotenza dal cilindro metallico, l’uomo preso dal panico mise la mano sulla fessura, indirizzando, senza volerlo, il getto verso la donna. Per alcuni attimi tutti rimasero immobili. L’uomo guardava la mano ferma sulla lattina e con la coda dell’occhio scrutava quanto grave era il disastro fatto. La donna ferma con il bicchiere in mano, pronto ad accogliere il sorso di coca, vedeva colare dai suoi occhiali gocce spumeggianti che precipitavano sul viso sorridente di Clooney, adagiato sulle sue gambe. Affianco a lei un uomo di colore, colpito anche egli, strofinava le mani sulla tshirt bianca per liberarla dal liquido appiccicaticcio.
“Scusa…scusatemi…non so come sia potuto succedere” disse l’uomo appoggiando la lattina sul pavimento.
“Che disastro! Come faccio ora?” disse la donna.
“Come facciamo tutti?” aggiunse l’uomo di colore.
“Scusatemi…scusatemi ancora, vi pago un giro” e così dicendo senza alcun indugio cominciò a spogliarsi. Si tolse la maglietta, poi vedendo che i due malcapitati tentennavano li incoraggiò “forza datemi i vostri indumenti, ve li lavo e asciugo, è il minimo”.
La donna e l’uomo di colore si guardarono perplessi, ma quando videro il maldestro uomo rimanere in boxer, non ebbero più dubbi, era pazzo. E loro più pazzi di lui, cominciarono a denudarsi. Era un gioco, un eccitante gioco, nato per caso, un’occasione ghiotta da non perdere, per tornare bambini e abbandonare per qualche minuto gli abiti pesanti dell’adulto.
Ridevano ed erano un po’ imbarazzati per i tanti occhi che ora si posavano su di loro. Qualcuno chiese “dov’è la telecamera”, sospettava di essere incappato in qualche puntata di un noto programma televisivo. Invece era tutto vero, genuino. Alcuni ritirato la loro roba, andarono via sghignazzando, altri mormorando in malo modo. Quelli che arrivavano, rimanevano impalati con la loro borsa carica d’indumenti, subito dopo essere entrati, come se all’improvviso avessero dimenticato il motivo per il quale si trovavano lì. E la maggior parte era più imbarazzata degli stessi protagonisti della vicenda, che seduti in mutande e reggiseno stavano dando l’inaspettato show. Il programma lava-asciuga della donna terminò, e dopo qualche minuto anche quello dell’uomo, mentre la macchina con i vestiti sporchi di coca era a un quarto del tempo. Presero i vestiti così com’erano e li indossarono. Sembravano un foglio di carta risteso dopo essere stato appallottolato. L’uomo di colore era ancora in mutande.
“Il mio programma di lavaggio non è ancora finito, non avreste qualcosa da prestarmi, per coprirmi?” chiese ai due.
“Vuoi una mia gonna?” disse la donna.
Altra risata tra l’imbarazzo dei presenti che non avevano perso un istante della faccenda.
“Tieni, prendi questo” disse l’uomo porgendogli un asciugamano da bidet. Poi rivolgendosi alla donna disse “vieni a bere un caffè, manca un po’ prima che il lavaggio finisca. Intanto rimane lui a curarlo”. L’uomo e la donna uscirono dal Bubble Wash e si misero alla ricerca di un bar.
Passarono dieci minuti. Da lontano si sentiva una sirena che diventava sempre più forte, sempre più vicina. L’auto con il lampeggiatore acceso si fermò e scesero due uomini in divisa, un terzo rimase al volante. Alla vista degli agenti l’uomo di colore sbiancò.
“Eccolo qui” disse uno degli agenti.
“Giovanotto, si copra alla meglio e ci segua, senza fare storie” disse l’altro.
“Ma perché? Non ho fatto niente” disse l’uomo di colore.
“Ssss…ed essere nudi in un luogo pubblico, è fare niente per lei?” chiese un agente.
“Sono coperto!” rispose l’uomo di colore.
“Quel francobollo di straccio lo chiama coprirsi? Faccia poco spirito e ci segua senza fare storie”.
L’uomo di colore seguì mal volentieri i due agenti, sicuro che al commissariato l’intera faccenda sarebbe stata chiarita. Se solo l’uomo e la donna si sbrigassero a tornare!

 

 
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UN SENSO DI PACE

Post n°103 pubblicato il 05 Gennaio 2010 da fittavolo

Il lungo viale stava per essere avvolto dal buio. La luce dei lampioni a fatica giungeva sull’asfalto, gli alberi che coronavano la strada, erano ostacoli difficili da penetrare. L’umidità emergeva dal suolo formando una coltre bianca alta un metro. Da lontano pareva una coperta d’ovatta e mi impediva la visuale, in lontananza distinguevo solo la sommità del monumento. Proseguivo lentamente assorto nei miei pensieri. Mi è sempre piaciuto passeggiare col freddo, nel buio, verso una meta non precisa. Ormai era passata un’ora da quando lasciai casa. Erano le 17.00 del primo giorno dell’anno corrente, 2010, ma poteva essere benissimo un capodanno qualsiasi, tanto per me sono stati tutti uguali, da quando è nata mia figlia. Sette anni fa, ero in ospedale accanto a mia moglie, a sorridere con lei per il lieto evento. Era un fagottino dal peso di tre chili e rotti, tutta raggomitolata come se stesse ancora nella pancia di sua madre. Ricordo il nostro primo incontro, me la porse un’infermiera, mentre ero accanto a Luisa, dolente per il cesareo subito. Aveva i capelli neri e ricci, gli occhi di un nero luminoso, il viso era tondo completamente arrossato, sembrava mia suocera in miniatura. Al principio ebbi un attimo di sconforto, avrei voluto tanto che assomigliasse a sua madre, la più bella donna che avessi mai conosciuto. Ho pensato ad uno scherzo della natura, e mentre lo pensavo, già mi ero rassegnato a quel visino tanto simile a sua nonna. Invece sono bastati pochi giorni, il tempo di permanenza in ospedale, per cambiarle completamente aspetto. Le similitudini che richiamavano con prepotenza la madre di mia moglie, si dissolsero nell’aria: ad ogni ora la sua faccia cambiava, mutava e assomigliava sempre di più a quel viso scolpito dai miei desideri nella mente e aveva la stessa grazia di Luisa. Ma erano piccoli particolari insignificanti, la nuova arrivata aveva già un suo spazio nella mia vita.
I pensieri volavano lungo il viale, mentre il freddo si faceva pungente. Stretto al mio cappotto proseguivo, passo dopo passo, verso l’ingresso del camposanto. Crespi d’Adda era un bel borgo, tanto frequentato d’estate quanto deserto d’inverno, era un luogo che non aveva mezze misure, ma mi è sempre piaciuto. Il suo piccolo cimitero, per via di una costruzione posta al suo centro che richiamava un tempio Maya, era una dei posti più visitati. Giunsi all’ingresso che ormai era buio. Due enormi fari situati al lato opposto, illuminavano il luogo. Puntavano direttamente sul cancello e ne ero abbagliato. Prima d’entrare notai sulla cancellata un’insegna con scritto “chiusura automatica”. Allora controllai l’orario di chiusura, le 17.30. Ero già stato altre volte in quel posto, però sempre d’estate. Spinto da chissà quale forza sentivo il bisogno di entrare, era un impulso irresistibile che non sapevo spiegare. Non avevo né parenti né amici sepolti lì, ma ricordavo di tante lapidi con dei nomi e delle date, date molto ravvicinate. Alcune avevano anche la foto. Erano la culla eterna di tanti bambini. Erano i primi defunti che incontrai in quel cimitero, seppelliti direttamente nel terreno, forse con delle semplici casse o addirittura senza, e le lapidi ne precisavano il posto esatto. Tutti deceduti all’inizio del secolo scorso, tanti dopo pochi mesi di vita, qualcuno dopo pochi anni. Figli di operai e contadini, gente povera. Notai con stupore qualche vasetto con dei fiori ai piedi di qualche lapide, un segno di un loro lontano parente ancora in vita, un loro nipote figlio di qualche fratello o sorella più fortunati. Ma la cura della maggior parte dei pargoli defunti era affidata al Comune che periodicamente faceva tagliare il prato. Fissai una delle foto, era di un bambino di pochi mesi, era steso sul letto forse quello dei suoi genitori e aveva gli occhi chiusi. Allora immaginai tanta gente intorno a quel triste giaciglio, una madre e un padre schiacciati dal dolore, i nonni rassegnati dal tempo alla sofferenza, costretti ad accettare ancora una volta il peso di una perdita. Era già morto quando fu scattata la foto, chissà quanto costò questo inutile ricordo sbiadito. Ma il mio era solo un pensare senza conoscere, un’analisi fatta matematicamente, fredda. Forse quella foto era stata l’unica consolazione dei suoi genitori, tante volte pulita negli anni, come se fosse stato il caldo viso del loro figliolo; forse era stato l’unico motivo che aveva tenuto acceso il ricordo e dato loro forza. Mentre mi lasciavo trascinare dalle mie supposizioni su quelle vite annullate, sentivo un forte senso di pace. Non avevo più freddo e non avevo bisogno di nulla. La morte era al mio fianco e faceva sentire la sua presenza. La morte era la completa assenza del bisogno, un senso liberatorio di me stesso. Guardai le mani, le girai due, tre volte, volevo constatarne l’esistenza. Erano fatte di carne, io ero fatto di carne. La carne ha dei bisogni, ma in quel momento non ne aveva. In quel momento il corpo non esisteva, era annullato dal senso di leggerezza che percepivo nel stare in quel luogo, nel stare con i morti. La pace aleggiava intorno a me, ne percepivo la presenza e non la contrastavo in nessun modo. Stavo bene e non volevo più andare via.
Il rumore di passi nella ghiaia era netto e preciso. La persona che si stava avvicinando era una donna di mezza età, aveva lasciato al cancello un uomo, forse suo marito. Mi passò alle spalle e rallentò il passo quando mi girai a guardarla.
“Finalmente incontriamo qualcuno, Crespi sembra un paese fantasma” mi disse.
Osservai le sue mani, aveva i guanti, sulla testa un cappello e un’ampia sciarpa fasciava il suo collo. La fissai con stupore.
“Ma cosa dice! Questo posto è così popolato” le dissi.
Si fermò e resto in silenzio il tempo necessario per mettere insieme le parole e replicare, poi indicando le tombe disse “Magari! Purtroppo qui sono tutti morti. Lei è l’unico, come me, che cammina ancora”.
“Cammino, ma chi le dà la certezza che sono vivo. Io sono morto, come loro” le dissi.
Alzai la mano per salutarla e mi avviai verso l’uscita. Nell’aria quiete del camposanto distinguevo nettamente i miei passi nella ghiaia e centinaia di risate lontanissime di bimbi divertiti che mi salutavano.

 
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UNA VACANZA

Post n°102 pubblicato il 06 Novembre 2009 da fittavolo

Le immagini si susseguono in un’interminabile sequenza come in una pellicola senza fine. Alberi, prati, strade, case e lì in fondo il mare, la spiaggia, lei. I pensieri non seguono la velocità con cui mi sposto, sono fissi, immobili. Legati a quei granelli di sabbia sulla sua pelle, al sapore salato che aveva, al profumo che ne esaltava la freschezza. Giochi di bimbi adulti, di adolescenti maturi, sono stati i nostri continui contatti, per un’ennesima conferma che non fosse un sogno, che esistessimo veramente. In quella verità fantastica ci sguazzavamo, agitavamo le mani, le braccia, per spiccare il volo, andare lontano io e lei soli; per scappare verso quel mondo che ci siamo costruiti in pochi giorni, per preservarlo e preservarci dal tempo che scorreva sul calendario delle vacanze e ne assottigliava lo spessore. Quante volte le ho chiesto come sarebbe stato, come avremmo affrontato il futuro, dopo la fine dei giorni. Ma erano attimi rubati al presente che non valeva la pena consumare per fare stupide ipotesi e menzognere promesse. La sua mano pronta sulla mia bocca la faceva tacere, e le sue parole pronunciate sottovoce, riaccendevano l’allegria, spazzando via quei principi di nostalgia la cui esistenza era assurda. – Vivere ora, vivere adesso, per il futuro c’è tempo –  questo ripeteva continuamente e affogava la montante malinconia con un bacio. Era il suo modo di vivere e per due settimane è stato anche il mio. Mi aveva stregato. Ero inspiegabilmente coinvolto in un susseguirsi di azioni, che in altri momenti non avrei mai fatto, e che hanno messo in evidenza un aspetto della mia personalità sconosciuto. Mai avrei pensato di provare un piacere così intenso, così assurdo, da togliere il fiato. Chiuso com’ero nella mia vita borghese, dove assicurarmi il futuro, anche quello sentimentale, era una necessità, sfuggivo a quest’altro mondo fatto di precarietà e di un sottile piacere totalmente appagante. Era il sapore della trasgressione che per la prima volta mi riempiva la bocca. Aveva un gusto esotico l’abbandono ai sensi. Instancabilmente continuava a provocarmi, a fare scempio di quell’amore che cercavo di costruire, per sancirlo a un livello superiore, dove la carne non era una sua componente, ma solo lo strumento del piacere.

– Sei geloso? – mi aveva chiesto. Sapeva benissimo che lo ero. Lo sono sempre stato. Impazzivo al solo pensiero che potesse toccare un altro, desiderarlo. Allora perché quella domanda? Mi chiesi prima di risponderle – lo sono –
Aveva sorriso e si è alzata, con sicurezza percorse i pochi metri che ci dividevano dal bancone del bar e disse qualcosa nell’orecchio del barman. Gli fece una carezza lanciandogli un bacio in aria. Poi tornò a sedere. Guardavo lei e guardavo il barman, alternavo lo sguardo aggrottando le sopraciglia. Il cuore cominciò a battermi forte, sembrava volesse uscirmi dal petto. Non dissi niente, ascoltai le sue parole – ti amo, stasera esco con lui, se vuoi puoi venire anche tu –. Restai basito, incredulo,  per quel suo gesto tanto strano. Avrei dovuto mandarla a farsi fottere, ma non lo feci perché qualcosa successe: inspiegabilmente mi ero eccitato all’idea di uscire in tre. L’aveva capito e l’aveva voluto constatare, allora sorrise e mi disse – stronzo – si alzò – ti aspetto in camera –
Facemmo l’amore in un modo straordinario, l’eccitazione resisteva al tempo. Le sue parole alimentavano fantasie insensate, impossibili e sentivo l’orgasmo nascere dentro la testa, battere nelle vene del cervello, una due tre volte, dopo scorreva lungo il corpo facendolo fremere. Impazzivo.
Dopo restammo stesi sul letto a guardare il soffitto e a fumare una sigaretta, mentre i nostri corpi dissipavano il calore nella brezza che penetrava dalla finestra socchiusa.
– Dicevi sul serio prima? – le chiesi buttando fuori il fumo – certo! – rispose…

Così i giorni passarono, mentre le nostre vite s’intrecciavano sempre più con giochi al limite della decenza. Era impossibile fermarsi un attimo a razionalizzare per cercare di capire, eravamo sempre in continuo fermento. Appena finivamo di far l’amore, si alzava dal letto proponendomi subito qualcosa, non la definiva mai completamente, la lasciava coperta con un velo di mistero per scoprirla solo quando l’avrebbe realizzata. Aveva una fantasia senza fondo, e da tutto traeva spunto affinché il nostro piacere fosse più intenso. I particolari insignificanti di qualsiasi cosa erano quelli che preferiva, diceva che erano più stimolanti, dimostrandomelo fino alla fine.

Eravamo in stazione, ormai il tempo era finito. Ci tenevamo stretti, fusi nell’abbraccio come se dovesse durare in eterno. Incuranti delle persone in attesa sulla banchina, stavamo a modo nostro, consumando l’ultimo orgasmo. Davanti a tutti.
– Ti faccio venire per l’ultima volta – mi aveva sussurrato nell’orecchio. E si stingeva sempre più e dava dei piccoli colpi col bacino. Colpi impercettibili perché li sapeva sapientemente inserire nella danza dei nostri corpi. A pochi metri c’era il capostazione che ci osservava e ogni tanto muoveva il capo con dissenso. Quando decise di intervenire per invitarci ad assumere un contegno decoroso, stava per arrivare il treno e comunque tutto era già compiuto.
Era stato un distacco semplice, era così che lei voleva. Appena arrivò il convoglio, mi invitò a salirci. Dal finestrino l’ultimo tocco, nessuna parola, solo un bacio soffiato nella mia direzione mentre si allontanava, ancor prima che il treno partisse. La vidi fermarsi con il capostazione, scambiare qualche parola; e nel momento in cui fischiò e agitò la paletta per la partenza, stringergli il sesso con una mano e poi scappare via. Si voltò per l’ultima volta prima di entrare nel sottopassaggio e la sentii gridare, è stato bello, agitando in aria le mani.

 
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