Creato da fattodiniente il 01/06/2007

Gloriosa spazzatura

31 canzoni più qualcuna

 

 

Eurythmics, "17 Again"

Post n°6 pubblicato il 06 Agosto 2007 da fattodiniente

(ascoltala)

Poco più di vent’anni fa, Joe Jackson dichiarò che il rock era morto. Non fu il primo a dirlo, né l’ultimo, ma era ed è rimasto il più convinto nell’affermazione. Se ci mettiamo d’accordo sul suo significato, dirò che la condivido. Che ci sia gente, e parecchia, vecchia e nuova, che continua a far dischi, è un fatto; ma è altrettanto un fatto che di discorsi nuovi, di forme diverse di rock, non ce ne sono da una quindicina d’anni o giù di lì. Quel che si sente è in sostanza sempre un rifacimento, una reinterpretazione, quando non un omaggio esplicito, a qualcos’altro che qualcun altro ha fatto prima, e generalmente meglio. La cosa non mi dà noia, perché io passo il tempo ad ascoltare cose che quando va bene hanno minimo vent’anni. Del resto, tra il 1960 ed il 1990 è stata prodotta una tal quantità di dischi, di tutti i generi (che da parte loro son stati del resto quasi tutti codificati in quel lungo periodo), che ad ascoltarli tutti per bene non basta una vita intera, per cui c’è sempre qualcosa da scoprire, e ancor più da riscoprire.
Questa è poi solo una delle due ragioni per cui, parlando di musica, finisco quasi sempre per parlare del passato – del mio passato –, della mia giovinezza. L’altra, ovviamente, è che avendo ormai una certa età, viene naturale guardarsi indietro, e ripensare a ciò che è stato o non è stato, e come e perché.
17 Again degli Eurythmics parla proprio di questo stato d’animo, di questa seconda ragione, mentre conferma la prima: niente che non sia già stato sentito (oddio, ha già otto anni… una cosa molto recente comunque, per i miei standard), anche se è un gran bel risentire; una melodia ariosa, nostalgica e suggestiva, un gran arrangiamento, e un cantato maturo, pacato ma sentito. E la chicca della citazione finale del loro primo grande successo, Sweet Dreams, ma sul tempo molto rallentato del resto della canzone, a segnare la consapevolezza del tempo passato, delle cose che son cambiate nel frattempo, con lo sguardo malinconico sulle rabbie e i desideri di un tempo. Ciò che eravamo, ciò che siamo diventati, ciò che non siamo più… Tutto l’album del resto è su questo tono, ed è un gran bell’album, belle canzoni, arrangiamenti suggestivi: niente da dire.
Il testo è piuttosto semplice, parla di me come parla di chiunque altro, perché tutto sommato prima o poi a tutti capita di dire ‘mi sento come avessi diciassette anni di nuovo’. Nel mio caso, forse, non ho mai smesso di sentirmi così, sotto molti aspetti quantomeno, e chissà se è una cosa bella o che.
Ma gli anni passano. E me ne rendo conto davvero quando ascolto questa canzone…

 
 
 

National Health, "Clocks and Clouds"

Post n°5 pubblicato il 05 Agosto 2007 da fattodiniente

Parlare di una canzone, e in più in generale parlare della musica, è sempre una occasione per parlare di qualcos’altro, e questo per più di una ragione. La principale delle quali è il fatto che per parlare di musica in modo non scontato, occorre essere molto esperti di tecnica musicale, e quindi saper spiegare il perché e il percome una certa frase, un certo accordo o sequenza di accordi, un certo arrangiamento, una certa armonia, producano certi effetti nell’ascoltatore.
Ad esempio, c’è un libro di Ian MacDonald, che sarebbe poi il primo tastierista dei King Crimson, che ha scritto un illuminante volume sull’opera dei Beatles, nel quale analizza quasi passo passo ogni loro canzone, nella sua costruzione, nelle sue peculiari caratteristiche, e soprattutto nei suoi esiti emozionali. Ma se uno non è per l’appunto Ian MacDonald, è meglio che lasci perdere.
Poi c’è il fatto che, come dice Debussy, la musica proviene dall’Ombra, e questo può essere inteso nel senso che la musica esprime, suscita, richiama, porta alla coscienza, quel caos di sentimenti originari e prerazionali che siamo. E allora, ciascuno può diversamente raccontare le sensazioni, i percorsi emotivi che lo animano ascoltando una canzone. E se è bravo, se sa davvero parlare agli altri, allora le sue parole gettano una luce nuova, ancor più che sulla canzone medesima, sui sentimenti stessi, sulla esperienza di essi. E si finisce per l’appunto a parlar d’altro; il che è un bell’arricchimento, niente da dire.
E poi c’è sempre la terza possibilità: ascoltare e star zitti. Anche perché ci sono canzoni come questa Clocks and Clouds, tanto misconosciuta quanto elegante e raffinata, della quale è difficile dir qualcosa.
Chi conosce i National Health – non grandi masse di persone obbiettivamente – sa quanto intricata, difficile, persino astrusa, sia la loro musica, per cui non risulta nemmeno incomprensibile che questo gioiellino sia rimasto misconosciuto per tre decenni, e pubblicato solo in una raccolta di outtakes e rarità, visto che sarebbe stato alquanto fuori posto nei loro due dischi ufficiali (il terzo essendo poi una cosa ancora diversa e particolare). Una melodia jazzata e delicatissima, disegnata dalla voce eterea di Amanda Parsons, ricamata e contrappuntata da assoli raffinatissimi, misurati ed originali di chitarra e tastiere. Una cosina di una tal eleganza, misura e originalità, che esula da ogni stile, ed esser perciò difficilmente anche solo etichettata, e di cui puoi solo dire che sì, la Grazia esiste.
E che qualche volta, come diceva Wittgenstein, è meglio star zitti, che dire qualcosa su qualcos'altro di cui non si può parlare
.

 
 
 

Le Orme, "Frutto Acerbo"

Post n°4 pubblicato il 04 Agosto 2007 da fattodiniente

Mio padre è mancato la notte di Natale. Non il momento migliore per andarsene, ammesso ne esista uno. Era molto malato da tempo, ed essendo molto anziano, ho avuto molto tempo per pensare al momento in cui non ci sarebbe stato più.
Tuttavia, non sono stati molti gli anni in cui abbiamo realmente parlato insieme. È una cosa che mi ha sempre crucciato, ma non ho mai saputo davvero fare andare le cose diversamente; un po’ per il carattere di entrambi – molto restii ad aprirsi, un po’ per la differenza di cultura, e di atteggiamenti.
Però ho sempre indovinato i suoi pensieri, e diciamo pure i suoi sentimenti. Che fosse fiero di me, lo so, ed io di sicuro l’ho sempre stimato, nella sua semplicità, nella sua onestà, ed anche per quel che ha fatto, che apparentemente può non sembrare niente di che, ma io so che l’ha fatto sempre con un gran senso del dovere, con sacrificio e con qualche sofferenza.
Credo che a conti fatti sia stato soddisfatto della sua vita, di ciò che, per quanto banale, ha realizzato, o semplicemente portato a termine.
Questa canzone mi è sempre piaciuta: per la sua linea melodica, per la semplicità del suo arrangiamento – chitarra acustica e un pianoforte discreto; ma anche per ciò che racconta: ricordi d’infanzia, di un posto assai vicino al mio, e che conosco bene. Così che molti dei sentimenti e delle situazioni che racconta posso tranquillamente dire siano anche mie.
In particolare, c’è un verso, ‘e l’estate la sera via di corsa all’osteria / per ripetere a mio padre la minestra è fredda / nel silenzio verso casa la sua mano triste’. Ecco, non ho mai fatto una cosa così, ma da piccolo che l’aspettassi tornare dal bar con un cioccolatino per me, a notte tarda, dopo dodici ore trascorse lontano da casa a lavorare come operaio edile, questo sì. E quando talvolta, la domenica, o durante i pochi giorni di vacanza ai monti, mi prendeva per mano, la sensazione era proprio quella, una mano triste eppure lieta di fare ciò che stava facendo.
Non so se l’ho mai ringraziato per tutto questo. So che il giorno del funerale non ho trovato il coraggio di andare sul pulpito e dire qualche parola; pudore, probabilmente, coniugato in una incapacità di dirgli ciò che non gli avevo mai detto. Per certe cose non c’è una seconda occasione. Così, se questa canzone mi ha sempre commosso da che la conosco, ed è da quando ero ancora adolescente, adesso ha un significato ancora più speciale.

 
 
 

Perigeo, "Via Beato Angelico"

Post n°3 pubblicato il 03 Agosto 2007 da fattodiniente

In ogni canzone ciascuno trova quel che gli pare; se non è una regola, almeno è un fatto. Che poi una canzone, che magari parla di qualcosa di molto preciso, possa elevarsi a livello universale, è solo un altro modo per dire che per l’appunto ognuno trova qualcosa di suo in una canzone che significa molto  per tutti.
Questo è valido, ritengo, un po’ anche per i generi musicali; e se non è così, non morirò per difendere questa idea: vale per me e tanto mi basta.
Ad esempio, io ci ho messo un bel po’ di anni, ma alla fine sono arrivato alla conclusione che, parlando di musica italiana, il jazzrock mi piace immensamente più del progressive, beninteso togliendo dal mazzo PFM, Banco e Le Orme.
Il fatto è che i dischi di Arti&Mestieri, Venegoni&Co, Bella Band, Nova e ovviamente il Perigeo, per qualche strana immagine mentale mi riportano all’Italia degli anni ’70, che è poi a dire al mondo della mia adolescenza. Sarò romantico (nessuno è perfetto), ma il jazzrock italiano mi evoca i colori, i suoni, le atmosfere, le piazze, i paesaggi, e se vogliamo anche il modo di essere, dei posti in cui sono cresciuto. Non che l’Italia fosse questo gran paese all’epoca, intendiamoci (lasciamo stare se lo sia diventato nel frattempo: più di qualche dubbio ce l’ho; in qualcosa è migliorato, e non ci voleva molto; in altre cose è cambiato, non necessariamente in peggio, ma non essendo granché…), ma giusto o sbagliato, è il mio paese.
Il fatto è che il progressive italiano è terribilmente pesante, mentre il jazzrock ha una leggerezza, direi una fragranza, di tutt’altra pasta. Non ha la concettuosità vagamente ottusa dei cugini proggers, è sovente allegro senza essere spensierato, profondo senza essere complicato e difficile, e un bel po’ di originalità in più, ammesso che questa sia una qualità in sé. E non che non mirasse in alto: ascolti Arti&Mestieri, ad esempio, e risenti la lezione della Mahavishnu Orchestra, ma suonata davanti ai cancelli di Mirafiori.
Via Beato Angelico
è uno dei grandi brani del jazzrock italiano; una melodia lieve ma nient’affatto scontata, una cantabilità solare, mediterranea e quasi felice. Una di quelle cose insomma che ti lasciano quel senso di nostalgia appena finisce, quel senso di bello che solo le cose delicate e ricercate hanno, e senza aver nessun’altra pretesa che essere ciò che è: un momento prezioso, uno stato quasi di grazia, una epifania.
Proprio come gli anni della giovinezza.

 
 
 

Paul Simon, "Father and Daughter"

Post n°2 pubblicato il 02 Agosto 2007 da fattodiniente

(ascoltala)

 

Un cantante canta sempre la stessa canzone, proprio come ciascuno di noi dice sempre le stesse cose.
Ricordo una anziana fan di Peppino Gagliardi, che al tempo del Festivalbar, seguiva tutte le tappe solo per poter sentire tutte le sere il suo beniamino. ‘Peppino canta sempre la stessa canzone’ diceva, riferendosi al fatto che le canzoni di Gagliardi si assomigliano tutte, ‘ma è così bella!…’
Funziona così per tutti i cantanti. La differenza sta nel fatto che alcuni di loro sanno rimodularla, variarla quel tanto da renderla sempre nuova e fresca, mentre altri semplicemente non ci riescono, e i loro dischi risultano stanchi, fiacchi, e allora diciamo che ‘hanno perso l’ispirazione’.
Che è poi la cosa che diciamo delle persone, ed è ciò che rende alcuni alla lunga noiosi, mentre altri riescono ad essere sempre interessanti.
Gli Yes, ad esempio, è dagli anni Ottanta che ci ammorbano con dischi che cercano di rinverdire i vecchi fasti, con risultati francamente nulli; oppure si rifugiano nella reinterpretazione – sempre dannatamente, o fortunatamente uguale, a questo punto – di Siberian Khatru o Starship Trooper: in tutte le occasioni live e le varianti di formazione che il Signore può mandare in Terra. E ancora, riescono a farmi avere ciascuno dei loro classici in cinque o sei interpretazioni, mentre della loro canzone che preferisco in assoluto, To Be Over, c’è solo la versione originale, che il Cielo se li porti.
Paul Simon invece è uno che l’ispirazione non l’ha persa mai, almeno nella misura ammessa dalla lapidarietà dell’affermazione.
Di fatto, anche questo Surprise riesce ad essere per l’appunto sorprendente, pur restando il tipico disco che egli produce da più di tre decadi e mezzo o giù di lì, senza contare gli altri dieci anni di dischi fatti con quell’altro.
Chiaro che lui può piacere o meno, specie nel suo modo di cantare – un mio amico ad esempio detesta la sua ‘lagna senza coglioni’, per usare la sua alata espressione – ma chi lo apprezza motivi di delusione non ne ha. E se l’ultima canzone del suo ultimo disco è questa Father and Daughter, allora vuol proprio dire che Dio è uno che gli vuol bene di sicuro.
L'inizio è banale, quasi scherzoso, un riff di acustica, ma poi la voce disegna subito una melodia che ti leva il fiato, nel suo andare su e giù. Cantare l'amore per la figlioletta non sarà il massimo dell'originalità, ma rendere questo canto universale, questa sì che è una vera epifania.

 
 
 

Don McLean, "American Pie"

Post n°1 pubblicato il 01 Agosto 2007 da fattodiniente

(ascolta la versione di Don McLean)

(ascolta la versione di Madonna)

Sono stato a pensare per un po’ se parlare di questo disco, o se parlare piuttosto della colonna sonora di The Next Best Thing, per l’ovvia ragione che in entrambe i dischi c’è American Pie. Qui, ovviamente, la versione originale di Don McLean; lì, quella rimodernata di Madonna. Poi ho scelto di parlare del disco di Don McLean, se non altro perché in questo disco c’è anche Vincent.

Il fatto è che la versione di Madonna di American Pie alle mie orecchie piace di più, molto di più. La gente è strana, niente da dire. Ed anche le sue orecchie. Poi, questa resta una gran canzone, comunque la si rigiri, ed in ogni caso Madonna ne ha colto il senso malinconicamente gioioso, del resto programmaticamente dichiarato dalla stanza di apertura: “tanto tanto tempo fa / ricordo che la musica mi faceva sorridere”. Straordinario. E straordinario l’arrangiamento (gli arrangiamenti), a mo’ di ouverture…

Ora, la versione di Madonna mi piace perché – strano a dirsi – è in un certo senso più diretta, ancorché assai più arrangiata. E poi Madonna canta bene, almeno questo non si discute. Non posso certo dire di essere un suo fan: non ho nemmeno uno dei suoi dischi. Certo, è una che di idee sue non è che ne abbia tante: riprende, copia, rifà. Ricordo una canzone – Dio sa il titolo – in cui canta esattamente rifacendo Kate Pierson dei B-52’s (grandissima interprete, ma questa è un’altra storia).

Qui, comunque, pone una grazia, un garbo, direi tutto il rispetto che la canzone merita, per quel che è, per quel che significa e per il posto che occupa nella piccola storia della musica americana.

La cosa straordinaria è appunto la malinconia nostalgica che il testo racconta: ciò che eravamo, ciò che siamo stati, ciò che siamo. La canzone parla della morte di Buddy Holly, con i bambini che urlano nelle strade, gli innamorati che piangono e i poeti che sognano, e non so immaginare un testo più evocativo di questo per raccontare la morte di un cantante. Le canzonette magari sono solo attimi di una vita, e neanche i più importanti; ma è di attimi che una vita è fatta in fin dei conti, e probabilmente un bel modo per raccontare la vita di qualcuno è mettere in fila le canzoni che significano qualcosa per lui.

Ora, non che Don McLean non sia un gran cantante, intendiamoci, e che non dia alla sua canzone il giusto pathos, anzi: tipica voce americana, ma tolta dal coro. Io non conosco gli altri dischi che ha fatto, e dubito mi prenderò mai la briga di ascoltarli, visto che a dirla tutta neanche questo disco mi dice granché. Ma per l’appunto c’è anche Vincent, e se c’è una canzone che può far da colonna sonora ai miei dodici anni, è questa, con tutto quel che segue. Basta l’attacco di “Starry starry night”, chitarra e voce sommessa, e io sto già a posto.

E in fin dei conti, se in un disco ci sono due canzoni che fanno parte della tua vita, è più che abbastanza per tenerlo da conto.

Fin che le canzoni ci parlano di qualcosa, dopotutto, significa che anche noi abbiamo qualcosa da dire. Anche se le canta Madonna.

 
 
 
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