Creato da: rivedelfiume il 26/06/2006
lungo il fiume e sull'acqua

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Hey Buddy, got a light?

Post n°17 pubblicato il 11 Agosto 2006 da rivedelfiume

"Non riesco a capire coloro che si rifugiano nella realtà perché hanno paura di affrontare la droga"
Maggio 1976, l’Italia, devastata dal terremoto friulano di pochi giorni prima, si consola passando le serate di una calda e triste primavera per strada, nei parchi, davanti le gelaterie, ovunque, insomma, tranne che in casa. Salvo poche eccezioni. Tra queste, un ragazzo introverso e molto preoccupato per l’imminente maturità, con greco e filosofia all’orale, oltre alcune materie assimilabili, nella sua testa dura, alle scienze occulte. Radio costantemente accesa, “RadioDue 21.29”, Carlo Massarini, il Vate, con la sua musica americana. All’improvviso, tra le note, una voce sgarbata, arrochita da mille sigarette rollate nella carta vetrata, bruciata da bourbon dozzinale e dai gas di scarico di automobili troppo vecchie per non intossicarsi, gola consumata ma padrona di corde vocali capaci di raccontare con un solo vocalizzo un intero vissuto. Parole di denuncia delle illusioni del sogno americano, le solitudini delle metropoli tentacolari, la lotta di sopravvivenza, su un suono fumoso e jazzy, che rappresenta una delle sue caratteristiche. Il ragazzo segna nervosamente a matita sul bordo della grammatica greca un nome, Tom (questo è chiaro) ed un cognome (Weits, Waiss, Waizz? Chissà come sarà…). Massarini insiste, racconta di questo musicista commesso viaggiatore fra l'umanità dei perdenti d'America, fatta di frequentatori troppo assidui di bar, prostitute e relativi, poco sensibili, clienti. Il suo calarsi (o catarsi?) di matrice quasi empatica fra le sofferenze dei dimenticati, spesso in dissidio fra di loro, incapaci di venirsi incontro pur nella reciproca sfortuna. Ovvia conseguenza, al primo sabato utile, pellegrinaggio a Bologna, questo nome storpiato scritto con emozione su un bigliettino -in quel momento più prezioso della stessa banconota da 50mila che sarà sacrificata sull’altare dei long playing che faranno da colonna sonora della maturità. “Ah, Tom WAITS…” mi dice la commessa troppo carina per non colpirmi doppiamente. “Cosa cercavi?” “Qualunque cosa...l’ho sentito per radio e mi ha colpito”. Mi fa vedere quattro album, uno rarissimo e costosissimo (Closing time), due singles (The heart of saturday night e Small change) ed un live doppio, Nighthawks at the diner, che è quello “passato” da Massarini in radio. Lo compro, i compagni di merende mi guardano perplessi… In copertina, attraverso la finestra di un fast food a buon mercato, sullo sfondo ognuno guarda verso la propria indifferenza, mentre sulla destra un ceffo, sigaretta nella mano, cappello saldamente in testa, guarda di traverso verso di noi, novello Bogart dei bassifondi. Sarà il nostro Caronte verso la dannazione di un sabato da bruciare nelle mille cicche di altrettante sigarette a cui aggrapparsi, la musica è un sogno jazzato chiamato Emotional weather report, dove in realtà il bollettino meteo annuncia solo devastazioni emotive, uragani ormonali da realizzare con una sola mano, per mancanza di carne fresca; è On a foggy night, colonna sonora di una notte in cui un “precario pandemonio” sembra l’unico ordine possibile, è una cartolina notturna da recapitare in un bar più o meno malfamato dove incontriamo marinai senza mare, puttane con troppo trucco ma senza amore e senza clienti, odore di fritto a sventagliare i sentimenti possibili; è l’amore disperato che Nobody potrà dare, come avrebbe fatto Tom, all’ ingrata che se n’è andata verso i tanti che ha avuto ed i tanti che avrà, e le spezzeranno il cuore, nessuno sbagliato come lui che l’ama. È il sogno spezzato di Big Joe and Phantom 309, sono il caffè freddo tra le nuvole di nicotina, in cui si racchiude il fumetto di ricordi, e dita che incendiano la memoria, è la scelta sconfortante tra una birra calda o una donna fredda. Testi al limite dell’intraducibile, pieni di slang californiano (infatti una ragazza piovuta da Boston alla Pianura, che all’epoca aveva tempo da perdere -e sigarette da farsi scroccare dal ragazzo di cui sopra e compagni di merende- non riusciva a tradurre tutto…), in questo viaggio fra la fauna dei sobborghi, figli di un'America popolata non dagli eroi hollywoodiani, ma intrisa di esseri (dis)umanamente consumati da qualunque cosa puzzi d’alcool, da qualunque essere puzzi di sesso, da prostitute sognatrici che sperano in un’ultima redenzione, e spediscono cartoline natalizie da Minneapolis, da marinai che puzzano di tempeste ormonali represse, da menti bruciate dal fumo di qualunque cosa rollabile in qualunque tipo di carta. Caronte impegnato a calarci in modo quasi biblico fra le sofferenze degli esseri umani dimenticati, spesso in lite fra di loro, incapaci di venirsi incontro pur nella reciproca sfortuna. Passa il tempo, passa la maturità, arriva la prima radio “libera” con la matricola universitaria ad ammorbare l’etere, arriva un nuovo album di Waits che richiederebbe la presenza contemporanea, nelle mie facoltà, di denaro, di tempo per andare a cercarlo e di arrivare in tempo prima che finisca nel negozio. Condizioni che non si realizzeranno mai tutte insieme. In compenso, si realizzano per l’album successivo, in quello che sarà da allora e per sempre il “mio” Tom Waits. Visto nel solito negozio, un sabato mattina bolognese, pausa di riflessione: ma non c'è tempo per pensare, è tempo di Foreign affairs. Un tuffo nei ricordi d'infanzia di Waits. Una fotografia del suo percorso di formazione, virata in un blu notte pesto. Soprattutto, una collana di perle difficilmente ripetibile. “Here I Come” (una frase, “si sentiva più solo di un parcheggio dopo che l’ultima auto se n’è andata”), "Burma shave", che prende il titolo dalla marca di una schiuma da barba che il bambino Tom credeva essere un luogo immaginario. Da ascoltare, farsela entrare dentro, metabolizzare, trovarsi a viaggiare su quell’auto guidata da uno che sembra “Farley Granger con i capelli pettinati all’indietro” e quella ragazza che deve lasciare Marysville, la “puzzolente città dove tutti hanno un piede nella fossa” (andrà a finire male, naturalmente: c’è bisogno di dirlo?). "I never talk to strangers" che vive e racconta delle difficoltà d'incontrarsi tra un uomo e una donna che diffida degli sconosciuti. Il duetto Waits-Bette Midler (”e tu sei amareggiata perché lui ti ha lasciata, ecco perché bevi in questo bar, sai, solo i perdenti si innamorano di perfetti sconosciuti”) è da antologia della musica, il ricamo vocale ed il tappeto musicale fanno pensare ad un Satchmo ed Ella al termine di un festino in cui si sia bevuto e fumato un po’ troppo. "Jack & Neal" è invece un viaggio folle e disperato alla ricerca della libertà dei due poeti beat per eccellenza, Jack Kerouac e Neal Cassidy. "Potter's field", tratto dai ricordi d'oltretomba di una strana Spoon River. Nella punta della dita molto jazz, per il delizioso prendere in giro Mr.snip snip snip, il titolare del “Barber shop” con cui bullarsi di peraltro improbabili conquiste. Ed una incredibile, indimenticabile “Muriel”, una delle canzoni d’amore forse più belle in assoluto, dove il povero Tom, in quello che qualcuno che passa sulle rive del fiume chiamerebbe un sudario fatto di silenzio dei sentimenti, si perde nel sogno di questa Lei che ha abbandonato una città della memoria, in cui i locali hanno chiuso i battenti per disperazione, e c’è un lampione bruciato in più sulla strada principale, dove loro passeggiavano, in cui la mente vola ai sabato sera passati ad accarezzare capelli tirati indietro, al diamante negli occhi di lei come unico anello nuziale possibile...sogni e ricordi spezzati da un brusco “ragazzo, hai da accendere” per infiammare sigaro e pensieri, che presto diventeranno, per sempre, cenere.
Irreversibilmente.
Tom Waits, racconti di una mente disincantata: quando apparirà, nella parte di Zack, dj (ovviamente) fallito, in “Daunbailò”, il film di Jarmusch con Roberto Benigni e John Lurie, nascerà un’amicizia con l’attore italiano, che Waits spesso sveglierà nel cuore della notte per farsi cantare “Prendi questa mano zingara”. Per intercessione di Benigni lui verrà a Sanremo, dove (ovviamente) perderà le valigie, a ritirare il Premio Tenco. Ascolta i comprensibilmente intimiditi Ruggeri e Locasciulli suonare ‘Nella memoria’, versione italiana di “Foreign Affair”, li applaude ruggendo “well done, well done”, poi sale sul palco, un concerto (ovviamente) straordinario, acustico, accompagnato solamente da un contrabbassista e da una fisarmonica da poche lire comperata al mercatino dell’artigianato. Racconti di una mente disincantata che, alla domanda “Cosa prevedi per il futuro?” risponde, indelebilmente: “Il futuro? Uno scherzo che non meritiamo. Se John Lennon avesse avuto anche la più lontana idea che un giorno Michael Jackson avrebbe potuto decidere sull'utilizzo del suo materiale, sarebbe uscito dalla tomba e l'avrebbe preso a calci nel culo, ma cosi' forte che tutti noi ci saremmo divertiti.»

 
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Meliaduse
Meliaduse il 14/08/06 alle 14:04 via WEB
Però neppure lui ha saputo risollevare l'ultimo bruttissimo film di Benigni... ^__^
(Rispondi)
 
 
rivedelfiume
rivedelfiume il 14/08/06 alle 15:11 via WEB
Ti diro'..ho visto solo il primo quarto d'ora in un pessimo dvd e mi stavo annoiando...il Benigni regista è sopravvalutato, secondo me, e quest'ultimo film è un po' come per noi andare al bancomat....
(Rispondi)
 
ctthsoe
ctthsoe il 25/03/09 alle 07:37 via WEB
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