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Post n°24 pubblicato il 06 Settembre 2006 da rivedelfiume
Ho cominciato presto ad avere una certa familiarità con il cinema. Assidue frequentazioni domenicali presso la sala parrocchiale, una delle scoperte più belle della casa nuova, dopo che la nascita di una fragolina sorellina ci aveva deportati dal centro storico ad una casa più grande in una, tutto sommato, confortevole periferia. Dove le attrazioni possibili, peraltro, erano il giornalaio che sbagliava a contare le bustine delle figurine dei calciatori, la bottega dove comperare il pinzone fresco (o caldo?), il biciclaro che riusciva a riparare l’impossibile e da cui carpire il segreto della manutenzione della bicicletta. Ma la domenica era il cinema. Incredibile ritrovarsi da subito innamorati, estasiati da quello che sapevano offrire quelle due ore di finzione: qualche sorriso, un po’ di commozione, a volte; più spesso qualcosa su cui fantasticare prima di addormentarsi. E le sensazioni legate a quel magico evento: l’atmosfera quasi irreale, l’eccitazione dell’attesa, gli odori del cinema, perché ogni sala cinematografica ha un suo odore. Del cinema parrocchiale rimane quell’odore di gomme da masticare miste al fumo, anche se il cappellano risolveva a scappellotti l’ultima tirata di nascosto dei ragazzi più grandi; e poi il legno degli scomodi sedili, lo scartocciare delle buste di patatine e pop corn, il vociare bianco di noi bambini e le voci più grosse dei ragazzi, ed ecco all’improvviso calare il buio. Silenzio in sala. Il rumore della pellicola che lentamente incomincia a srotolarsi, il fascio di luce su quella tela fino ad un attimo prima bianca, inespressiva, mentre d’un tratto, come per magia, ecco scorrervi sopra le scritte, i colori, gente in movimento... E dopo i primi minuti di applausi, commenti, sanguigne risa di gioia nervosa, si poteva finalmente incominciare a seguirne la trama, ma quei minuti iniziali non irritavano affatto gli spettatori, neppure i genitori: diventavano parte integrante dello spettacolo. Minuti in cui il pubblico era unico attore e regista, minuti senza i quali il film stesso non avrebbe avuto alcun senso. Domenica dopo domenica, come corone di un rosario, dove i singoli grani erano le rievocazioni mitologiche, le commedie all’italiana, all’epoca considerate come cinema minore, mentre oggi ben altra è la loro considerazione. E poi, c’erano loro, i mitici films dei “caubois”, così come noi usavamo chiamarli, impastandone in maniera nostrana il suono americano. E c’erano gli indiani, brutti sporchi cattivi, e poi arrivavano i Nostri, belli e buoni, nelle loro uniformi blu e perennemente pulite, a bordo dei sani puledri del settimo cavalleggeri, ed erano altri dieci minuti di tripudio, di sublime euforia, e quei pochi pellerossa malvagi che riuscivano a salvare la pelle se la davano a gambe, accompagnati da un boato di fischi. Gli anni della consapevolezza erano di là da venire. Non aveva un nome, era solo “il” cinema della parrocchia: ed il giovane cappellano si rimboccava le maniche per tenerlo in vita, con la collaborazione di un venditore di liquirizia che allora sembrava un idolo, salvo scoprire crescendo che il signore, fuori da quel salone, era un datore di lavoro faticoso, mal pagato, ma rigorosamente in “nero”. Eppure, proprio in quella sala, tempio dell’immoralità purificata con la varechina, a sette anni, per la prima volta, lo vidi. Il grande genio intellettuale del novecento rimasto malauguratamente figlio unico in un inferno di figliastri. Per lui, gli schemi non erano stati ancora inventati, né mai lo sarebbero stati. Morale, immorale, destra, sinistra, mangiapreti, bigotto, mistica, anarchia, pentimento, fede, ateismo: concetti rubati ad una fiera di pazzi. Suo fu il primo grande film che vidi riconoscendolo come tale. Raccontava di amore, di sofferenza, di perdono, di lunghi silenzi assordanti. Ricordo ancora indelebilmente l’immagine sofferente di una madre, quella del protagonista, un signore quasi nudo, ucciso su di una croce, ed il sangue che colava dal suo corpo non era rosso, ma nero; ed il cielo sullo sfondo non era azzurro, ma di un magico bianco chiarore. Forse fu proprio quel film fatto di chiarori e di ombre, a farmi capire la magia di quel mezzo espressivo. Nonostante le apparenze, non sono mai stato un integralista della visione. Voglio solo dire, non ho mai storto il naso circa le dimensioni del mezzo a disposizione. Schermo super mega maxi cinemascope, tela immacolata o giallastra o bucata, lenzuolo sul muro, aria condizionata, caldo afoso, sei o sessanta pollici, bianco e nero o colore, superotto o dvd. Mi basta il paradiso: fatto di immagini, di storie, di emozioni, di primi piani espressivi, di colori reali ed irreali, di vita vista da altri punti di vista, quelli di un occhio che, attraverso sé, ci mostra quello che fa si che noi si possa vedere dal basso il mistero che ci sovrasta... Nessuno mi ha trasferito entusiasmo verso il cinema, nessuno mi ha insegnato ad amarlo, se non il cinema stesso. Un fiume grande, impetuoso... il sogno di riuscire, un giorno, a risalirne il corso fino alle sorgenti.
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