Creato da: rivedelfiume il 26/06/2006
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Post n°5 pubblicato il 30 Giugno 2006 da rivedelfiume
 
Tag: musica

Mettendo ordine tra tutti i vecchi padelloni in vinile, ho ritrovato un disco che mi ero perduto nella memoria, “The best of Otis Redding” e dentro gli appunti della trasmissione che ai tempi della radio gli avevo dedicato.
E riscoprirli attuali.
Soul music senza tempo, classe superiore, coinvolgimento emotivo sempre intenso.
Partiamo dal racconto che fa di lui Steve Cropper, che con lui firmò due successi come “Fa, Fa, Fa, Fa, Fa” e “Dock 0f The Bay”, fungendo da arrangiatore e da musicista d’accompagnamento in molte delle sue registrazioni. « Lo incontrai per la prima volta nel 1962. A quel tempo, Otis era un po’ il factotum di Johnny Jenkins and the Pinetoppers, faceva il road manager, il cantante, l’autista. Un giorno, il complesso si trasferì a Memphis per registrare alcune canzoni; Otis rimase per tutto il tempo seduto in un angolo dello studio, alzandosi ogni tanto per dire: “Per favore, vi prego, fatemi incidere qualcosa”. Così, quando Jenkins ebbe terminato, c’erano ancora quaranta minuti a disposizione e tutti insieme dissero: “Va bene, vediamo un po’ cos’è capace di fare questo ragazzino”. »
Così, quasi per caso, iniziò l’ascesa di quello che in seguito sarebbe diventato forse il più grande e il più amato cantante di soul degli anni Sessanta. La canzone era “These Arms Of Mine”, un brano che Otis aveva scritto due anni prima; pubblicata su disco, avrebbe venduto qualcosa come ottocentomila copie. Con quel brano, non cominciò soltanto la carriera di un nuovo artista, ma ebbe inizio anche un nuovo genere di soul, miscela sperimentale comprendente gospel, rhythm and blues, i fiati a corrente alternata.
In contrasto con l’educato soul cittadino o con la musica della Motown, Otis sviluppò uno stile originale particolarmente grezzo: la musica faceva presa soprattutto perché spontanea, sincera, non filtrata. Il suono riprodotto su disco era quello che veramente accadeva in studio (la casa di Otis, la Stax-Volt, non poté permettersi equipaggiamenti stereo sino al 1966). La presa immediata di una canzone come “Respect” deriva in parte dal fatto che il brano venne scritto in un giorno, arrangiato in venti minuti, registrato praticamente senza prove. Otis era tipo da incidere un album intero in due giorni soltanto, cogliendo al volo le sue immense energie. «Quando entro in studio a registrare una canzone » ebbe a dire l’artista, a proposito del suo modo di affrontare la musica «ho in mano solo il titolo e qualche volta il verso d’inizio. Il resto lo invento durante la registrazione. Si prova tre o quattro volte e si tirano fuori soluzioni diverse ogni volta.., niente trucchi, si registra tutti insieme, fiati, sezione ritmica, voce, anche sei canzoni in cinque ore.» Questo metodo spontaneo spiegò larga influenza nel mondo del soul e del rock bianco. Sulle orme di Otis, Aretha Franklin e Wilson Pickett si mossero alla volta di Memphis per incidere molti dei loro più grandi successi, usando i musicisti della Stax e il loro particolarissimo stile; in seguito, lo stesso sarebbe accaduto per gli Allman Brothers e i Rolling Stones, alla ricerca di un po’ di Memphis Soul da inserire nel proprio bagaglio.
Otis risultava efficace sia nei brani svelti che nelle ballate più lente. La facciata B del suo primo successo, “Hey, Hey, Hey”, è tipica dello stile selvaggio alla Little Richard con cui l’artista aveva iniziato; è possibile ritrovare lo stesso « gesto vocale» in brani più tardi, Shake, di Sam Cooke, o I Can’t Turn You Loose, canzoni tanto ricche d’energia da togliere il respiro. Otis idolatrava Little Richard e proprio con un’imitazione quasi perfetta di Show Bamalarna, uno dei brani più celebri del grande ispiratore, incisa nel 1960 per l’etichetta Bethlehem, Redding cominciò a sviluppare un proprio stile, caratterizzato da una estrema disinvoltura e dalla voce roca, venata d’angoscia; è il suono di brani come Mister Pitiful, Respect, l’ve Been Loving You Too Long, incisi tra il 1964 e il 1965. I gesti ritmici stringati dei complessi della Stax con cui incise (gli incandescenti fraseggi bassistici di Duck Dunn, i « punti invisibili » della chi tarra di Steve Cropper, gli agitati ritornelli dei Markeys) aiutarono Redding a sviluppare il proprio caratteristico stile ritmico.
Fu la personale versione di Satisfaction, dei Rolling Stones (una canzone fortemente influenzata dal fraseggio aperto dell’artista) a far conoscere Redding attraverso le stazioni radio di musica bianca; pure, quella canzone era quasi una parodia dello stile vocale sincopato allora per la maggiore. Tra il 1965 e l’anno seguente, Redding ebbe un certo numero di canzoni di successo; l’ve Been Loving You Too Long, con timido vibrato vocale su ritmo lento, d’atmosfera, Fa, Fa, Fa, Fa, Fa e la supplichevole, lamentosa Try A Litile Tenderness. Ma fu solo nel 1967, grazie ad una celebre esibizione al Monterey Pop Festival, che l’artista sfondò tra gli appassionati di pop. In quel lo stesso anno, Redding spodestò Elvis dal trono di « miglior cantante maschile », aggiudicandosi il referendum del “Melody Maker”; ci volle un incidente aereo (il charter che lo trasportava si schiantò contro i ghiacci di un lago del Wisconsin) per fermare il suo cammino, per toglierlo dallo scranno di Principe Ereditario del Soul.
Otis ambiva a riempire il vuoto lasciato dalla morte di Sam Cooke, avvenuta nel 1964 e, nonostante il taglio grintoso di molte sue canzoni, fu proprio il garbo che lo accomunava a quel grande artista a renderlo diverso dalla maggior parte dei cantanti soul della sua epoca. Otis non veniva dal gospel ma seppe sviluppare uno stile ibrido di musica sacra e R & B che permise alle sue composizioni di durare nel tempo con inalterata efficacia. Più di ogni altro artista soul, Otis cercò di comunicare l’intimo entusiasmo del gospel, il suo vigore; la fede che sta alla base di quella musica venne tradotta in un codice universale, valido per le emozioni di tutti. Una delle ragioni del grande successo risiedeva nella sua personalità; vulnerabile com’era, come la voce lasciava intendere, Redding si dimostrò valido sia per il pubblico di colore che per i giovani bianchi, laddove cantanti più grintosi sul tipo di James Brown e di Wilson Pickett non riuscirono mai ad imporsi nell’ambito pop.
Dock Of The Bay fu il primo disco di Otis a raggiungere la vetta delle classifiche ma l’artista non visse abbastanza per vederne il successo. Con il suo testo ispirato, la delicata cadenza, la raffinata tensione, il brano è un po’ il compendio dell’arte e della vita di Redding, con tutta la particolare amarezza che la vita portò con sé. Per usar le parole di Steve Cropper, in una vecchia intervista a “Hit Parader”: « Non ho mai cambiato idea su Otis; era un uomo puro. Tutte le sue canzoni testimoniano del suo amore per la gente. Le sue storie parlavano sempre di rappacificazioni, di ritorni con l’amata; e anche quando lei era uscita dalla sua vita, restava la cosa più importante del mondo. I suoi rapporti con le cose erano sempre positivi ».

 
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Il mio cuore brucia come il fuoco

Post n°4 pubblicato il 29 Giugno 2006 da rivedelfiume
 

Soyen Shaku, il primo insegnante di Zen ad andare in America, disse: «Il mio cuore brucia come il fuoco ma i miei occhi sono freddi come ceneri morte». Egli stabilì le seguenti norme, che mise in pratica ogni giorno della sua vita:
La mattina, prima di vestirti, brucia dell’incenso e medita.
Coricati sempre alla stessa ora.
Nutriti a intervalli regolari. Mangia con moderazione e mai a sazietà.
Ricevi un ospite con lo stesso atteggiamento che hai quando sei solo.
Da solo, conserva lo stesso atteggiamento che hai nel ricevere ospiti.
Bada a quello che dici, e qualunque cosa tu dica, mettila in pratica.
Quando si presenta un’occasione non lasciartela scappare, ma prima di agire pensaci due volte.
Non rimpiangere il passato. Guarda al futuro.
Abbi l’atteggiamento intrepido di un eroe e il cuore tenero di un bambino.
Non appena vai a letto, dormi come se quello fosse il tuo ultimo sonno.
Non appena ti svegli, lascia subito il letto dietro di te come se avessi gettato via un paio di scarpe vecchie.

 
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Reflex

Post n°3 pubblicato il 28 Giugno 2006 da rivedelfiume
 

Ci sono cose di cui non si parla mai, o se ne parla di nascosto, in modo allusivo, a volte offensivo, dando per scontato che tutti sappiano quello che c’è da sapere, o che non ci sia nulla da sapere.
Che tutti sentano nello stesso modo, che ognuno sia perfetto e siano gli altri ad essere “sbagliati” .
Parole sprecate e silenzi dannosi per affrontare un tema che sta letteralmente alla base della nostra stessa sopravvivenza: la sessualità.
In balìa del capriccio delle mode, delle tendenze culturali, politiche e, soprattutto in Italia, religiose, di sessualità si parla o si tace, si ostenta o si nasconde, si fa indigestione o si fa la fame. In tutti i casi, spesso, ci si dimentica di affrontare l’argomento con la giusta dignità che gli spetta e con quel pizzico di buon senso necessario per venire realmente incontro alle esigenze non solo dei più giovani, che si affacciano alla vita e all’incontro con pulsioni e istinti potenti e vitali, ma anche di persone in età più matura, che non hanno mai avuto l’opportunità di chiedere “Tutto quello che avrebbero voluto sapere sul sesso”, parafrasando il famoso libro (e film), o di instaurare un dialogo aperto e sincero con l’altro sesso, sulle questioni più intime.
Non si tratta di optare tra la liberazione e la repressione sessuale; non avrebbe senso quanto parlare di liberazione o repressione dell’alimentazione, o del movimento fisico. Quello di cui c’è bisogno, sempre e comunque, è un atteggiamento obiettivo verso la sessualità, esente dalle tradizionali reazioni di paura, di falso pudore, o di condanna e, d’altro canto, libero dal fascino che essa esercita, fascino accresciuto artificialmente dal lavorio dell’immaginazione e dall’iperstimolazione diffusa attualmente.
L’istinto sessuale non è di per sé né buono né cattivo, è una funzione biologica e come tale non è immorale, ed è una funzione di massima importanza, poiché assicura la continuità della specie. Pur essendo fondamentalmente un istinto, non possiamo non riconoscere le profonde implicazioni che esistono anche sul piano affettivo e mentale. “Trattare l’amore sessuale soltanto dal lato fisico sarebbe come pensare durante un concerto solo alle budella del gatto e alle code di cavallo usate per le corde del violino e per i crini dell’arco”, ha detto un poeta inglese, e la complessità di questo tema è proprio dovuta all’interdipendenza tra tutti i diversi aspetti del nostro essere, fisico, emotivo, mentale e spirituale.
Questo atteggiamento globale, olistico è il termine attualmente più corretto, cioè in grado di prendere in considerazione l’insieme della persona, e non solo singoli aspetti separatamente, è noto da millenni nelle culture orientali, in cui, non a caso, di sessulità si parla come di ogni altro campo della salute.
Che cosa è successo allora da noi? Da cosa nasce questo atteggiamento così ambiguo?
Le risposte possono essere tante, una molto provocatoria viene da Wilhelm Reich, uno dei maggiori contributi alla psichiatria, che distaccandosi da Freud ha dato poi vita alla bioenergetica. Oggi “La rivoluzione sessuale” è un librettino che troviamo in tutte le librerie, se non in edicola allegato ad una qualche rivista "piaciona", ma Reich ha concluso i suoi anni in prigione per l’ardire delle sue tesi e lo scalpore suscitato nella cultura occidentale per la sua ricerca. La repressione sessuale rende gli individui più facilmente manipolabili e plagiabili - sostiene - mentre la libera espressione dell’energia sessuale ha un ruolo fondamentale per la salute psichico dell’individuo e per la sua capacità di diventare una persona responsabile, critica, creativa ed indipendente.
La sua tesi, inizialmente basata su dati di tipo sociologico, riguardante il rapporto diretto tra repressione sessuale e repressione politica, all’interno di diverse società, ha dato poi vita ad una scuola di psicologia che cerca di comprendere la personalità in termini dei suoi processi energetici, riconoscendo il profondo legame esistente tra mente e corpo, per cui ogni repressione di qualche cosa di fisico, si traduce in una sostanziale modifica del carattere.
Non bisogna però cadere nell’ eccesso opposto, perché liberazione non VUOL dire assoluta mancanza di guida, di sostegno, di regole, non vuol dire neppure caricare di eccessiva importanza un aspetto prima trascurato della nostra natura, ma integrano armonicamente col resto, riconoscendogli il posto che gli spetta, che sarà diverso da persona a persona. Soprattutto non vuol dire che senza sessualità non c’è salute psichica, ma vuole dire sicuramente che c’è differenza tra sentire un impulso e decidere di non seguirlo (per decisioni di tipo personale, religioso, per inopportunità o impossibilità contingente) e fare finto di non averlo. Se riconosciamo che la sessualità è energia, possiamo anche decidere di canalizzarla, di sublimarla, di trasformarla, l’importante è che questa sia però una scelta individuale consapevole, non uno schema imposto da una società bigotta che richiede ai giovani l’astinenza fino al matrimonio, senza informarli, senza offrire loro occasioni di dibattito e confronto, e poi pretende che dopo un ‘sì’, diventino capaci di incontrarsi intimamente senza problemi.
Quanta infelicità, quanti conflitti tra uomo e donna potrebbero essere evitati con una vera educazione sessuale, e non certo quella che racconta la storiella degli spermatozoi che incontrano l’ovulo, o la fisiologia del glande e delle trombe di Falloppio e di altri termini orrendi che togliendo ogni poeticità al corpo maschile e femminile credono di risolvere il problema dell’educazione. Quello di cui c’è bisogno è dialogo, confronto su ciò che si sente e si vive in prima persona; parlarne apertamente consente così ad ogni individuo di prendere coscienza delle sue peculiari esigenze, e di scegliere quindi consapevolmente, tempi, modi e atteggiamenti ad ognuno più congeniali, senza lasciare i giovani, e il discorso vale anche per quelli che giovani lo sono ormai stati, abbandonati a loro stessi e, ancor peggio, a chiacchiere di corridoio che rischiano di diffondere solo idee sbagliate su ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere.
Si potrà così scoprire che non siamo gli unici ad avere delle difficoltà, dei dubbi, delle perplessità, dei timori, dei desideri, delle fantasie; e alleggerirci di questo peso, che ognuno crede di essere il solo a trasportare, ci lascerà già una notevole quantità di energia in più a disposizione per provare ad affrontare il sesso come una cosa sostanzialmente buona, bella, giusta. Come un modo per scoprire qualche cosa di nuovo di se stessi e degli altri, come un’occasione di partecipare in prima persona al meraviglioso mistero della creazione. Far l’amore è naturale, è come lasciarsi coinvolgere in una danza sempre nuova in cui trovano occasione di espressione il nostro essere bambini e adulti, dolci e aggressivi, spiritosi e drammatici, curiosi ed esigenti. Se sapremo far crescere la fiducia in noi stessi, e anche nel/nella partner, avremo un’occasione in più per rinsaldare ulteriormente il rapporto e approfondire a conoscenza reciproca. C’è sempre da imparare l’uno dall’altro, uomo e donna hanno sostanzialmente ritmi e modalità diverse di affrontare il rapporto sessuale e la condivisione delle reciproche esigenze permette di incontrare l’altro più in profondità, riconoscendone e valorizzandone l'unicità.
Far l’amore è un’arte, non una tecnica, quindi...
Spazio alla fantasia, all’allegria, alla creatività, senza mai generalizzare o dare nulla per scontato. E’ anche imparare a chiedere, a rispettare, a non lasciarsi prendere dall’abitudine, a non soffermarsi sulla tecnica ma sulle proprie sensazioni, imparare ad essere presente, al proprio corpo, a quello dell’altro, accettando il piacere, e scoprendo la gioia del dare piacere. il rapporto sessuale diventa, in questo spirito, non un fine, ma un mezzo, per creare un clima di tale intimità e dolcezza, da far capire il significato più profondo del famoso slogan “fate l’amore non fate la guerra”.

 
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Di volpi e signore

Post n°2 pubblicato il 27 Giugno 2006 da rivedelfiume
 
Tag: musica

Newark, la sera dopo l’assassinio di Martin Luther King.

Jimi Hendrix suona al Symphony Theatre davanti a un pubblico di bianchi, per lo più hippies vestiti alla moda.

«Che noia» e le spalle si muovono in un breve spasimo.

La Stratocaster fa un mezzo giro urlando la sua disperata e lacerante protesta.

Un’occhiata all’orologio.

«Uhmmm, ancora venti minuti...»

Il concerto scivola verso il suo epilogo.

Jimi sfila la chitarra, con gesti misurati la prepara, disponendola davanti a sé.

Un solo sguardo verso il pubblico, quasi a raggelare la tensione di chi è oltre il palco.

Una frenesia quasi voyeuristica, che diventa eccitazione.

Chiude gli occhi, come rispondendo a un comando.

Solleva l’ «attrezzo» e con assoluta naturalezza la conficca tra le assi di legno del palco.

La chitarra resta lì, strumento sfregiato di rassegnazione, in attesa che finalmente cali il  sipario.

Nessuno chiede il bis.

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Jimi Hendrix è l’indossatore degli abiti del paradosso e della frustrazione.

Da bambino, raccontano i biografi, fingeva di suonare la chitarra usando un manico di scopa; a undici anni, finalmente, il padre gli compra un vero strumento.

Il suo cammino nel mondo dello spettacolo comincia prestissimo: nella speculazione senza precedenti seguita alla sua morte, salterà fuori di tutto.

Ma gli inizi paga il pedaggio del noviziato, mostrando sentimenti alterni.

Da un lato, il tirocinio gli da la possibilità di approfondire lo studio della chitarra, dandogli la possibilità di esibirsi come spalla degli Isley Brothers, di Little Richard e gente simile; d’altro canto, l’artista si sente già compresso e limitato dallo snervante ruolo di automa cui spesso è costretto.

«Il mio compito era esclusivamente quello di accompagnare» confessò una volta al “Melody Maker” «ma io passavo il mio tempo a far progetti. Entravo in un gruppo e me ne uscivo subito. Mi piaceva ascoltare i brani di R & B che andavano per la maggiore ma ciò non significava che mi piacesse suonarli tutte le sere».

Hendrix riesce a sfondare alla fine del 1965.

Cambiato il nome in Jimmy Jones, organizzata una formazione chiamata The Blue Flames, comincia a esibirsi per il circuito delle coffeehouses aperte al rock che costellavano il Greenwich Village di New York.

L’approdo è l’importante Café Au Go Go, dove Chas Chandler, l’ ex bassista degli Animals, ed in quanto tale già leggenda vivente, lo sente suonare e si offre di diventare il suo manager e di portarlo in Inghilterra.

Non è difficile capire quel che Chandler subito intuisce di tanto potente in Jimi.

Come compositore è ancora inesperto, ad essere eufemisti; la sua arruffata, contorta personalità è ancora allo stato embrionale.

Ma la sua presenza scenica è già esaltante: i denti divorano, secondo un rituale classico, le corde della chitarra, mentre intorno la musica giostra con grazia e fluidità.

Hendrix è un artigiano che non chiede di meglio che suonare vecchio blues in tutta scioltezza (in questo senso Red House è l’esempio più vistoso) e un maestro degli effetti sonori, uno sperimentatore che usa ogni trucco sonoro con audacia che sfiora la sfacciataggine.

Elettricità, per Hendrix, non significa mai semplicemente amplificazione, ma scoperta di terre vergini, da visitare in piena libertà.

Chandler e l’altro manager, Michael Jeffrey, mettono insieme i pezzi del mosaico con estrema cura.

L’idea di un chitarrista nero tra le file dei bianchi poteva risultare ovvia solo in Inghilterra, in una terra, cioè, dove gli artisti blues americani sono soliti cavalcare l’onda del successo anche dopo esser stati messi in disparte nella terra d’origine. Allora Chandler e Jeffrey addolciscono la pillola vestendo Jimi e i ragazzi del suo complesso (il bassista Noel Redding e il batterista Mitch Mitchell) con eleganza vistosa ed esotica, non risparmiando alcun «trucco».

Il travestimento prevede che Jimi appaia personaggio sinistro e sensuale, ricco di violenza felina appena sotto la facciata di elegante bellimbusto.

Il contrasto ricalca schemi già noti e funziona egregiamente, dando luogo ad uno choc senza mezzi termini, un duro impatto dovunque, un assedio visivo e sonoro che lascia il pubblico stupito oltre ogni dire.

La formazione, battezzata The Jimi Hendrix Experience, debutta a Parigi con Johnny Hallyday, il padre putativo del rock’n roll in Francia, e dopo questo rodaggio parte alla  conquista di Londra.

All’inizio del 1967, il primo 45 giri, Hey Joe, penetra nelle classifiche inglesi.

Il primo giro della Gran Bretagna in grande stile inizia a marzo, di lì a poco  la prima chitarra bruciata. La cultura underground che sta rapidamente crescendo, delusa dalla pausa di riflessione degli Stones e basita dal misticismo verso cui tendono la mano i Beatles, lo adotta come propria creatura. L’album d’esordio, Are You Experienced, diventa rapidamente un «must» di quella primavera ricca di speranze.

Della reputazione di Jimi giunge eco nella natia America, tanto che all’artista viene chiesto di comparire nel programma del Monterey Pop Festival, allora in allestimento.

Oltre alle numerose conferme, due stelle fino ad allora anonime si accendono ad illuminare le anime dei ragazzi americani: Jimi ed una ragazza dai capelli rossi e la voce di cartavetrata, Janis Joplin.

Su quel palcoscenico, nel bel mezzo di una rassegna «stellare», Jimi si costruisce il trionfo suonando con assoluta determinazione.

Dapprima nervoso, trova passo sicuro con Like A Rolling Stone, finendo in ginocchio a straziare lo strumento nel mezzo di una schiumante Wild Thing.

La febbre esplode.

Hendrix è tornato a casa e con tutti gli onori.

In più, Chandler e Jeffrey, col fiuto di chi ha capito come funzionano certe faccende, mettono in giro la voce che un folto gruppo di “Figlie della Rivoluzione Americana” impedisce a Hendrix di tenere i suoi concerti.

Infatti, l’enorme interesse che su Jimi esercita il sesso femminile, peraltro molto ricambiato e praticato, spacca in due le stesse fans: chi lo trova troppo erotico per parlarne in pubblico ed esibirlo come idolo, e chi, viceversa, lo adotta proprio per queste ragioni.

Dopo la morte (e facciamo un po’ di gossip!) si saprà che Jimi aveva fatto fare un calco del proprio sesso, regalato come souvenir alle oltre 1500  conoscenze (in senso biblico) femminili.

Ma torniamo alla breve storia musicale.

Nulla ormai può fermare Jimi in quel caldo 1967.

I brani di Are You Experienced incontrano il consenso generale, inni quasi della “controcultura giovanile”, da Foxy Lady a Purple Haze a The Wind Cries Mary, e prima della fine dell’anno l’immagine di Hendrix è ormai familiare e molto stimata nell’ambiente discografico e dello spettacolo.

I termini della nuova «musica elettrica» diventano parole comuni, alla portata di tutti.

La ruota pop inizia a macinare il personaggio con furore crescente e sembra, in  più di un momento, che la passione della leggenda riesca a cancellare la realtà dell’uomo.

Per Jimi, la vittoria si trasforma presto in sacrificio.

Il primo album aveva promesso un nuovo stile di cose, una rappresentazione totale che faceva tutt’uno dell’artista e della musica in un’indelebile immagine. Ma una volta superato l’effetto della sorpresa, appesi al muro i primi dischi d’oro, gli stadi pieni di gente disposta a salutare con l’applauso anche il tentativo più scalcinato, il momento della creatività e del coraggio sembra perdersi e svanire.

Con un pubblico che non gli pone alcuna difficoltà, pronto a farsi sedurre completamente, ed i musicisti del complesso incapaci di reggere il confronto (anche se Hendrix, in tutta franchezza, non concedeva loro molto spazio), Jimi si trova senza più stimoli artistici.

La strada intrapresa appare quanto mai difficile.

Nascono violente dispute sulla conduzione manageriale; Jimi la chiama «schiavitù del pop».

La notorietà pubblica gli procura problemi con la polizia, dapprima in Svezia poi in Canada, dove viene arrestato per possesso di droga (l’accusa successivamente cadrà).

Mentre da un lato crescono i problemi personali, d’altro canto la musica sembra giunta a un punto morto. Se è lecito affermare che, limitandosi alla discografia ufficiale, Jimi non fece mai un brutto disco (la maggior parte degli album, anzi, sono classici indiscussi) è vero anche che si trovò spesso a corto di buon materiale; nè lo stile nè i virtuosismi potevano salvarlo, in simili occasioni. Axis: Bold As Love, secondo LP, si limita a perfezionare il discorso di Are You Experienced; ancor più pecche mostra il doppio Electric Ladyland successivo.

Jimi sembra cercare nuovi mezzi espressivi, meno macchinosi e artificiosi, qualcosa di più organico capace di dar forma agli intrecci della sua chitarra e all’anarchia dei testi.

Solo con brani di altri autori (All Along the Watchtower, di Bob Dylan, Star Spangled Banner, l’inno nazionale americano rivisto in chiave distruttiva e non più celebrativa) l’artista riesce a dar libero sfogo a quel che gli vibra in mente.

L’Experience si scioglie alla fine del 1968; Jimi è molto deluso da come il progetto si sta sviluppando. Jeffrey e Chandler se ne sono già andati, nel gennaio di quell’anno fatale.

Da solo, Jimi sceglie la strada del ritiro; lontano da concerti e sale d’incisioni, preferisce il clima informale delle «apparizioni d’onore» e delle esibizioni non ufficiali, tra amici.

Scemata così la tensione, i suoi concerti acquistano nuova grinta. Ora Hendrix è ancora più restio che nel passato a cedere ad altri lo scettro del potere: una testimonianza di questa ritrovata energia è reperibile su DVD, con la registrazione del leggendario concerto del Capodanno 1970, al Fillmore East.

Sul fronte discografico, Jimi costruisce un nuovo studio, Electric Lady, apprestandosi a una serie di registrazioni per album futuri.

L’artista prende tempo, raccoglie le forze, aspetta di aver pronto del materiale dignitoso da offrire al pubblico. Dopo la festa d’inaugurazione dello studio, a New York, Jimi vola al di qua dell’Oceano per esibirsi al terzo Festival dell’Isola di Wight. E’ stanco, il complesso (che a quel punto comprendeva il vecchio compagno d’armi Billy Cox al basso) si sforza per quanto possibile ma il concerto risulta fiacco. Una breve tournée europea s’inceppa dalle parti della Germania e quando Cox si ammala, Jimi ritorna a Londra.

Sfinito, deluso, l’artista riesce egualmente a nutrire le speranze per il suo futuro, sente di aver toccato il fondo ma confidava di esser pronto per un rilancio.

Ma è troppo tardi.

Il 18 settembre 1970. un martedì, viene trovato privo di sensi nell’appartamento di un’amica, Monika Danneman. Il medico legale annota che la morte è dovuta a «soffocamento da intossicazione di barbiturici ». Nessuna traccia di suicidio, e dai nastri inediti che hanno continuato a venire alla luce non si può ricavare nessun elemento per una diversa ricostruzione dei fatti. Ogni prova di questo Jimi «incompiuto», ogni progetto sonoro mostra una vasta gamma di nuovi generi che l’artista si sforzava di far propri, dal jazz al soul a forme ancora più audaci, alla ricerca di un posto per sé e per la propria chitarra.

Di più, anzi; per cercare di toccare il cielo.

 
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Camillo Sbarbaro

Post n°1 pubblicato il 26 Giugno 2006 da rivedelfiume
 

Fosse vero che alla morte si giunge vivi! Si illude ancora chi dicendolo — e consegnandosi lo dice —almeno lì si crede in scampo.
Ci usiamo per strada. Tutti i giorni si muore. Già all’uomo il tumulto della gioventù appare ciò che allo spettatore, a scena spenta, la sua commozione. E presto, dinanzi allo stesso tumulto che in altri rinnova l’età, gli nasce il sorriso che è già del distacco.
Da allora la vita è un rumore che ogni anno più fioco gli giunge, quindi un ronzio di conchiglia che dal mare lo illude.
Finché della vita gli resta la notizia.
Intorno gli si restringe il mondo che non bastava. Compendiato in oggetti, ridotto a misura di passi, ancor grande glielo mostra la vista che per misericordia gli scema: troppo poco non gli appaia di colpo quello che presto gli avanza. Assediato dall’ombra, raggiunto dal freddo, per sentirsi ancora dei vivi, agli usi al linguaggio superstiti il vecchio si afferra. Sul suono che accoglie l’orecchio, il capo d’assenso tentenna; ma lui più non sa.
Volto al sole, l’ultimo amico, piega in ascolto del fiato; guardandosi i polsi dove il sangue giunge che una volta li urtava; pauroso si interrompa con la faticosa gugliata il filo che ancora lo trattiene a riva.
Ha gli occhi ormai color d’aria, finestre che dànno nel vuoto. Ed è in essi che scampa talora un ultimo sprazzo: esterno: bagliore di vetri al tramonto. É il guizzo del lume che lappola e pare un ammicco sinistro al mondo che arretra. Da chetarsi infine non resta che il succio dei labbri; rimasto a parodiare su una cannuccia il primo atto dell’esistenza.
Ma che fu l’urto al cuore che mi diede il canto destandomi? Nel mondo non ancora ricomposto un attimo la voce esistette sola; e a lei trasalii di ricordo come venisse a rinfacciarmi una parola data, un patto non tenuto; e non raccapezzavo quale. Così sull’antico tatuaggio stupisce l’uomo cui non evoca più nessun volto il nome stato scritto per sempre.
Appelli alla memoria, importuni, di oggetti meno labili di lei, superstiti a giorni che credemmo eterni e a noi fatti estranei come all’albero la foglia caduta!
Corta com’è, la vita dura da non parere talvolta che tutta ci appartenga; ci muta da non lasciarci riconoscere in qualche immagine che di noi si tramanda la fuga di specchi degli anni.

 
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