Napoli

tutto quello che riguarda la città partenopea

 

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DAL BLOG DI "BELLA CIAO"

«Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque é morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì  O giovani, col pensiero, perché lì é nata la nostra Costituzione.»

 

'O RANCO.

'O ranco.

L'ata notte 'nu ranco m'ha pigliato
d'int'a coscia 'nu nervo s'è 'nturzato;
e che dolore c'aggiu 'ntiso pe' chillu ranco
aggio ditto: - Obbi' lloco: mò jetto 'o sanghe!

M'aggio stiso a panza a sotto,
m'aggio levato a cuollo 'a cuperta,
sentevo 'o core ca quase me scuppiava,
me stevo fermo e 'o dulore nun passava.

Allora aggio penzato 'e m'aiza'
e buon'aggio fatto, me so miso a zumpa'.
'O dolore, pareva ca se ne steve jenne
mentr'je me mantenevo 'e llucche 'nganne.

E dint''o scuro, piglianno cunferenza c''a nuttata,
ll'uocchie mie, senza vule', una vutata
jettene a guarda' 'ncopp''o comodino
addo' sta 'na fotografia cu' tte che me tenive 'nzino.

Sarrà stato 'o fatto ca me tenive 'ncopp''o core
ma a me se ne ghiuto tutt''o dulore.
Ma n'ato ranco mo' me piglia 'mpietto
ogni vota che me guardo 'sto ritratto.

Claudio Galderisi

 

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'O CIURILLO

Tu si' comm'è nu' ciurillo appena fritto
che 'mmocca è 'ssapurito quando è cuotto
e mentre m' 'o magno e 'o stregno 'mmiez' 'e diente
chiudo 'll'uocchie e penzo a 'tte e so' cuntento.

Ciurillo mio chi si' je nun 'o ssaccio
saccio sulo che te chiammo ammore.
'Na lagrema me scenne 'ncopp' 'a faccia
pe 'stu ciurillo che m'astregne 'o core.

Claudio Galderisi

 

VICINO 'O MARE.

Taggia purta' vicino 'o mare,
addo' se sente addore,
addo' l'acqua pare ca se mette appaura
e j' a murì pe' ncopp' 'a rena.

T'aggia purta' là addo' stanno 'e scoglie
addo' l'acqua sbatte forte
e, jenne annanze e arrete,
'e veste e 'e spoglie.

Te voglio purta' là addo' tira 'o viento
che t'arriva dint' 'e capille
e t' 'e sposta annanz' 'a ll'uocchie
pecché t'ha da fa' dispietto.

Te voglio purta' 'e notte
quando ce sta 'a luna
grossa, chiena e argiento
ca se specchia 'nfaccia a te.

Te voglio purta' 'e juorno
quando ce sta 'o sole
e dint' 'a ll'uocchie tuoje
se vede 'o mare attuorno a me.

T'aggia purta' vicino 'o mare,
t'aggia tene' pe' mmane,
t'aggia dicere ddoje cose
pe nun te lassà cchiù.

Claudio Galderisi

 

FRASI E DETTI 3

Tanti galli a canta' e nun se fa maje juorno.

Indica le difficoltà che si incontrano laddove, in un insieme di persone, anziché far parlare uno rappresentativo di tutti, parlano in tanti. Questo comporta solo confusione e facili contraddizioni fra gli stessi componenti del gruppo.

 

 

Agnano e il suo lago.

Post n°211 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da nonsolonero
 
Tag: Agnano

Appena fuori dall'abitato di Fuorigrotta, laddove ci si addentra in pieno in quello scenario di vulcani spenti e attivi che vengono denominati "Campi Flegrei", si apre la splendida conca di Agnano, ancora ricca di verde nonostante l'aggressione dell'uomo, ancora affascinante e, per alcuni aspetti, misteriosa.

Agnano, è la famosa località di Napoli con l'ippodromo, dove viene svolta annualmente una delle più importanti corse di cavalli al mondo, collegata alla lotteria che regala milioni di euro al fortunato vincitore.

Ma Agnano, è famosa anche per la sede di uno degli stabilimenti termali più antichi dove confluiscono le acque che, gli antichi romani, usavano per curarsi tutte le tipologie di mali. Essi, però, ne fruivano sulla costa puteolana dove comunque, queste acque, pure avevano altre fuoriuscite.

Ad Agnano, invece, nel tempo, si era formato un immenso lago, grande quanto tutto il cratere che oggi ammiriamo. Esso è stato lì per oltre 800 anni.

Un lago, pensate un po', un lago enorme alle porte di Napoli. Esso, venne prosciugato nel 1870, operazione inserita in una serie di quelle che da sud a nord, dovevano portare bonifica in varie zone del Paese e che facevano parte di quelle iniziative che, dopo l'unità d'Italia, dal 1861 fino all'inizio del '900, dovevano servire a modernizzare la nazione.

Il Regno d'Italia decise di prosciugare il lago d'Agnano per motivi igienici. Infatti, complici le acque limacciose, attecchiva la zanzara anofele che provocava la malaria negli abitanti della zona. Inoltre, nel lago, si effettuava anche la macerazione della canapa che produceva miasmi insopportabili che spesso raggiungevano Napoli e Pozzuoli.

Fu un ordine di Re Carlo II d'Angiò a costringere i lavoratori della canapa e del lino a trasferire la macerazione di questi prodotti nel lago di Agnano. Nella capitale, questo tipo di lavorazioni, come si potrà immaginare, producevano degli effetti insostenibili e insopportabili per gli abitanti, pertanto, il monarca decise di portare via dal centro cittadino le attività di questo genere.

Il lago, quindi, nel tempo si ammalò e il governo del giovane Regno d'Italia, decise di inserirlo fra le opere di bonifica e di prosciugarlo. In questa operazione, si diede prova di grande efficienza: l'intervento fu portato a termine in tempi rapidi e in maniera esemplare. Il progetto, affidato all'ingegner Mendia prevedeva un emissario lungo 1463 metri che, attraverso la costruzione di un traforo, raggiungeva la spiaggia di Bagnoli.

Il canale fu aperto il 28 settembre 1870 e, in poche ore, prosciugò il lago! Le acque defluirono in mare e subito dopo fu avviato l'intervento di bonifica del suolo che permise all'agricoltura partenopea di recuperare 130 ettari di terreno ubertoso.

Ma le sorprese non erano finite. Una volta prosciugato il lago, fra le crepe del suolo, si vedeva venir fuori dell'acqua da più parti. Questa, molto velocemente, formò decine di pozze e, in alcune zone della conca, veniva fuori in grossi getti intermittenti, come i geyser.

Tutte le fonti dell'acqua di Agnano che, per secoli, erano rimaste sepolte sotto il lago, adesso tornavano di nuovo a brillare sotto il sole, mostrando uno dei bacini idrici più ricchi del mondo. Furono contate settantacinque fonti, con acque tutte diverse l'una dall'altra e tutte con altissime qualità terapeutiche.

Fu un ungherese, un certo Giuseppe Schneer, ad avviare a Napoli una campagna di utilizzazione delle acque di Agnano. Questo medico, decise di utilizzarle a fini terapeutici e, nel 1888, ottenne l'appoggio delle autorità cittadine, della classe medica partenopea, dei giornali e del mondo culturale.

Nel 1904, furono costruiti i primi camerini in muratura e, nel 1909, fu costituita la società di gestione che realizzò i nuovi fabbricati tutti in stile liberty che diedero per la prima volta all'insieme l'aspetto di un vero stabilimento termale.

Dopo la prima guerra mondiale, fu realizzato il grande salone dei concerti e, nel 1931, il fabbricato per le cure dei fanghi mentre i camerini arrivarono a 270. Le Terme di Agnano sorgono adesso, dove prima c'era un lago, un lago immenso alle porte di Napoli.

 
 
 

Piazza della Vittoria.

Post n°210 pubblicato il 27 Agosto 2011 da nonsolonero
 

Quante volte ci siamo ritrovati a passeggiare per le belle zone di Via Caracciolo, della Villa Comunale e della Riviera di Chiaia. Ebbene, la maggior parte di chi si ritrova a visitare quelle zone, non immagina nemmeno lontanamente che, nel '600, questi luoghi, in parte coperti dal mare, formavano un borgo fuori le mura della città, abitato da poveri pescatori e chiamato appunto Borgo di Chiaia. A detta di alcuni, "chiaia" dovrebbe essere la corruzione che nel tempo ha subito il vocabolo spagnolo "plaja", cioè spiaggia, quello che c'era al posto della bella strada attuale.

Proprio in questo borgo, fu eretta una chiesa per ricordare una grande vittoria della cristianità: all'epoca (e non solo) ci tenevano molto a queste cose. Infatti, nel 1571, la flotta turca spadroneggiava ormai in tutto il Mediterraneo e, papa Pio V, per fronteggiare la minaccia, promosse una lega alla quale aderirono Venezia, Firenze, la Spagna, l'Austria e Napoli.

Fu così allestita una flotta di 243 unità con 75.000 uomini, tra vogatori e combattenti, così composta: 120 galee veneziane, 75 legni spagnoli, 30 galee napoletane, 12 galee pontificie, 3 galee del duca di Savoia, 3 galee dei Cavalieri di Malta. Il comando fu affidato a don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Carlo V.

Il 7 ottobre 1571, prima domenica del mese, all'imboccatura del golfo di Lepanto, la flotta della lega santa si scontrò con quella turca forte di ben 222 galee e 60 galeotte, equipaggiate con 90.000 uomini, al comando di Alì Pascià.

La battaglia fu aspra e cruenta e si protrasse fino a mezzogiorno con la completa disfatta dei turchi che salvarono soltanto una cinquantina di galee. Di tutto il resto, i cristiani fecero man bassa, distruggendo e ammazzando senza alcuna pietà, bruciando 90 legni e catturandone altri 150 insieme a 5.000 prigionieri tra i quali due figli di Alì Pascià, che rimase ucciso nella battaglia. Furono più di 30.000 i turchi che persero la vita nello scontro che, se non fosse stato vinto - questo bisogna ammetterlo - forse, a mezzogiorno di tutti i giorni, ognuno di noi si sarebbe dovuto appecoronare verso La Mecca.

Anche i cristiani persero, comunque, 15 galee e più di 8.000 uomini. Fra questi, perse la vita anche il provveditore generale della flotta veneta, Agostino Barbarigo.

Grazie a questa vittoria, Pio V istituì nella prima domenica di ottobre di ogni anno, la festa del Santissimo Rosario. Ancora oggi, dopo quattro secoli e mezzo, la prima domenica di ottobre si ringrazia la Vergine per la vittoria della battaglia di Lepanto.

Ma, per quanto riguarda Napoli, la figlia di don Giovanni d'Austria, Giovanna, fece iniziare nel Borgo di Chiaia, la costruzione della chiesa che, per la morte della promotrice, fu portata a termine solo nel 1646 dalla figlia Margherita. La chiesa di Santa Maria della Vittoria, incorporata, ora, in un fabbricato, dà una parte del suo nome alla località: Piazza della Vittoria.

 
 
 

Piazza del Plebiscito.

Post n°209 pubblicato il 06 Agosto 2011 da nonsolonero
 

L'immensa piazza si trova ai piedi della collina di Pizzofalcone, da cui il nome del pittoresco quartiere. Si presenta elegante, scenografica, monumentale, panoramica e dai chiari connotati storici. Precedentemente, era solo composta da un'apertura prospiciente la facciata di Palazzo Reale, e venne denominata Largo di Palazzo. Poi, verso la fine del Settecento, fu fu costruito Palazzo Salerno e, fra il 1809 e il 1815 il Palazzo della Prefettura e il portico a emiciclo di ordine dorico che include la Basilica di San Francesco di Paola.

Il portico, voluto da Gioacchino Murat, fu completato pochi anni dopo la monumentale basilica, quest'ultima eretta per volontà di Ferdinando I in adempimento a un voto per la riconquista del regno di Napoli. La chiesa domina la piazza con il suo imponente prospetto neoclassico e la sua grande cupola che si solleva sull'alto tamburo cilindrico. Un pronao a sei colonne e due pilastri ionici, sormontato da un timpano triangolare, precede la facciata della chiesa.

Sul lato opposto, verso il mare, fa da sfondo alla piazza la lunga facciata del Palazzo Reale, costruito nel 1600-02 da un progetto di Domenico Fontana per ordine del vicerè Ferrante di Castro. Risalgono alla costruzione originale la facciata sulla piazza - sebbene le arcate del portico siano state alternativamente riempite ad opera del Vanvitelli, per motivi statici, sul finire del Settecento - e il cortile d'onore. Il resto del palazzo fu dapprima trasformato da Gioacchino Murat e Carolina Bonaparte con l'aggiunta di decorazioni e di arredi neoclassici, in parte provenienti dalle Tuileries. In seguito fu restaurato, dopo un incendio, da Ferdinando II. Proprio questo monarca, arricchì di decorazioni lo scalone monumentale e, nel 1837, realizzò il giardino pensile sul fronte meridionale.

Al centro della piazza, nei punti focali dell'ellisse, sono collocate le due statue equestri, in bronzo, di Carlo III di Borbone, capostipite della casata - opera di Antonio Canova - e del figlio Ferdinando I.

Particolarmente scenografico è lo scorcio sul Vesuvio quando, fra il Palazzo Salerno e il Palazzo Reale, ci si affaccia dalla balaustra: semplicemente meravigliosa la veduta. Il vulcano offre tutto se stesso in tutte le stagioni e sembra adattarsi ad esse: buio e minaccioso col tempo piovoso, brillante e luminoso nelle giornate di sole, addirittura con la cima imbiancata di neve nelle fredde giornate invernali.

La piazza fu per secoli uno slargo irregolare, teatro di feste popolari attorno alle cosiddette macchine da festa, che venivano periodicamente innalzate da grandi architetti.

Solo dall'inizio del Seicento in poi fu gradatamente "regolarizzata", anche a causa della costruzione del nuovo Palazzo Reale. A questa graduale trasformazione si successero, dalla metà del Settecento, come già detto, gli interventi sempre più radicali, attuati dagli architetti che lavoravano sulla vicina residenza reale.

Tradizionalmente ogni anno nel periodo natalizio sono installate al centro della piazza opere di  arte contemporanea, spesso discusse per la loro eccentricità. Tra gli artisti che hanno esposto negli ultimi anni si citano Mimmo Paladino, Richard Serra, Rebecca Horn, Luciano Fabro.

La piazza è sempre disponibile per trasformarsi in un magnifico e scenografico teatro all'aperto in occasione dei numerosi concerti che vi si sono tenuti e che vi si tengono. Si sono esibiti qui Pino Daniele, Massimo Ranieri, Elton John, Paul McCartney, o illustri  tenori come Andrea Bocelli e José Carreras.

Vale la pena inoltre ricordare che nel 1921, nella Basilica di San Francesco di Paola, furono svolti i funerali del grande Enrico Caruso.

E adesso, perdonatemi ma, ho un appuntamento con un caffè al Gambrinus e... non vorrei arrivare in ritardo.

 
 
 

Partenope canta ancora.

Post n°208 pubblicato il 02 Luglio 2011 da nonsolonero
 

Partenope è il nome mitologico di una sirena, sapete quelle che venivano raffigurate con un corpo la cui parte inferiore era come quello di un uccello poi riproposto come quello di un pesce; la parte superiore, invece, è sempre stata quella di una donna. Nel caso di Partenope, il suo mito nasce dalla tradizione di un popolo di origine greca, i rodii, residente sulle coste del golfo di Napoli nel lontano III secolo a.C

Partenope, veniva ritenuta da costoro la più bella sirena del golfo. Pare che la sirena in questione sia morta nel luogo in cui oggi sorge Castel dell'Ovo e proprio lì sia stata sepolta una dei patroni di Napoli, Santa Patrizia.

Partenope viene raccontata da Omero nell'Odissea in compagnia di altre due sirene, Ligia e Leucosia. Ma è da Partenope che proviene l'antico nome di Napoli, quella che inseguì Ulisse reo di non aver ceduto alle lusinghe del suo bel canto. E lo inseguì fino all'isolotto di Megaride, dove appunto attualmente c'è il Castel dell'Ovo, per lì arenarsi e morire affranta dal dolore arrecatole dal rifiuto dell'eroe di cedere al suo bel canto.

A quanto pare, però, Partenope non muore del tutto. La passione principale nella città della sirena è probabilmente proprio il canto. Appena si arriva a Napoli con il treno, proprio sotto la stazione centrale, a margine del binario n.24, vi è una graziosa fontana, illuminata da un foro sul tetto della stazione. Essa rappresenta la sirena Partenope al centro della fontana e, sotto di essa, fra gli zampilli d'acqua, su di una lapide sono riportati i versi di una famosissima canzone napoletana: ...'o treno steva ancora dint''a stazione / quanno aggio 'ntiso 'e primmi mandulini...

A Napoli, sono certo che si è cominciato a cantare nella notte dei tempi, quando la città emetteva i primi vagiti e, insieme ad essi, qualche nota e qualche accenno alla musica. La musica è innata in chi ha qualcosa da trasmettere e, chi fà musica è un artista perché riesce a trasmettere emozioni agli altri. Da quei tempi ad oggi, Napoli si è dotata di un numero straordinario di canzoni e strofe musicate, arie e poesie cantate, filastrocche e canzoncine folcloristiche.

Accompagna tutto ciò, una musica a volte languida e struggente, a volte ritmata e piena di energia. Abbiamo così meravigliosi brani scritti da grandissimi autori e balli magici e frenetici come la tarantella che viene ballata in ogni angolo del mondo.

La canzone napoletana si sviluppò già nel Quattrocento quando la lingua napoletana divenne la lingua ufficiale del regno e numerosi musicisti, ispirandosi ai cori popolari, iniziarono a comporre farse, frottole e ballate che, al contrario di quelle dei nostri politici attuali, all'epoca, facevano solo ridere e divertire.

Poi, alla fine del Cinquecento, prese piede la cosiddetta "villanella" che conquistò letteralmente l'Europa fino a tutto il Settecento. Questa espressione artistica popolare era allora carica di contenuti positivi ed ottimistici e raccontava la vita, il lavoro ed i sentimenti popolari.

Ma il periodo d'oro della canzone napoletana arriva nell'800. Dal 1835 a Napoli dilagò la melodia di "Te voglio bene assaje" e le celebrazioni della Festa di Piedigrotta si dimostrarono l'occasione ideale per l'esibizione dei nuovi pezzi, che videro tra gli autori personalità quali Salvatore di Giacomo, Libero Bovio, Giovanni Gaeta detto E.A. Mario, Ferdinando Russo e Ernesto Murolo.

Il testo di Te voglio bene assaje fu scritto da Raffaele Sacco e musicato da Filippo Campanella. I due non immaginavano nemmeno che avevano appena posato la pietra miliare del grande edificio che fu poi innalzato con le canzoni e le melodie napoletane con le quali continuarono a cimentarsi autori locali, nazionali e stranieri.

Ad essa seguirono gli altri grandi classici della musica napoletana ottocentesca e così ci furono regalate Santa Lucia, Funiculì funiculà, Marechiare, Era de maggio, Scetate, Comme te voglio amà, 'E spingole frangese, Lariulà, Catarì, 'A vucchella (sul testo di Gabriele d'Annunzio si impegnò per la musica Francesco Paolo Tosti), Carcioffolà, Serenata napulitana, 'O sole mio (autori Di Capua e Capurro, credo la più famosa canzone a livello planetario, cantata e suonata in tutto il mondo, ritenuto da tanti il vero inno italiano), Maria Marì, Palummella zompa e vola (questa, fu addirittura proibita per i suoi evidenti contenuti sovversivi, poiché alludeva alla libertà, ed infatti gli autori ne cambiarono il testo, ma il popolo napoletano continuò a cantarne la musica a bocca chiusa).

Ce ne sarebbero tante, tantissime altre da menzionare ma l'obiettivo del post era quello di ripercorrere in maniera fugace i motivi che hanno portato Napoli a diventare la città dove la musica cantata è nata e, i suoi abitanti, quelli che meglio l'hanno interpretata nel tempo.

Siamo partiti da Partenope che, per amore e per una canzone, si arenò su uno scoglio e lì morì. Almeno così si dice, lì morì. Ma io non credo: ho sempre avuto l'impressione che Partenope viva ancora, leggiadra e veloce come un pesce nell'acqua, bella e sinuosa come una donna innamorata, testarda e sensibile come tutti i napoletani che amano questa città, consapevoli di non poterne tradire mai la storia e le origini e fieri di appartenerle.

Partenope, sono certo, non è morta: Partenope canta ancora.

 
 
 

Il risanamento e il rione Vasto.

Post n°207 pubblicato il 11 Giugno 2011 da nonsolonero
 

Nel 1884, scoppiò una violenta epidemia di colera e, proprio per questo motivo e per fare in modo da porre una volta e per sempre Napoli in condizioni igienico-sanitarie migliori, da parte del governo nazionale partì il progetto del "risanamento".

Il 15 gennaio 1885, fu approvata la legge che però, per vederla attuare, si dovette aspettare altri quattro anni.

Il 15 giugno 1889, finalmente, si diede il via a questa grande opera bonificatrice, con tanto di cerimonia inaugurale dei lavori che si svolse nell'attuale Piazza Borsa e, il cui ricordo, è immortalato su una lapide affissa sulla facciata del palazzo che fa da sfondo alla piazza, sul suo angolo sinistro, quello che si incrocia con Via De Pretis.

Napoli fu sventrata e, per buona parte, ricostruita. Nell'immensa area fra Piazza Municipio e l'attuale Piazza Garibaldi, furono abbattuti costruzioni fatiscenti, vicoli, palazzi malsani, fondaci e budelli. Al loro posto, furono pensate e realizzate nuove direttrici, grandi strade e maestosi palazzi.

In quell'occasione fu costruito il bel palazzo dell'università Federico II e si sistemò la grande piazza davanti la stazione centrale dei treni che prese il nome di Piazza Giuseppe Garibaldi dopo l'installazione del monumento all'eroe dei due mondi.

La Società per il Risanamento di Napoli che aveva il compito di abbattere e ricostruire secondo i criteri assegnatele, edificò su nuove aree abitazioni a prezzo ridotto, da destinare alle famiglie che si videro demolire l'abitazione.

Venne così fuori un nuovo grande Rione in un'area compresa fra Piazza Garibaldi, Piazza Carlo III, l'Arenaccia e il Ponte di Casanova. La zona, che era costituita da paludi, fu prima bonificata e poi vi si costruì seguendo le direttive del piano regolatore della città che prevedeva, a oriente, un nuovo rione con strade parallele, orizzontali e verticali che si incrociavano ad angolo retto.

Questo nuovo rione venne chiamato Vasto molto probabilmente perché, originariamente, i luoghi erano di proprietà della Casa d'Avalos, dei Marchesi del Vasto.

Anche la toponomastica della zona, si rifece all'orgoglio dell'Unità d'italia che allora pervadeva la penisola e così, le strade furono intitolate a svariate città, infatti abbiamo rappresentate: Firenze, Venezia, Padova, Milano, Torino, Bari, Palermo, Parma, Brindisi, L'Aquila, Chieti, Otranto, Foggia, Ferrara, Novara, Bologna Salerno ed altre. Una strada fu chiamata Via Nazionale e, la piazza nella quale sbocca, Piazza Nazionale che fino alla fine degli anni venti dello scorso secolo, fu sede del mercato ortofrutticolo.

In questo Rione, alla via Brindisi, in un basso, sono nato io e vi sono rimasto fino all'età di tre anni per poi passare in un appartamento della perpendicolare Via Bari dove ancora risiede la mia vecchia mamma.

Ancora oggi, quando vi torno, nonostante i tanti cambiamenti, riesco ancora a fermare lo sguardo su quelle cose che sono rimaste intatte, com'erano e dov'erano, e con la mente torno a quando ragazzino, aspettavo la sera per giocare al pallone nello spiazzo di Piazza Salerno; il tramonto tramortiva il brulicante traffico della zona e un lampione illuminava le nostre partite.

 
 
 
 
 

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Un blog di: nonsolonero
Data di creazione: 31/01/2007
 
 

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VOCCA

Vocca rossa comm' 'a 'na cerasa
ca me pare 'nu fazzoletto 'e raso,
vocca che tira 'e vase a mille a mille,
che me fa canta' comm' è n'auciello.

Me faje canta' tutt' 'e canzone,
me faje sentì chino 'e furtune.
Vocca, ca me fa sbattere cchiù forte 'o core
quando me chiamme cu 'na parola sola: ammore.

Claudio Galderisi

 

DINT'A LL'UOCCHIE.

S'je te guardo dint'a ll'uocchie
belli, verdi e chiene 'e luce
je ll'auso comme specchie.

Chillo sguardo ch'è 'na freccia
chelli ciglie senza trucco
dint'o core fanno breccia.

Je te voglio tene' stretta
'e te' voglio sentì addore.

Fino a dimane, senza fretta,
voglio sta' cu tte a fa' ammore.

S'je te guardo dint'a ll'uocchie,
me succede all'improvviso,
ddoje parole nun l'accocchie;

ma me basta nu surriso,
nu surriso cu chist'uocchie
e me trovo 'mparaviso.

Claudio Galderisi

 

A MIO PADRE.

Se n'è gghiuto ormai ca so' nov'anni
e so' nov'anni ca è comme stesse 'cca'.

Se n'è gghiuto suffrenno e cu ll'affanni
'e 'na vita intera passata a fatica'.

Nun aggio fatto a tiempo a salutarlo,
a lle dicere, pe' l'urdema vota, "addio!",

e stu' pensiero pe' mme è comm' 'a nu tarlo
ca fatt' 'o fuosso dint' 'o core mio.

Però dint' 'a 'stu core 'nce stanno pure astipati
tutt' 'e ricordi che maje se ponno cancella'.

'Nce sta' l'espressione tutta mortificata
'e quanno mammema 'o faceva arraggia';

'nce sta 'o sorriso sotto a chillu baffetto
ca te faceva ridere pure si nun vulive;

'nce sta' chill'ommo, anche dal bell'aspetto
ca teneva sempe quanno se vesteva.

E chi 'o ssape mo' overo che me dicesse
si putesse turna' pe' n'attimo a parla',

si 'stu munno accussì fatto lle piacesse
o si se ne turnasse ambresso a parte 'e lla'.

E m'arricordo ancora e chella vota,
je piccerillo, cu 'na pizza mmano, mmiez' 'a via,

isso che diceva: "te vurria fa 'na foto".
Mai 'na pizza fuje accussì chiena 'e nustalgia.


Claudio Galderisi
(19 marzo 2007)

 

FRASI E DETTI.

E chesto te piace 'e fa'.

E' una espressione tipica per sottolineare un comportamento usuale, ancorché ripetitivo, della persona alla quale ci si sta rivolgendo, evidenziandone quindi la tendenza al godereccio a danno di altra attività più redditizia.


Quanno vid''o muorto, passaci che piede pe' 'ncoppa.

Il proverbio mette in guardia dall'essere troppo altruista e consiglia, in circostanze di una certa gravità, di farsi i fatti propri, per evitare di essere accusato ingiustamente.


Rispunnette a copp''a mano...

Espressione che manifesta l'immediatezza di una risposta a tono, durante una discussione.


Quanno si' 'ncudine, statte e quanno si' martiello, vatte.

Il proverbio consiglia di accettare gli insegnamenti e le eventuali sottomissioni quando si è allievi. Se mai si diventerà maestri o insegnanti si dovrà adoperare la stessa grinta nei confronti di altri.


A chisto ce manca sempe 'o sordo p'appara' 'a lira.

Si usa nei confronti di chi non da' mai l'impressione di avere tutto quello che gli serve per portare a termine un qualsiasi progetto.


Attacca 'o ciuccio addo' vo' 'o padrone.

Cerca di accontentare sempre i voleri del padrone.


'Na vota è prena, 'na vota allatta, nun' 'a pozzo mai vattere.

Il detto viene adoperato per indicare l'impossibilità di poter fare qualcosa, per le scuse ripetute e ripetitive, di chi dovrebbe aiutarti nell'operazione.


Fattella cu chi è meglio 'e te e refunnece 'e spese.

L'invito è a frequentare persone che si ritengono migliori di se stessi al fine di acquisirne i pregi e le virtù, anche sostenendo i costi dell'operazione, considerato il sicuro ritorno personale, sotto l'aspetto umano e formativo.


Ogni scarpa addiventa scarpone.

Purtroppo ognuno invecchia e questo, lo si dovrebbe tenere sempre bene a mente.


A chisto ce manca qualche viernarì.

Ci si esprime così nei confronti di chi assume atteggiamenti e comportamenti non sempre ritenuti ortodossi e che consentono, invece, di identificare nel soggetto una certa familiarità con istituti di recupero mentale.


Me pare 'nu speruto 'e carna cotta.

Si dice così di persona che dà l'impressione di desiderare sempre qualcosa, anche quelle che difficilmente può non avere. Si pone quindi in una condizione tale da apparire come un soggetto che vorrebbe avere, non tanto quello che non ha, ma quello che hanno gli altri.


Secondo me, tu si gghjuto ca' capa 'nterra.

Frase che si adopera nei confronti di chi, con il suo comportamento, dimostra di non essere al meglio delle sue capacità psico-fisiche nonché mentali.

 

FRASI E DETTI 2.

So' gghiuto pe' truva' aiuto e aggio trovato sgarrupo.

Lo dice chi, trovandosi in una situazione complicata, cerca conforto in qualcuno con l'intenzione di risollevarsi moralmente. Con sommo stupore scopre, invece, che la persona alla quale si è rivolto vive una condizione ancora peggiore della sua, cosa questa che causa il suo definitivo scoramento.


Chi 'nfraveca e sfraveca nun perde maje tiempo.

Chi si dà da fare nel tentare e ritentare di risolvere un problema o di portare a termine un lavoro, difficilmente impiega male il suo tempo.


S'ha 'dda' mantene' 'o carro p''a scesa.

Bisogna fare adesso dei sacrifici per poter poi raccogliere gli attesi e meritati risultati positivi.


Va e vvene p' 'a sciassa che tene.

Si comporta così, chi è mosso da uno strano e frettoloso andirivieni che non produce nulla di costruttivo. Ragion per cui costui, viene assimilato a chi, in preda a spasmi diarreici, occupa ripetutamente, a intervalli più o meno regolari, la stanza da bagno.


Vott' 'a pretella e nasconne 'a manella.

Si dice di persona birichina e furbetta che riesce a mascherare molto bene le sue malefatte, mimetizzando tutte le eventuali prove che potrebbero incolparlo.

 


'E perzo chesto, chello e Mariastella.

A furia di tirar troppo la corda, spesso si finisce col perdere, sia quello che si tentava di conquistare, che quello che già si possedeva.


Cu 'n'uocchio guarda 'a gatta e cu n'ato frije 'o pesce.

Vale per chi è impegnato contemporaneamente nello svolgimento di due o più mansioni. L'attenzione, ovviamente, risulta ripartita e, di conseguenza, indebolita in ognuna delle operazioni. Questo può comportare un risultato non sempre ottimale o, comunque, non rispondente alle aspettative.


'E vuttato a mare 'll'acqua sporca cu tutt''a criatura.

Espressione limpidissima che si adopera nei confronti di chi, semplicisticamente, affronta un argomento senza utilizzare i dovuti distinguo e, pur riuscendo a individuare ciò che risulta esecrabile, non riesce a dividere da questo ciò che va salvato. Si ritrova il senso di questo detto nell'italianissimo "hai fatto di tutta l'erba, un fascio".


Da quando è morta 'a criatura, nun simme cchiù cumpari.

Lo si usa quando, venendo a mancare alcuni presupposti, si ha l'impressione che, i rapporti intessuti precedentemente con altri soggetti, si siano indeboliti al punto da ridurre drasticamente le frequentazioni fra gli interessati.

 
 

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