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DAL BLOG DI "BELLA CIAO"

«Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque é morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì  O giovani, col pensiero, perché lì é nata la nostra Costituzione.»

 

'O RANCO.

'O ranco.

L'ata notte 'nu ranco m'ha pigliato
d'int'a coscia 'nu nervo s'è 'nturzato;
e che dolore c'aggiu 'ntiso pe' chillu ranco
aggio ditto: - Obbi' lloco: mò jetto 'o sanghe!

M'aggio stiso a panza a sotto,
m'aggio levato a cuollo 'a cuperta,
sentevo 'o core ca quase me scuppiava,
me stevo fermo e 'o dulore nun passava.

Allora aggio penzato 'e m'aiza'
e buon'aggio fatto, me so miso a zumpa'.
'O dolore, pareva ca se ne steve jenne
mentr'je me mantenevo 'e llucche 'nganne.

E dint''o scuro, piglianno cunferenza c''a nuttata,
ll'uocchie mie, senza vule', una vutata
jettene a guarda' 'ncopp''o comodino
addo' sta 'na fotografia cu' tte che me tenive 'nzino.

Sarrà stato 'o fatto ca me tenive 'ncopp''o core
ma a me se ne ghiuto tutt''o dulore.
Ma n'ato ranco mo' me piglia 'mpietto
ogni vota che me guardo 'sto ritratto.

Claudio Galderisi

 

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'O CIURILLO

Tu si' comm'è nu' ciurillo appena fritto
che 'mmocca è 'ssapurito quando è cuotto
e mentre m' 'o magno e 'o stregno 'mmiez' 'e diente
chiudo 'll'uocchie e penzo a 'tte e so' cuntento.

Ciurillo mio chi si' je nun 'o ssaccio
saccio sulo che te chiammo ammore.
'Na lagrema me scenne 'ncopp' 'a faccia
pe 'stu ciurillo che m'astregne 'o core.

Claudio Galderisi

 

VICINO 'O MARE.

Taggia purta' vicino 'o mare,
addo' se sente addore,
addo' l'acqua pare ca se mette appaura
e j' a murì pe' ncopp' 'a rena.

T'aggia purta' là addo' stanno 'e scoglie
addo' l'acqua sbatte forte
e, jenne annanze e arrete,
'e veste e 'e spoglie.

Te voglio purta' là addo' tira 'o viento
che t'arriva dint' 'e capille
e t' 'e sposta annanz' 'a ll'uocchie
pecché t'ha da fa' dispietto.

Te voglio purta' 'e notte
quando ce sta 'a luna
grossa, chiena e argiento
ca se specchia 'nfaccia a te.

Te voglio purta' 'e juorno
quando ce sta 'o sole
e dint' 'a ll'uocchie tuoje
se vede 'o mare attuorno a me.

T'aggia purta' vicino 'o mare,
t'aggia tene' pe' mmane,
t'aggia dicere ddoje cose
pe nun te lassà cchiù.

Claudio Galderisi

 

FRASI E DETTI 3

Tanti galli a canta' e nun se fa maje juorno.

Indica le difficoltà che si incontrano laddove, in un insieme di persone, anziché far parlare uno rappresentativo di tutti, parlano in tanti. Questo comporta solo confusione e facili contraddizioni fra gli stessi componenti del gruppo.

 

 

Le Chiese di Napoli: San Nicola alla Carità

Post n°221 pubblicato il 16 Giugno 2013 da nonsolonero
 

Siamo in Via Roma, quell'arteria vivace, allegra e importante che fa della zona circostante un fulcro per il commercio cittadino e per la presenza turistica sempre numerosa. Tanti sono i palazzi meravigliosi e storici che cercheremo di visitare ma anche le chiese che si affacciano sulla strada con le loro linee barocche e le loro facciate ricche di movimento, sono altrettanto numerose.

Passeggiando lungo Via Roma, al numero civico 377 sul tratto ribattezzato Via Toledo, ci imbattiamo nella imponente facciata della chiesa di San Nicola alla Carità.

Essa, fu fondata nel 1647 in quanto i padri Pii Operai che prestavano una riconosciuta opera assistenziale, ricevettero una donazione di circa 6.000 ducati da un nobile dell'epoca e, con quei soldi, decisero di erigere un tempio.

Fu così che, su progetto di Onofrio Antonio Gisolfi, si diede inizio alla costruzione che però, nel 1656, si interruppe a causa della terribile epidemia di peste che colpì numerose città, fra le quali anche Napoli. Nel 1682, quando tutto tornò definitivamente alla normalità, l'opera riprese e fu portata a termine dal grande Cosimo Fanzago.

Nel settecento, seguendo un progetto di modernizzazione come si usava fare all'epoca, venne rifatta la facciata sulle indicazioni di un altro grande, Francesco Solimena. Poi, durante i dieci anni di presenza francese, la chiesa ospitò il Corpo del Genio e, nel 1843, la struttura venne restaurata da Guglielmo Turi.

All'interno abbiamo la disposizione a croce latina e tre navate; ai lati il percorso è arricchito da numerose cappelle. Una serie di affreschi a ciclo del Solimena caratterizza tutta la navata centrale e, sempre di questo artista, troviamo nei lunettoni la predica di san Paolo e di San Giovanni Battista del 1697.

L'entrata, è adornata da uno spettacolare dipinto che è intitolato San Nicola che allontana i demoni dall'albero del 1712, mentre dietro l'altar maggiore è allocato la Morte di San Nicola del 1707, opere entrambe di Paolo De Matteis. Sull'abside abbiamo l'altar maggiore in marmi policromi del 1743 eseguito da Antonio Troccola. La cupola è invece affrescata da Francesco De Mura.

Interessante la seconda cappella della navata destra detta "del Crocefisso" per via del crocefisso ligneo di fine Seicento, opera di Nicola Fumo, ivi conservato. Bellissimo il Transetto con un ciclo di affreschi di Alessio D'Elia che caratterizza la volta.
Ricordiamo anche che, in questa chiesa, è stato sepolto il pittore napoletano Bernardo Cavallino.
Sempre in questo tempio meraviglioso, ogni anno, durante il periodo natalizio, si possono osservare i presepi napoletani che vi vengono esposti. Sono stati lavorati finemente e sono oggetto di visita di migliaia di visitatori.
Visitare una chiesa così, in una città così, ha sempre un effetto particolare: quando, finita la visita, si torna fuori, l'atmosfera vivacissima della città, riesce a far decantare in una frazione di secondo tutto quanto si era riuscito ad accumulare di sacro e si ritorna a passeggiare fra negozi e vetrine, gente e bancarelle, ma nulla riesce a cancellare la sensazione di mistico che, dentro di noi, ci accompagnerà per tutto il resto della passeggiata.

 
 
 

Il presepe napoletano.

Post n°220 pubblicato il 11 Dicembre 2012 da nonsolonero
 
Tag: Presepe

Natale, momento sicuramente magico, diverso dagli altri momenti importanti dell'anno anche per uno come chi scrive, completamente avulso da credi religiosi. Ma Natale, sembra davvero il momento in cui ognuno cerca di ritrovare un po' se stesso, gli affetti famigliari, la gioia dei più piccoli, i doni, le buone intenzioni e... il presepe.

Napoli, è una delle grandi capitali mondiali dell'arte presepiale, un vero e proprio culto perpetrato e curato nei secoli. Il presepe è una rappresentazione ricca di simboli. Alcuni di questi provengono direttamente dal racconto evangelico e sono riconducibili al racconto del vangelo di Luca: la mangiatoia, l'adorazione dei pastori e la presenza di angeli nel cielo. Altri elementi appartengono ad una iconografia propria dell'arte sacra: Maria, ha un manto azzurro che simboleggia il cielo, San Giuseppe ha, in genere, un manto dai toni dimessi a rappresentare l'umiltà.

Ma, molti particolari scenografici nei personaggi e nelle ambientazioni del presepe non traggono ispirazione dai vangeli canonici bensì, da quelli apocrifi e da altre tradizioni. Tanto per citarne alcuni, il bue a l'asinello, simboli immancabili di ogni presepe, derivano dal cosiddetto protovangelo di Giacomo, o anche da un'antica profezia di Isaia che scrive "Il bue ha riconosciuto il suo proprietario e l'asino la greppia del suo padrone". Sebbene Isaia non si riferisse alla nascita del Cristo, l'immagine dei due animali venne utilizzata comunque come simbolo degli ebrei (rappresentati dal bue) e dei pagani (rappresentati dall'asino).

Anche la stalla o la grotta dove Maria e Giuseppe avrebbero dato alla luce Gesù non compare nei Vangeli canonici: sebbene Luca citi i pastori e la mangiatoia, nessuno dei quattro evangelisti parla esplicitamente di una grotta o di una stalla. In ogni caso a Betlemme, la Basilica della Natività sorge intorno a quella che è indicata dalla tradizione come la grotta dove nacque Gesù e anche quest'informazione si trova nei Vangeli apocrifi.

I Magi invece derivano dal Vangelo di Matteo e dal Vangelo armeno dell'infanzia. In particolare, quest'ultimo fornisce informazioni sul numero e il nome di questi sapienti orientali: il vangelo in questione fa i nomi di tre sacerdoti persiani (Melkon, Gaspar e Balthasar), anche se non manca chi vede in essi un persiano (recante in dono oro), un arabo meridionale (recante l'incenso) e un etiope (recante la mirra). Così i re magi entrarono nel presepe, sia incarnando le ambientazioni esotiche sia come simbolo delle tre popolazioni del mondo allora conosciuto, ovvero Europa, Asia e Africa. Anche il numero dei Magi fu piuttosto controverso. Esso, fu definitivamente stabilito in tre, come i doni da loro offerti, da un decreto papale di Leono I Magno, mentre prima di allora oscillava fra due e dodici.

A Napoli, anche nel presepe come in tante altre circostanze, alla tradizione dalla quale si è attinto a piene mani, si è aggiunta una buona dose di quella fantasia che tanto caratterizza il popolo di questa città. Cosicché, il presepe napoletano, per esempio, aggiunge alla scena molti personaggi popolari, osterie, commercianti e case tipiche dei borghi agricoli, tutti elementi palesemente anacronistici. Questa è comunque una caratteristica di tutta l'arte sacra, che, almeno fino al XX secolo, ha sempre rappresentato gli episodi della vita di Cristo con costumi ed ambientazioni contemporanee all'epoca di realizzazione dell'opera. Anche questi personaggi sono spesso funzionali alla simbologia. Ad esempio, il male è rappresentato nell'osteria e nei suoi avventori, mentre il personaggio di Ciccibacco, che porta il vino in un carretto con le botti, impersona il diavolo.

Ma andiamo a dare un'occhiata ai personaggi e ai simboli del presepe napoletano.

Incontriamo Benino che è un riferimento a quanto affermato nelle Sacre Scritture: “E gli angeli diedero l’annunzio ai pastori dormienti”. Il risveglio è considerato inoltre come rinascita. Infine Benino, nella tradizione napoletana, è anche colui che sogna il presepe e - sempre nella tradizione napoletana - guai a svegliarlo: di colpo il presepe sparirebbe!

Il pescatore è ritenuto simbolicamente il pescatore di anime. Il pesce fu il primo simbolo dei cristiani perseguitati dall’Impero Romano. Infatti il divieto di raffigurare Dio, applicato fino al III secolo, comportò la necessità di usare dei simboli per alludere alla Divinità. Tra questi c’era il pesce, il cui nome greco (ikthys) era acronimo di "Iesùs Kristhòs Theoù Yiòs Sotèr" (Gesù Cristo Figlio di Dio e Salvatore).

I due compari, zi’ Vicienzo e zi’ Pascale, sono la personificazione del Carnevale e della Morte. Infatti al cimitero delle Fontanelle in Napoli si mostrava un cranio indicato come “A Capa ‘e zi’ Pascale” al quale si attribuivano poteri profetici, tanto che le persone lo interpellavano per chiedere consigli sui numeri da giocare al lotto.

Il monaco viene letto in chiave dissacrante, come simbolo di un'unione tra sacro e profano che si realizza nel presepe napoletano.

Una giovane donna, con vesti rotte ma appariscenti è, invece, la zingara, un personaggio tradizionalmente in grado di predire il futuro. In questo caso la sua presenza è simbolo del dramma di Cristo poiché porta con sé un cesto di arnesi di ferro, metallo usato per forgiare i chiodi della crocifissione. Questo personaggio è perciò segno di sventura e dolore.

La giovane vergine che, quando nacque il Redentore, si incamminò verso la Natività per adorarlo, è Stefania. Bloccata dagli angeli che vietavano alle donne non sposate di visitare la Madonna, Stefania prese una pietra, l’avvolse nelle fasce, si finse madre e, ingannando gli angeli, riuscì ad arrivare al cospetto di Gesù il giorno successivo. Alla presenza di Maria, si compì un miracoloso prodigio: la pietra starnutì e divenne bambino. Ecco perché Santo Stefano si festeggia il 26 dicembre.

Poi, c'è il simbolo erotico per eccellenza, la meretrice, contrapposto alla purezza della Vergine. Essa, si colloca nelle vicinanze dell'osteria, in contrapposizione alla Natività che è alle spalle.

Nel presepe napoletano del ‘700 le varie attività lavorative rappresentano come in un'istantanea i principali commerci che si svolgono lungo tutto l'anno. Quindi è possibile interpretare arti e mestieri come personificazioni dei mesi seguendo questo schema: Gennaio macellaio o salumiere, Febbraio venditore di ricotta e formaggio, Marzo pollivendolo, Aprile venditore di uova, Maggio una donna che vende ciliegie, Giugno panettiere, Luglio venditore di pomodori, Agosto venditore di cocomeri, Settembre contadino o seminatore, Ottobre vinaio, Novembre venditore di castagne e Dicembre pescivendolo.

Un chiaro simbolo di passaggio è il ponte, ed è collegato alla magia. Alcune favole napoletane raccontano di tre bambini uccisi e seppelliti nelle fondamenta del ponte allo scopo di tenere magicamente salde le arcate. Rappresenta quindi un passaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Il forno, invece, è un evidente richiamo alla nuova dottrina cristiana che vede nel pane e nel vino i propri fondamenti, nel momento dell'Eucarestia, oltre a rappresentare un mestiere tipicamente popolare.

La presenza di una chiesa, come anche del crocifisso, testimonia l'anacronisticità del presepe napoletano che è ambientato nel ‘700.

L'osteria, riconduce, in primo luogo, ai rischi del viaggiare. Di contrasto, proprio perché i Vangeli narrano del rifiuto delle osterie e delle locande di dare ospitalità alla Sacra Famiglia, il dissacrante banchetto che in esse vi si svolge è simbolo delle cattiverie del mondo che la nascita di Gesù viene ad illuminare.

Ed ecco il fiume, l’acqua che scorre che è un simbolo presente in tutte le mitologie legate alla morte e alla nascita divina. Nel caso della religione cristiana, essa richiama al liquido del feto materno ma, allo stesso tempo, all'Acheronte, il fiume degli inferi su cui vengono traghettati i dannati.

Infine, come collegamento tra la superficie e le acque sotterranee, sui presepi napoletani troviamo il pozzo. La sua storia è ricca di aneddoti e superstizioni, che ne fanno un luogo di paura. Una su tutte, quella per la quale un tempo ci si guardava bene dall’attingere acqua nella notte di Natale perché si credeva che quell’acqua contenesse spiriti diabolici capaci di possedere la persona che l’avesse bevuta.

Oggi, alcuni pastorai producono anche pastori che rispecchiano le personalità dei nostri tempi, quindi non c'è da meravigliarsi se si trovano riproduzioni di volti famosi come quello di Totò, Troisi o altri nelle vetrine della caratteristica Via San Gregorio Armeno, nel centro antico di Napoli, che è famosa in tutto il mondo per la produzione artigianale di presepi. Sono lì presenti mostre permanenti e negozi artigiani, che permettono di comprare e quindi costruire il presepe personale a proprio piacimento.

Nel '700 il presepe napoletano visse la sua stagione d'oro. Uscì dalle chiese dove era stato oggetto di devozione religiosa, per entrare nelle case dell'aristocrazia e divenire oggetto di un culto ben più frivolo e mondano. Il presepe assume una sua configurazione ben precisa: le figure sono realizzate con manichini in filo metallico ricoperto di stoppa, le teste e gli arti sono in legno dipinto, che poi sarà gradualmente sostituito dalla terracotta policroma.

Re Carlo III di Borbone aveva una tal passione da partecipare personalmente e coinvolgere famiglia e corte nella realizzazione e vestizione di pastori e nel montaggio dell'enorme presepe del palazzo reale. Salito al trono di Spagna, portò con sé un grandissimo presepe e alcuni artigiani e diede così inizio anche in Spagna ad una tradizione d'arte presepiale.

Uno dei più limpidi esempi di presepe napoletano è dato dalla manifattura in terracotta con pezzi risalenti al XVIII Secolo che si trova nella sala Ellittica della Reggia di Caserta. Si tratta dell'allestimento ex novo, compiuto nel 1988, di quello che fu il presepe di Corte. Per la sua realizzazione sono stati utilizzati gli stessi materiali in uso all'epoca.

Nella tradizione di Corte, le figurine erano poste sul cosiddetto scoglio, una struttura di base in sughero sulla quale venivano organizzate scenograficamente i diversi momenti della Natività: l'Annuncio ai pastori, l'Osteria, il viaggio dei Re Magi, le scene corali con pastori e greggi. I sovrani borbonici fecero allestire l'ultimo loro presepe nella Sala della Racchetta facendo affrescare il soffitto a simulazione della volta celeste.

Ecco come il Goethe descrive il presepe napoletano durante il suo viaggio in Italia: « Ecco il momento di accennare ad un altro svago che è caratteristico dei napoletani, il Presepe. Si costruisce un leggero palchetto a forma di capanna, tutto adorno di alberi e di alberelli sempre verdi; e lì ci si mette la Madonna, il Bambino Gesù e tutti i personaggi, compresi quelli che si librano in aria, sontuosamente vestiti per la festa. Ma ciò che conferisce a tutto lo spettacolo una nota di grazia incomparabile è lo sfondo, in cui s'incornicia il Vesuvio coi suoi dintorni. »

Buon Natale a tutti.

 
 
 

I tesori del Duomo: la cappella di Santa Restituta.

Post n°219 pubblicato il 01 Settembre 2012 da nonsolonero
 

Santa Restituta è la più antica basilica paleocristiana di Napoli. Essa fu fondata nel IV secolo dall'imperatore Costantino, innalzata al posto di un tempio pagano dedicato ad Apollo. Inizialmente, fu consacrata al Salvatore poi, venne dedicata alla santa martire dopo che avvenne la traslazione del suo corpo alla fine dell'VIII secolo.

Santa Restituta è la patrona dell'Isola d'Ischia; si trattava di una giovane africana vissuta nel III secolo e martirizzata in seguito alla conversione alla religione cristiana.

L'agiografo Pietro Suddiacono, (X secolo), descrisse il processo, la condanna e il martirio della santa che, stremata dalle torture, fu posta su di una barca carica di stoppa, intrisa di resina e pece; quando questa fu portata al largo dai carnefici e data alle fiamme, la santa rimase illesa, mentre il fuoco annientò l'altra imbarcazione con i suoi occupanti. Restituta ringraziò il Signore, castigo degli empi, e invocò che un angelo la accompagnasse durante la traversata: esaudita, riconoscente domandò di accedere alla pace eterna e serenamente spirò.

Una tradizione ultramillenaria narra che la barca, guidata dall'angelo, approdò all'isola Aenaria, oggi detta Ischia, situata di fronte al golfo di Napoli, toccando terra nella località detta ad ripas, oggi San Montano. Viveva in quel luogo una matrona cristiana di nome Lucina: avvertita in sogno dall'angelo, si recò sulla spiaggia, dove trovò l'imbarcazione arenata e in essa il corpo intatto e splendente di Restituta. Radunata la popolazione, venne data solenne sepoltura alla martire nel luogo detto Eraclius, alle falde dell'attuale Monte Vico in Lacco Ameno, dove sono conservati i ruderi di una basilica paleocristiana e dove sorge oggi un santuario dedicato alla Santa. La leggenda racconta che quando la barca toccò la spiaggia, per miracolo questa si riempì di gigli bianchi: i gigli di Santa Restituta.

Il viaggio leggendario ha ispirato il poeta francese Alphonse de Lamartine, che compose nel 1842 Le lis du golfe de Santa Restituta dans l'ìle d'Ischia.

Ma torniamo alla chiesa. Essa, fu ristrutturata dagli Angioini nel Medioevo venendo, così, inglobata, come cappella, nella struttura gotica del duomo e perdendo completamente la facciata e due delle cinque navate che vennero trasformate in cappelle.

L'aspetto attuale della cappella di Santa Restituta è dovuto all'intervento dell'architetto Arcangelo Guglielmelli, che ne curò il restauro in seguito al terremoto del 1688, conferendole un aspetto scenograficamente teatrale.

Questa immensa cappella si presenta con pianta a croce latina, divisa in tre navate con cappelle. Guglielminelli progettò l'abside a calotta con il Cristo in mandorla, inserito in una finta prospettiva con panneggi, stucchi, angeli e volute in cartapesta che proseguono anche lungo la navata.

La navata centrale, delimitata da colonne in marmo e granito con capitelli di spoglio, è ritmata dalle ogive gotiche intervallate da tondi con le figure di Cristo, la Vergine e gli apostoli di Francesco De Mura. Sugli archi, come per tutto il perimetro della navata centrale, corre una cornice orizzontale sulla quale poggiano le finestre e i dipinti di Santolo Cirillo.

Il soffitto in cartapesta e tela, fa da cornice con le sue volute a un dipinto attribuito all'onnipresente Luca Giordano.

 
 
 

Villa Volpicelli, un tesoro del seicento.

Post n°218 pubblicato il 07 Luglio 2012 da nonsolonero
 

Sono davvero tanti in tutta italia, da Nord a Sud, che dal 1996 ad oggi, ogni sera, guardano con una discreta assiduità la soap-opera di Rai Tre, "Un posto al sole". Sono trascorsi sedici anni e finora sono state proposte più di 3500 puntate e, il programma continua a riscuotere successo.

Tutto ruota intorno alle vicende di più gruppi famigliari che vivono in un condominio. Amori, tradimenti, dolcezze, litigi, scenette, ironie, battibecchi, violenze, eroismi e quant'altro capita o può capitare nella vita di tutti i giorni.

Il condominio di cui parliamo, la location principale dove vengono girate l'ottanta per cento delle scene della sopa-opera, è quello che nella stessa viene identificato come "Palazzo Palladini" ma che, nella realtà, corrisponde a "Villa Volpicelli".

Si tratta, se non della più bella, di una tra le ville più belle di Posillipo. Si trova sulla Riva Fiorita, una località famosa di Posillipo per le residenze storiche e gli ottimi ristoranti.

La terrazza affaccia direttamente sul golfo di Napoli e, da essa, si gode un panorama straordinario, con Napoli che si delinea sulla sinistra nella sequenza di Mergellina, della Villa Comunale, di Via Caracciolo e di Castel dell'Ovo mentre, il Vesuvio, giganteggia sullo sfondo esattamente di fronte. A destra, il profilo di Capri conclude lo scenario non consentendo più alcun termine di paragone.

Nel fondale vicino alla villa sono state recentemente trovate antiche colonne greche e romane.

Villa Volpicelli è molto estesa e, proprio oltre la sua linea di confine a nord, vi sono i giardini di Villa Rosbery, la residenza ufficiale del Presidente della Repubblica a Napoli, della quale abbiamo già parlato in un altro post.

La struttura è immersa nel verde di un grande giardino dietro il muro di cinta e, tutto il complesso è davvero incantevole anche se, purtroppo, non è visitabile.

Villa Volpicelli attualmente incorpora alcune parti di quella che fu Villa Candia e Santacroce. La struttura viene menzionata nel 1629 da Baratta in “Veduta di Napoli” e nel 1656 viene indicata insieme al porto, che si trova sotto la villa, nella mappa di Napoli di Stopendael.

Successivamente, intorno al 1750, durante il regno dei Borbone, al porticciolo furono assegnati scopi militari, perciò intorno alla villa vennero costruiti alcuni magazzini.

Nel 1812, durante il regno di Gioacchino Murat, furono costruite sia la strada che passa per Posillipo che quella che permette di raggiungere il porticciolo. Infine, dopo l’unità d’Italia nel 1861, il porticciolo si decise di restituirlo alla sua vocazione originaria e cioè, come approdo di imbarcazioni da diporto.

Nel 1884 la villa fu acquistata da Raffaele Volpicelli da cui prese il nome. Il nuovo proprietario la restaurò riportandola al suo antico splendore, quello del XVII secolo. Il restauro terminò nel 1907.

Per un breve periodo, Villa Volpicelli, divenne bene demaniale. Oggi la villa è una proprietà privata ed è visitabile solo in occasione di alcuni eventi che vengono organizzati al suo interno come quello avvenuto il 30 maggio 2012 per esporre una nuova collezione del gioielliere Bulgari.

 
 
 

La Cripta del Duomo di Napoli.

Post n°217 pubblicato il 16 Giugno 2012 da nonsolonero
 

Il Duomo di Napoli, ospita le reliquie di San Gennaro che, dopo varie vicissitudini, vi furono definitivamente trasferite al termine della costruzione di una cripta, cominciata nel dicembre del 1497 e che si protrasse fino al 1506. Il Succorpo rappresenta la più grande opera del rinascimento napoletano.


Il Cardinale Oliviero Carafa commissionò questo immenso lavoro al comasco Tommaso Malvito che vi lavorò insieme al figlio Giovan Tommaso e ad altri artisti del tempo. I due artisti, scavarono un nuovo ambiente ritenendo questa l’unica soluzione per consentire loro di ospitarvi le meraviglie rinascimentali ivi ospitate. Il tutto fu ispirato alle tecniche architettoniche e decorative del Bramante.

L’accesso alla cripta è possibile grazie a due rampe, disegnate da Francesco Jerace e realizzate nella bottega dei Catello ad inizio ‘900. Poi, mediante un corridoio ellittico si giunge in un locale, diviso in tre navate da 10 colonne. Questo ambiente, misura 12 metri in lunghezza e 9 metri in larghezza ed è alto 4 metri. Il soffitto presenta 18 cassettoni, in ognuno dei quali è raffigurato un santo con quattro cherubini. Nelle formelle vengono raffigurati in bassorilievo la Madonna con il Bambino, San Pietro e San Paolo, gli Evangelisti, i Dottori della Chiesa e i sette patroni della città.
Su ogni lato trovano posto cinque nicchie, ognuna di esse dotata di un altare, e, in fondo, una piccola abside, dove sull'altare sono custodite le reliquie di san Gennaro. L’abside quadrangolare è coperto da una cupola decorata da ritratti in due medaglioni, mentre nell’intradosso delle finestre si possono notare degli angeli con lo stemma dei Carafa.

Il pavimento è in marmi policromi, studiato in modo che, con le sue geometrie, potesse richiamare lo stile cosmatesco. All’ingresso, vi è una meravigliosa statua del Cardinale Oliviero Carafa inginocchiato in adorazione, opera anch’essa di Tommaso Malvito. Le porte di bronzo sono risalenti al XVI secolo con i simboli dei Carafa.

 
 
 
 
 

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Un blog di: nonsolonero
Data di creazione: 31/01/2007
 
 

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VOCCA

Vocca rossa comm' 'a 'na cerasa
ca me pare 'nu fazzoletto 'e raso,
vocca che tira 'e vase a mille a mille,
che me fa canta' comm' è n'auciello.

Me faje canta' tutt' 'e canzone,
me faje sentì chino 'e furtune.
Vocca, ca me fa sbattere cchiù forte 'o core
quando me chiamme cu 'na parola sola: ammore.

Claudio Galderisi

 

DINT'A LL'UOCCHIE.

S'je te guardo dint'a ll'uocchie
belli, verdi e chiene 'e luce
je ll'auso comme specchie.

Chillo sguardo ch'è 'na freccia
chelli ciglie senza trucco
dint'o core fanno breccia.

Je te voglio tene' stretta
'e te' voglio sentì addore.

Fino a dimane, senza fretta,
voglio sta' cu tte a fa' ammore.

S'je te guardo dint'a ll'uocchie,
me succede all'improvviso,
ddoje parole nun l'accocchie;

ma me basta nu surriso,
nu surriso cu chist'uocchie
e me trovo 'mparaviso.

Claudio Galderisi

 

A MIO PADRE.

Se n'è gghiuto ormai ca so' nov'anni
e so' nov'anni ca è comme stesse 'cca'.

Se n'è gghiuto suffrenno e cu ll'affanni
'e 'na vita intera passata a fatica'.

Nun aggio fatto a tiempo a salutarlo,
a lle dicere, pe' l'urdema vota, "addio!",

e stu' pensiero pe' mme è comm' 'a nu tarlo
ca fatt' 'o fuosso dint' 'o core mio.

Però dint' 'a 'stu core 'nce stanno pure astipati
tutt' 'e ricordi che maje se ponno cancella'.

'Nce sta' l'espressione tutta mortificata
'e quanno mammema 'o faceva arraggia';

'nce sta 'o sorriso sotto a chillu baffetto
ca te faceva ridere pure si nun vulive;

'nce sta' chill'ommo, anche dal bell'aspetto
ca teneva sempe quanno se vesteva.

E chi 'o ssape mo' overo che me dicesse
si putesse turna' pe' n'attimo a parla',

si 'stu munno accussì fatto lle piacesse
o si se ne turnasse ambresso a parte 'e lla'.

E m'arricordo ancora e chella vota,
je piccerillo, cu 'na pizza mmano, mmiez' 'a via,

isso che diceva: "te vurria fa 'na foto".
Mai 'na pizza fuje accussì chiena 'e nustalgia.


Claudio Galderisi
(19 marzo 2007)

 

FRASI E DETTI.

E chesto te piace 'e fa'.

E' una espressione tipica per sottolineare un comportamento usuale, ancorché ripetitivo, della persona alla quale ci si sta rivolgendo, evidenziandone quindi la tendenza al godereccio a danno di altra attività più redditizia.


Quanno vid''o muorto, passaci che piede pe' 'ncoppa.

Il proverbio mette in guardia dall'essere troppo altruista e consiglia, in circostanze di una certa gravità, di farsi i fatti propri, per evitare di essere accusato ingiustamente.


Rispunnette a copp''a mano...

Espressione che manifesta l'immediatezza di una risposta a tono, durante una discussione.


Quanno si' 'ncudine, statte e quanno si' martiello, vatte.

Il proverbio consiglia di accettare gli insegnamenti e le eventuali sottomissioni quando si è allievi. Se mai si diventerà maestri o insegnanti si dovrà adoperare la stessa grinta nei confronti di altri.


A chisto ce manca sempe 'o sordo p'appara' 'a lira.

Si usa nei confronti di chi non da' mai l'impressione di avere tutto quello che gli serve per portare a termine un qualsiasi progetto.


Attacca 'o ciuccio addo' vo' 'o padrone.

Cerca di accontentare sempre i voleri del padrone.


'Na vota è prena, 'na vota allatta, nun' 'a pozzo mai vattere.

Il detto viene adoperato per indicare l'impossibilità di poter fare qualcosa, per le scuse ripetute e ripetitive, di chi dovrebbe aiutarti nell'operazione.


Fattella cu chi è meglio 'e te e refunnece 'e spese.

L'invito è a frequentare persone che si ritengono migliori di se stessi al fine di acquisirne i pregi e le virtù, anche sostenendo i costi dell'operazione, considerato il sicuro ritorno personale, sotto l'aspetto umano e formativo.


Ogni scarpa addiventa scarpone.

Purtroppo ognuno invecchia e questo, lo si dovrebbe tenere sempre bene a mente.


A chisto ce manca qualche viernarì.

Ci si esprime così nei confronti di chi assume atteggiamenti e comportamenti non sempre ritenuti ortodossi e che consentono, invece, di identificare nel soggetto una certa familiarità con istituti di recupero mentale.


Me pare 'nu speruto 'e carna cotta.

Si dice così di persona che dà l'impressione di desiderare sempre qualcosa, anche quelle che difficilmente può non avere. Si pone quindi in una condizione tale da apparire come un soggetto che vorrebbe avere, non tanto quello che non ha, ma quello che hanno gli altri.


Secondo me, tu si gghjuto ca' capa 'nterra.

Frase che si adopera nei confronti di chi, con il suo comportamento, dimostra di non essere al meglio delle sue capacità psico-fisiche nonché mentali.

 

FRASI E DETTI 2.

So' gghiuto pe' truva' aiuto e aggio trovato sgarrupo.

Lo dice chi, trovandosi in una situazione complicata, cerca conforto in qualcuno con l'intenzione di risollevarsi moralmente. Con sommo stupore scopre, invece, che la persona alla quale si è rivolto vive una condizione ancora peggiore della sua, cosa questa che causa il suo definitivo scoramento.


Chi 'nfraveca e sfraveca nun perde maje tiempo.

Chi si dà da fare nel tentare e ritentare di risolvere un problema o di portare a termine un lavoro, difficilmente impiega male il suo tempo.


S'ha 'dda' mantene' 'o carro p''a scesa.

Bisogna fare adesso dei sacrifici per poter poi raccogliere gli attesi e meritati risultati positivi.


Va e vvene p' 'a sciassa che tene.

Si comporta così, chi è mosso da uno strano e frettoloso andirivieni che non produce nulla di costruttivo. Ragion per cui costui, viene assimilato a chi, in preda a spasmi diarreici, occupa ripetutamente, a intervalli più o meno regolari, la stanza da bagno.


Vott' 'a pretella e nasconne 'a manella.

Si dice di persona birichina e furbetta che riesce a mascherare molto bene le sue malefatte, mimetizzando tutte le eventuali prove che potrebbero incolparlo.

 


'E perzo chesto, chello e Mariastella.

A furia di tirar troppo la corda, spesso si finisce col perdere, sia quello che si tentava di conquistare, che quello che già si possedeva.


Cu 'n'uocchio guarda 'a gatta e cu n'ato frije 'o pesce.

Vale per chi è impegnato contemporaneamente nello svolgimento di due o più mansioni. L'attenzione, ovviamente, risulta ripartita e, di conseguenza, indebolita in ognuna delle operazioni. Questo può comportare un risultato non sempre ottimale o, comunque, non rispondente alle aspettative.


'E vuttato a mare 'll'acqua sporca cu tutt''a criatura.

Espressione limpidissima che si adopera nei confronti di chi, semplicisticamente, affronta un argomento senza utilizzare i dovuti distinguo e, pur riuscendo a individuare ciò che risulta esecrabile, non riesce a dividere da questo ciò che va salvato. Si ritrova il senso di questo detto nell'italianissimo "hai fatto di tutta l'erba, un fascio".


Da quando è morta 'a criatura, nun simme cchiù cumpari.

Lo si usa quando, venendo a mancare alcuni presupposti, si ha l'impressione che, i rapporti intessuti precedentemente con altri soggetti, si siano indeboliti al punto da ridurre drasticamente le frequentazioni fra gli interessati.

 
 

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