Creato da FenomenidiEmersione il 05/01/2013
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  I sette dormienti - Stratos Yolanthe

 

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Il potere

Post n°35 pubblicato il 18 Agosto 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Fu un ragazzino, uno schifoso ragazzino: « L’ ho vista all’alba che baciava Desio mentre questi amava Priapo! ». Pudico, schifoso, bugiardo ragazzino!

« Fla, memento romana civis esse! » – . Udii la voce di mia madre provenire da una botte marcescente. No, dai fori delle tarme in quella botte! O dalle assi sgretolate?

 « Fla, romana civis, ma valevano i suoi baci questa morte? »

Dal cuore salì il mare e inondò gli occhi, come il Tevere in aprile. Travolti e poi spezzati gli argini, il sale giunse in gola e ne gustai il sapore caldo, come naufrago che cessa di nuotare e s’abbandona. Così, là in fondo vidi anemoni saettare in danze nobili col polpo e, da sott’acqua, sfiorai il cielo con le labbra, il braccio teso come un Icaro in decollo grazie a piume intinte in cera di speranza. D’un tratto s’arrestò quel volo: mi ritrovai sospesa, penzoloni a frecce acute di un tridente colossale e le sei trecce con i nastri in lana rossa che foravano il mio velo si sfiancarono e, cadendo dalla luna al suolo, sfracellandomi mi risvegliai. D’intorno solo mura di stanzino ed una botte fracassata, mia dimora e sepoltura, qua nel Campus Sceleratum.

Ricordai allora, con orgoglio ed amarezza, d’essere Flavia Mamilia, sacerdotessa di Vesta in quei di Roma, la cui Captio avvenne nell’anno dei consoli Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto IV e Marco Aurelio Severo Alessandro Cesare, esperta raccoglitrice di farro e preparatrice di mola salsa, di famiglia immacolata, vissuta illibata, condannata a sepoltura in vita per incesto nell’anno dei consoli Tiberio Pollenio Armenio Peregrino e Fulvio Emiliano, cioè ora. Cioè adesso e qua.

Fu un ragazzino a dirlo, uno schifoso ragazzino: « L’ ho vista all’alba che baciava Desio mentre questi amava Priapo! ». Pudico, schifoso, bugiardo ragazzino!

Ragazzina – io – la fui con classe e con coraggio!

« Verum est  » – stride la botte con la voce compiaciuta di mia madre.

Ancora bimba, tra un divieto ed un silenzio già sapevo quanta poca parte avesse Priapo in ciò ch’è il sesso degli umani.

Mamma Flavia trascorse la mia intera fanciullezza a battermi e a baciarmi ripetutamente, alternativamente, inaspettatamente. Mi partorì a fatica. Questo mi costò, durante la mia prima decade di vita, l’obbligo di pulizia della sua mensa in vece degli schiavi. Mia sorella, Flavia Licia – avevo quattro anni – ricordo fu deposta nuda accanto ad una frigidaria e dopo due mattine la ritrovammo esanime e gelata come pesce del Mar Nero, piccolo sgombro pallido, accartocciato in un’ attesa di ramazza. Seppi avanti che un suo arto era più corto e fui felice, infine, di non possederla nei miei affetti.

Accanto a casa v’era una fontana arrampicata su di un colle in terra dura. Una pendenza angusta si allargava finalmente in povera piazzetta e là s’apriva la rivendita di Asilio, un goffo Cimbro con la voce di vulcano: giocavo, gettavo un sasso a terra e lo saltavo e lo scalciavo per condurlo alla mia idea di vita disegnata con dei solchi nel terreno e, tra lo scroscio e il calcio, la sua grassa voce: «Veg-ni! Veg-ni ! » sovrastava i miei ginocchi col suo accento forestiero.

« Veg-ni! » -  lesto, poi correva a carezzare ali di pollo e porci appesi, decorati da stupende piume azzurre di pavone, appiccicate con il sangue alla sua merce di liberto tatuato.

Giunse un giorno una lettiga preceduta da colori, suoni e genti. Un bordo in legno cesellato mi sfiorò l’addome nudo ed abbronzato e fui rapita da un profumo di verbena e menta forte, vorticoso mulinello come vento di grecale e di settembre. Foglia inerme, mi avvinghiò la scia che fui sul punto di fuggire, quando mamma mi trattenne.

« Qui est ella?  » – miagolai incantata.

« Ella pulchra dea Maximae Pulcherrimae Deae est – Vestalis!  ».

« Quella è la bella piccola dea, figlia della bellissima grande Dea: una Vestale! » - mi rispose.

Allora, e solo allora, io mi percepii di carne, miele e fiato, ed ebbi la certezza d’esser destinata a quella bella, anche se piccola, deità.

Fui scelta – solo sei di noi su venti – alle idi di Marzo e tra le none e le idi di Maggio raccolsi il primo farro e, a giorni alterni, lo tostammo. Terentia aveva deboli ginocchia; insieme a Campia, raccoglievo la sua parte e mi ubriacavo di fragranze in quella dolce, sorridente primavera mia di vita.

Recisemi le chiome di bambina, in segno di rinuncia e sacrificio, mi apposero – posticce e in numero di sei – treccine di capelli veri, tolti a donne della Dacia, e le adornarono di nastri in lana rossa, con infula al profumo di garofano ed incenso. Ebbi un giaciglio: delle sei, l’ultima stanza sulla destra, riservata alle novizie. Modesta, angusta e sobria ma spaziosa a sufficienza per tenervi tutti i sogni della notte. Mi tolsero alla Patria Potestà, mi dissero: « Puoi fare testamento, puoi amministrare i beni, tuoi ed altrui, puoi muoverti in lettiga con la scorta d’un littore, puoi rendere testimonianza nelle cause, puoi concedere la grazia ai condannati, puoi lasciarci dopo trenta anni e un giorno e maritarti, avere prole ».

Di tutto ciò, nella mia mente di fanciulla, si scolpì soltanto il verbo: « Puoi! ». Come festoso sibilo di cento sistri, come ondeggiante carezza di cento tibie in processione, riecheggiò per mesi e mosse l’aria tra la tunica e la pelle a darmi brividi profondi: convinzioni! Che saranno mai trent’anni d’astinenza di fronte a questa piccola bellezza, a questa piccola deità? Di fronte a cento sistri e cento tibie quotidiani che ripetono gioiosi: « Puoi! Puoi! Puoi ! ».

Poi dieci inverni, undici estati... smarrii il conto dei favori e mi adagiai perfettamente in quella bolla di sapone. Quante volte veleggiò la mia lettiga, come nave preceduta dal littore tra quei vicoli contorti e quelle teste scarmigliate e sporche, mare umano che seccava al mio passaggio? Quante volte misi legna, colsi farro, lo impastai? Quante le ore in veglia ad osservare oltre la tenda il buio, a percepire il sussurrare in fondo al peristilio e ad aspettare l’alba per poter sortire ancora, veleggiare, avvicinarmi al cielo?

Lo vidi, è vero che lo vidi! Desio fu uomo alto, capelli neri, labbra che parevano sincere in quell’accento di provincia: dalla Siria? Dalla Tracia? Aveva pelle del colore della seta riarsa al sole, il passo stanco di un airone che ha già avuto troppi cibi prelibati ed ora ha perso l’appetito. Un solco chiaro accanto al labbro superiore, una ferita ormai inglobata nel suo volto: un incidente il suo? Lo fu per me.

Da allora, l’essere una bella e piccola dea non bastò più. Mi venne a noia il fuoco, a nausea il farro e mi tediò la deferenza, il servilismo della massa umana. Comparvero le febbri nella notte. Terentia mi portò del vino e miele riscaldato. Delirai: « Non posso! Posso tutto ma non posso! Io non posso! ». E feci un nome: Desio! Né Campia né Terentia né Cecilia fecero domande: già vi erano passate, come me, da donne. Il Pontifex non seppe. Finì il periodo delle febbri e cominciò la rabbia ed ora i sistri erano corvi fastidiosi e il fischio delle tibie era una lama nella carne: « Non potes! – Tu non puoi! » - mi ripeteva come satiro ghignante il vento.

Fu allora che Lucillo, il figlio di Selene, la greca che da bimba mi allattava, venne colto a borseggiare nelle terme di Traiano. La sentenza fu severa e fu di morte. Graziarlo? Io lo tenni in grembo bimbo, estremamente puzzolente bimbo, gli occhi chiusi come cucciolo di gatto, mi pesava sulle braccia come artiglio che s’aggrappa e il movimento lo inviluppa in labirinto nelle carni a dilaniarle.

Bimba – io – la fui con tatto e discrezione di profumi!

Erano tempi, quelli – i miei! – che l’essere lambiti da lettiga ti poteva fare dea...

La sera ho Campia che mi tinge d’olio i piedi e li massaggia con preghiere, rulli in cedro e solitarie confessioni. Siede sommessa mentre sono coricata, ed è uno stare ritti quando il mondo curva il dorso e ti si inchina. Chi è Lucillo? Che rubò? L’anfratto del silenzio è nicchia di sottili desideri: rifugio ritenuto saggio dai vigliacchi d’ogni tempo. Io mi ci incamminai perplessa e, infine, vi trovai la muffa adatta per cibarmi della vita stando accanto ad ogni flusso, come rana fintamente ignara a contemplar lo stagno. Stagno dopo stagno, l’ignavia si conquista e si gradisce come farmaco sincero. E la gradii, la morte di Lucillo, consacrazione di un potere cui anelavo. Sebbene ritornassero le febbri.

L’anno in cui io nacqui fu l’anno della morte di Eliogabalo. Fu questi un insicuro personaggio dalle labbra imporporate e dalle vesti irrispettose sotto ad unghie lunghe e pinte – aveva a cuore il Sole e una sorella con cui divideva il talamo imperiale – portava carovane di cammelli. Le gambe accavallate, si tingeva il viso in specchi trattenuti da miscugli di colori mal fottuti: schiavi butterati, orrendi. Portava acconciature a noi vietate, sorrette da scarpine in seta azzurra, gambe magre, ventre pregno di pernici e, del Salento, intere ed opulenti, calpestate, fermentate e mai smaltite vigne. Mia madre raccontò ch’egli fu donna e donna libera. Che Roma non capì la novità, ché l’aria cupa della capitale causa spesso dei malanni. Mio padre, uomo antico, inveì contro i costumi e riesumò Catone ( d’altronde nei Lemuria si levava a mezzanotte e, scalzo sulla soglia, si nettava per tre volte in acqua fresca assaporando fave nere per scacciare lo spauracchio dei defunti ). Io, sensibile bambina, rifeci, per tre notti, la pipì nel letto ed il mio corpo si riempì di chiazze rosse. Avrei desiderato nascere anzitempo per condividere con quell’imperatore la mia fragilità di donna edificata su false premesse. False eccome, poiché di fragile non v’era che l’idea di una fragilità che, in fondo, non mi apparteneva (che dire, Roma è questa: grande vanto della libertà di donna, emancipate più di quelle greche; in verità trattate come serve). Colui che mi condanna a questa morte – Gordiano, il nuovo imperatore – ha tredici anni, ovvero è un ragazzino, uno schifoso, sprovveduto, perbenista ragazzino. Il popolo lo acclama (suburra!), il senato ne fa esempio di moralità e giustizia (clientes prezzolati), le matrone lo contemplano sognanti (sta a vedere che avverrà l’apoteosi), ma io so che non c’è nulla di divino in chi decide cosa è puro e cosa no quando si tratta di coscienza altrui.

Io non ho amato Desio ed ancor meno il bimbo che mi porto in grembo. Sapevo bene a cosa andavo incontro assecondando quella ch’è la mia natura, tutti lo sapevano e tacevano, come se fosse una virtù sopprimere ogni istinto in nome di una religione. Ma non importa, ho avuto tutto e, in fondo, ho vinto. Il giorno della sepoltura in quest’ergastolo di pietra, Terentia mi donò un flabello d’osso. Lo scheggerò, ne farò lama e l’userò per carezzarmi i polsi. Pazienza per i Campi Elisi, non vi ho mai creduto. Forse nemmeno in Vesta. L’ipocrisia, questa mia ipocrisia di bimba un po’ cresciuta, non è che un velo trasparente: tutti se ne fanno peplo, ognuno vede quello altrui, ma buona norma è di tacerlo, perpetuando all’infinito la bugia della sottomissione. È un grido il mio, di rabbia mai sopita, di cinghiale con il fianco lacerato, ma compatto nella sua carnalità. Io voglio – perché posso, io lo posso! – penetrare fino all’osso ed intaccarlo, così che il giorno in cui ritroveranno i resti mi si possa riconoscere per quello che sono stata, una potente, dignitosa, intelligente proprietaria di se stessa.

 

Y. Stratos ®

 

 
 
 

Notte di campagna

Post n°33 pubblicato il 14 Agosto 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Ero che attende

Leandro.

La notte ripete

sé stessa. In applausi

di anime nuove,

si schiude,

in un campo, una vita.

Calcio idratato,

le unghie di tenera bestia

che cercano strada, il graffio,

la falla

nell’uovo,

la mamma.

Precipita un mallo,

distrugge

uno sbocco di talpa.

Coniglio raccoglie

dell’erba e

scompare nel cuore,

nel mio,

signore di

terra ricolma

di baci.

Nei semi

mia madre

che piange.

 

Y. Stratos ®

 
 
 

Il giudizio

Post n°32 pubblicato il 12 Agosto 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Una stazione ferroviaria. Madido di sudore, ansante e lercio, un uomo siede sulla panca in legno infissa al suolo ed inchiodata alla parete da pesanti e lunghe barre di cemento butterato. Volge lentamente il capo poi, di scatto, lo riporta in posizione di partenza. Volge lentamente il capo poi, di scatto, lo riporta in posizione di partenza. Volge il capo. Lo riporta in posizione di partenza. Gli occhi, nudi cingoli dell’anima, percorrono un segmento di binario, si arrestano alla solita distanza e, come molle di indicibile violenza, si rivolgono al principio in un nistagmo abulico e pedante. 

Più su, da uno spuntone in piombo, conficcato in una trave che sostiene una tettoia di polistirolo espanso, penzola una grossa mezzaluna. Illumina a bagliori intermittenti porzioni di campagna circostante, rivelando fotogrammi di un paesaggio d’erba incolta ed incolore. S’accende una casella, mostra un ciuffo di gramigna e poi si spegne. S’accende una casella, appare un ciuffo di gramigna, poi si spegne. L’effetto è quello di nevrotica scacchiera in cui ogni luogo è identico a ogni luogo: disabitato e immobile frattale disadorno.

Da un dove imprecisato proviene repentino un ringhio sordo. Parte sommesso, poi si impenna astioso, infine cessa e lascia spazio ad uno schiocco e un gorgoglio. L’uomo continua ad inseguire quel segmento di illusoria eternità, ma dentro sente freddo, un tremito percorre un avambraccio.

« Chi c’è ? » domanda senza uscire dal nistagmo « Chi è là ? ».

Sopra il suo capo ticchettante, tra la luna e lo spuntone in piombo, s’intravede a lampi alterni una struttura bidimensionale dai contorni indefiniti. Qualcosa vi sta scritto, caratteri sfocati da una tenue ed azzurrognola foschia:

 

                                                      JASENOVAC

                                            ( STARA GRADIŠKA 187)

 

Un luogo? Un epitaffio? Poco importa! Ciò che conta è andarsene di lì. Tra poco passa un treno e lui ci sale ed il nistagmo s’interromperà. Tra poco.

Il ringhio si ripete, questa volta più marcato, più vicino. Più cattivo, s’aggrappa ad una nota di rancore. Riflessa dal sudore della fronte la mezzaluna vibra e oscilla, poi si spegne, tramutando la scacchiera in notte fonda. Lo schiocco. Il gorgoglio. Silenzio.

« Chi c’ è? Che cosa vuoi? » miagola l’uomo, ormai ubriaco di terrore.

« Sta a te dirmi chi sei! » risponde, bitonale, un epilettico barrito.

« Io sono... » balbetta l’uomo incerto « io sono... io torno dalla mia famiglia... c’è una donna che mi aspetta qui vicino! ».

« Nessuno aspetta te! » ribatte inesorabile la voce.

Le scosse del nistagmo si fanno ampie e frequenti. L’uomo annaspa in un sudore cristallino e il tremito conquista ora una spalla, ora le labbra, ora le dita di una mano.

« Mi aspetta eccome » insiste soffocato « non può stare senza me! ».

Il silenzio che segue è un abisso di mostri ancestrali. Deformi e sconnesse porzioni di aborti riemergono ed urtano cupi la chiglia. In quella bufera galleggiano volti, risuonano voci, compaiono apporti alquanto simili a ectoplasmi di ricordi.

« Nessuno aspetta te. Chiunque può sostituirti. » ringhia monotona la voce « Siete miliardi, decine di miliardi, centinaia di miliardi. Chiunque può sostituirti ».

« Ma io sono unico! Ognuno è unico! Che dici? Che ne sai di me? Chi sei? » pigola l’uomo dal nistagmo acquoso, tremebondo.

« Tu! Tu eri qui anche ieri. » si inalbera la voce « E l’altro ieri. E nel 1982. E nel 1231. E prima. E prima ancora. E da sempre e in ogni corpo mi rispondi nello stesso modo. È forse questa la tua unicità? »

« Che cosa intendi dire? » grida l’uomo disperato « Non mi sono mai trovato qua! Chi sei? Che vuoi? Maledizione! ».

« Ora ti mostro la realtà »  chiosa la voce. Quindi si accende una casella, mostra un ciuffo di gramigna e questa volta non si spegne. Sull’erba appare una ragazza inginocchiata, il viso sfigurato da una smorfia, la testa fra le mani. Indossa una divisa a strisce verticali, un fazzoletto attorno al capo lascia libera una fronte intelligente, segnata da una cicatrice chiara ed ampia come ali di farfalla. È scalza. « Ti prego amore mio, portami via! Ti prego! » geme con lo sguardo appeso al cielo.

Nel buio circostante cani latrano insistenti, minacciosi. Il bercio di un comando rauco ne riduce gli arti a canne di bambù divelte e l’erba fruscia di bestiame che si accuccia in un guaito di paura.

« È Irene! » strilla l’uomo « È la mia Irene! È la sua voce! ».

Nel misero ritaglio illuminato, compare uno stivale militare in cuoio nero. La punta rinforzata in piombo grigio s’accosta alla ragazza genuflessa che, atterrita, lancia un grido acuto, disperato:  « Non eravamo uomini? Cosa eravamo? Cosa siamo? » 

« Человечество – Зверь и вещь » ruggisce il militare –  « L’Umanità è soltanto bestia e roba! Taci, vecchio sacco d’immondizia! ». L’insulto è insalivato, la lingua dall’accento imbellettato di sterminio è carta vetro su ferita esposta. La conta della sera trova vivi solo quattro cani magri e settecentoventi prigionieri. I cani erano cinque: uno mancante. « Dov’è il cane? » domanda lo stivale scalpitando come raffica di mitra « Dov’è il cane? ».

Bava di cielo cola sulle tempie della donna. Rugiada serra, gelida e pietosa, le ciglia dei cadaveri gettati sopra a sacchi di usurata juta. Di fronte, blocco 24, avvengono, su brande, coiti frammentati al prezzo di una sigaretta o di granaglie di pagnotta insanguinata.

La donna china il capo lentamente e la bugia dentro di lei si incarna. Solleva due occhi cheti, luminosi di risorto orgoglio: « La cagna sono io! Prendetemi e mangiate tutti, questo è il corpo mio. Rimetto i tuoi peccati, che il buio abbia la luce in mia memoria! ». Un tuono di metallo cavernoso innesca una catena di bagliori: scotomi scintillanti prima azzurri come cielo, infine rossi come il sangue; corpuscoli di luce, sono esplosi a illuminare i volti della donna, ormai cadavere di carne macinata in una posa innaturale, e del suo boia. Appare questi ansante e lercio. La bocca, una tetanica abrasione, si tende a mo’ di fionda caricata di macigni incandescenti a sostenere un naso stretto come graffio di felino. L’elastico sottende l’altalena dello sguardo e, a tratti rilasciato e teso, si traduce in un abulico nistagmo.

Si spegne la casella. Un urlo di dolore, poi singhiozzi. Poi silenzio.

« Tu uccidi sempre chi ti aspetta » ruglia la voce « ed ogni volta fuggi e ti ritrovo qui, svuotato della tua memoria. Osserva ancora la realtà! ». S’accende una casella: accanto al ciuffo di gramigna un pagliericcio accoglie un sudicio fardello antropomorfo. Una coperta traforata dalle tarme lo ricopre. È una bambina. Respira piano, fa le fusa come un gatto. Dorme? Struscia un piede, scalcia dolcemente l’aria. Sogna? La notte è rotta da uno sbattere di porta: passi grevi su di pavimento in legno, scricchiolii di ghiaccio frantumato, lezzo d’uva fermentata, digerita, vomitata. Il ritmo del respiro cresce, pare un cane accalorato. I passi s’avvicinano, la bimba si rannicchia, piccolo insetto in agonia finge la morte per sfuggire al predatore. Ma questi strappa la coperta, afferra una caviglia, trascina a se quel piccolo groviglio di terrore. Stracci dilaniati assumono le geometrie di carni rosee: rettangoli di coscia, ottagoni di ventre, triangoli di orrore, circonferenze d’ansiti e grugniti. L’urlo! La madre si risveglia, accorre scarmigliata, sferra un colpo di badile a quella schiena denudata e sbronza, irta di pelo. Con scatto idrofobo di lupo, il predatore si rivolta, lotta, s’impadronisce di quell’arma impropria, la solleva al cielo e, col furore di più vite già abusate, la riabbassa in un fragore in pelle ed ossa. La guancia della bimba luccica di sangue, i labbri irregolari di ferita separano la fronte in due paesaggi speculari di una stessa emorragia, due ali di farfalla dispiegate in volo. La madre perde i sensi, crolla accanto al predatore che, tremante, osserva il corpo senza vita della figlia. Chiude gli occhi per il tempo di un singhiozzo e li riapre in un abulico nistagmo.

Si spegne la casella. La notte pare grotta di metallo. Stalattiti e stalagmiti di sinapsi –  ragnatele di coscienza – si trasmettono segnali, gocce infinitesimali di memoria ne congiungono le estremità, serrando il cuore in un’antica morsa.

« Ora ricordi? »

L’uomo vorrebbe sciogliere il nistagmo, liberare gli occhi da quel reiterato fotogramma di binario, alzarsi, correre lontano. Ma l’attesa di quel treno, la fiducia nel suo arrivo, paralizza. La speranza supera il terrore, ottunde i sensi, nega l’evidenza.

« Ricordi ora? »

La mezzaluna, il tabellone, la panca, le caselle: attorno non v’è altro. Quel segmento di rotaia non ha inizio e non ha fine: è sommatoria di se stesso a dare un’infinita retta, a costruire l’illusione dello scorrere del tempo. Cosa c’è da ricordare? Ogni ricordo è padre di dolore, e il padre va sconfitto, superato, depredato della madre e ucciso. Perché accecarsi volontariamente? La coscienza acceca!

« Rammenti? »

Acceca! Spalanca i pori della mente, si insinua in ogni circonvoluzione cerebrale ungendola di pece scura, appiccicosa e corrosiva, da qui diffonde in ogni cellula del corpo e induce alla contrattazione, depreda l’individuo della forza sacrosanta di negare e di negarsi per potersi preservare dalle insidie della vita: l’istinto vince, la ragione uccide.

« Ne hai memoria? »

Uccide! Illumina la fine del sentiero, costringe ad accettare le presenze altrui, mitiga l’ira, punisce il furto, crea infelicità. La bestia che c’è in noi è la vera essenza. L’amor proprio è oblio, dimenticanza, digestione ed escrezione del passato, protratta fanciullezza rinnovata ad ogni passo, ad ogni istante. Memoria è distorsione del presente, distruzione del futuro, giudice implacabile e tiranno. La bestia non ricorda e non prevede, per questo si conserva pura, esente da ogni colpa.

« Vedo i tuoi pensieri » riprende sterile la voce « li conosco molto bene, sono antichi. Non puoi stare qua per sempre, arrenditi! ».

« Arrendermi a che cosa? »

« Alla memoria. Altro non sei. »

« Irene non esiste, Irene non è mai esistita! » sbraita l’uomo « L’ ho uccisa per salvarmi!  Voleva che io l’amassi, che la ricordassi! Mi costringeva ad essere presente. Chiedeva che io restassi uguale, giorno dopo giorno identico a me stesso, imprigionato in una forma, in un’identità. » il tremito si cheta, l’avambraccio si rilassa «Coerenza, integrità, stabilità: menzogne! Io sono molte vite, posso essere chiunque, voglio essere chiunque! Si tenga la sua unicità, si strozzi di coscienza: io sono libero!».

Il capo ora si muove lentamente, la fronte si fa secca di sudore evaporato ed il nistagmo si dissolve, condensandosi sereno nel riposo dell’assoluzione. La luna si rigonfia, illumina un sentiero dissestato, circondato di ginepri e salici piangenti. Alacremente l’uomo lo percorre. S’allontana. Non lo scorgi più. Le colpe – in verità soltanto quella d’esser nati – si risolvono in ammenda di reincarnazione, appuntamento rinnovato, giuramento di continuità. Un fischio graffia l’aria: arriva un treno. Fanali come occhi di falena gettano luce sui binari, li divorano sbuffando vento; la gramigna ondeggia, si china, vibra, si rialza: è passato. Le rotaie si conficcano nel nulla, rinnovata, primordiale oscurità. Si leva un fiato dolce, una sommessa brezza anima steli di ranuncoli neonati: un delicato tango irresistibile, struggente, si dipana, sale al cielo e lo dissemina di piccoli puntini luminosi, note sciolte, liberate dal collare della melodia. Li vedi quei puntini luminosi? La senti la canzone? Rincorrila, traducila, ricordane il refrain: l’espresso della notte passerà di qui, lo aspetteremo insieme. Abbi fiducia. Vedrai che arriverà.

 

Y. Stratos ®

 
 
 

Vincent

Post n°31 pubblicato il 06 Agosto 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Ebbi la setola e la stella,

mani accorte e mente stinta di acquaragia.

Disegnai mondi e poi,col fiato,

li modellai.

Corsi nel grano,

presi del vino ancora, mutarono

il mio viso e la mia anima.

Infilai un pertugio ombroso,

credetti fossi chiave e aprii.

Subito il cancello si chiuse,

vidi altro ed altro vissi,

tra un’anima ed un’anima diverse.

Il grano mi si fece spora interna

e mi riempì di corvi il cielo.

E fui me stesso.

 

Y. Stratos ®

 
 
 

L'adolescenza

Post n°29 pubblicato il 04 Agosto 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Lo scorgi quel puntino luminoso, quel vermicello levitante che ora, proprio ora, si avvicina all’orizzonte della luna vista dalla Terra? Guarda bene! A destra del Cane minore, ad ore dieci del tuo campo visivo, accanto a quel sottile impasto di galassie che puoi intendere soltanto con la coda del tuo occhio. Non fissarlo! Guarda un punto indefinito e lo vedrai. Inclina il collo, un poco indietro ancora. Lo vedi, ora? Ebbene, quello sono io. Non so come ci sia finito, ma sono qui da sempre.

La luce sulla Terra è fluorescente questa notte. Come bava di lumaca su di un faggio intinto in porpora fenicia, scintilla di natura. Galleggio in una tuta riscaldata dal mio stesso fiato, da millenni non mi nutro. Spesso dormo. La luna emette brevi lampi attorcigliati, fulminei come lingue di serpente, sinuosi come plasma, ed io mi immagino altre vite che non ho.

Accade a volte di incrociare altri natanti, anch’essi fluttuanti dentro al nulla, diretti in seno al nulla. I nostri sguardi si miscelano in  pupille dilatate, a simulare una parvenza di saluto che, nell’arco di secondi, si trasforma in un addio. Non so chi siano, ma sono molti e sono qui da sempre. Talora hanno una tuta colorata, talaltra gli occhi azzurri o verdi o grigi. Gli zigomi, le labbra, il naso restano celati da una cuffia scura che si annulla dentro al buio dello sferico scafandro. Un tempo mi chiedevo: « Di dove giungono? Chi sono? Dove vanno? ». Soltanto poi capii che si trattava di me stesso, di un me stesso duplicato, di perfetta clonazione. Ed io ero loro, e loro me. E insieme noi eravamo uno soltanto. Ed era qui da sempre.

Ho visto ogni passaggio di cometa. Ho rasentato per un tempo indefinito il giallo acceso di Mercurio. Adesso giungo in questo angolo di cosmo e vi intravedo. Avete fame? Avete freddo? Avete sonno?

Qui nel cielo tutto è immerso in un ronzio soffuso e dolce che non si interrompe mai: un lieve attrito di sussurro generato dal ruotare dei pianeti puntella questo vuoto dentro a un vuoto, paradosso colmo di serenità. Non v’è punto cardinale, non v’è tempo, ed ogni spazio è relativo e clonazione di altro spazio relativo ad altro spazio. Dovunque io mi volga il panorama resta uguale, immobile e perfetto. Per secoli, millenni, ho navigato in uno splendido barlume di coscienza sopraffatta da un’ipnosi zuccherina, un sonno a tratti lieve, a tratti fondo. Pensiero alcuno mi ha trafitto prima ch’io giungessi qua, in vista della vostra sfera azzurra. Neppure Alcione, Asterope, Taigete hanno interrotto quella vegetale assenza, spezzato quella ragnatela che mi avviluppava come vischio in una rete di pulsioni a mala pena percepite. Non so che cosa sia accaduto dopo. Avvicinando il blu dei mari, l’ocra delle terre, ho scorto una distesa cristallina e bianca. Da lì mi è giunto un canto, prepotente e disperato: « Luna, lassù,/amico fraterno, lassù,/tu mi dai un poco di calore,/le finestre si illuminano./Luna lassù, tu sei la mia sola sorgente di luce,/io sto cercando di asciugare i miei vestiti,/è improbabile, è impossibile, non ce la farò... »

Allora qualche cosa di tremendo e sconosciuto è entrato in me. Il suono delle stelle s’è chetato e, nel profondo, ho udito un gemito e un singhiozzo prolungati. Un brivido mi ha scosso e ho percepito il freddo e un corpo e, con orrore, l’ ho scoperto essere mio. Io non ho avuto freddo mai. Io non avevo un corpo. Cos’è questo formicolio ? Perché non riesco nuovamente a prender sonno ? Perché non torna notte ancora ? Da sempre fu la notte la mia culla. Ma ora questa luce prepotente illumina distese pianeggianti, spezzate solamente dall’ergersi di gelide montagne, maestosi cumuli di neve. Brusio di voci invade il cielo, raschiare aritmico di pale, cadenzare di campane, latrati di canili, matasse di linguaggi in sottofondo. In questo anfratto di universo, la spirale che da mane giunge a sera e che da sera va al mattino si frammenta a generare il tempo. E il tempo è doloroso. La luce di per sé è dolore acuto. La notte era uno stato della mente e come tale apparteneva a differente dimensione. In essa le paure e i desideri non avevano motivo di incarnarsi: l'energia si disperdeva a disgregare la materia e la materia non desiderava un corpo. Da quella dimensione era precluso il cosiddetto invecchiamento, ovvero l'interscambio tra la massa e l’energia affinché ogni cosa, dentro e fuori della tuta, non potesse mai incontrarsi. Quello che mi sta accadendo ora è un cataclisma. Feroce spacco tra la luce e il buio, tra me stesso e un altro me. Battaglia sanguinosa di trincea, eucaristia senza officiante, estenuante, spaventosa lotta contro belve incattivite dalla prigionia dei sensi. A volte è  un demone ad avere l'ultima parola, perciò la vista del pianeta mi regala una leggera, nuova ruga a devastare un angolo di bocca, un margine di palpebra, pochi millimetri di tendine di cuore; a volte invece un angelo si impadronisce di quell’ultima sentenza, regalando un volto fresco, una leggera sensazione di antigravità, molecola di ossigeno da spendere in aggiunto battito cardiaco. In ambo i casi è una frustata. Impercettibile e crudele punizione stabilita da impietoso tribunale in cui noi tutti, accusatori ed imputati in ugual modo, decidiamo se vivere, quanto vivere ed il come ed il perché. Tra un martirio ed un osanna, una crocifissione ed un trionfo, lasciamo vittime sul campo, eroi dell'indomani: sfaldate cellule smarrite tra lenzuola, disertori fucilati con l’accusa di alto tradimento, neuroni spesi in nome della percezione. Capire d’esser corpo: carezza e benda profumata su ferita infetta, suicidio programmato, imposta disciplina a mala pena diluita lungo l’arco di una vita breve ed insensata. E poi:  disfatta, febbre, cancro, solitudine, paura. Fame, sete e cecità.

È questo, dunque, che provate voi laggiù? Che bizzarria di esperimento l’auto-percezione! A quale pro? Sospesi su una sfera di pietruzze ed acqua, condannati al turbine continuo della rotazione, all’agonia costante della gravità, dovete inoltre sopportare una lucidità interiore che vi strappa da voi stessi e vi proietta in una misera autopsia fautrice di dolore. Schiavi di leggi imperscrutabili, fischiate come canne al vento imprigionate nella melma ed assistete allo spezzarsi – ad una ad una – delle vostre verità. Il canto che ne esce sale al cielo ed urta cupamente ogni parete, rimandato e tramandato ad inquinare i sogni naviganti ed incoscienti come me. Coscienza: eccovi il nome del dolore! Coscienza di che cosa? Vedere un orizzonte senza fine è pari al non vedere alcuna fine, alcun principio. Vedere e non poter toccare, udire e non comprendere, ma solo interpretare; cibarsi, ma col garbo del debilitato in agonia. È questo il vivere laggiù? Vorrei fuggire, ma qualcosa mi trascina verso il basso. La sfera si fa piana: la Terra si avvicina. Massa, raggio alla seconda, costante gravitazionale. Mi percepisco greve, il corpo pesa, sto sudando. Non sento più il ronzio dell’Universo: la Terra ha rotazione difettosa? Siete in continua veglia? Come fate? Questo caldo!... ma la causa non è il caldo. Se soltanto fosse il caldo forse riuscirei a calmarlo respirando a bocca aperta, dissetandomi coi fiumi di sudore che m’imperlano la fronte e, giunti all’apice del naso, si riversano in cascate fragorose sul torace. E dal torace al suolo. Perché mai prima di ora il suolo è stato così avido, magnetico, goloso del mio corpo. La forza d’attrazione delle masse si fa orgia, il pianeta mi richiama, mi brama di cannibale ossessione, emana possessione, aspira al furto. Perché di furto qua si tratta, non di rapimento. L’oggetto delle brame è questa pelle, è questo cuore, questi reni, questa carne. Niente richiede l’anima, nessuno sa che farsene di quella. S’aggira fatua e pretenziosa approfittandosi dei vuoti tra elettroni e nuclei, lascivo parassita, prostituta che ti insinua la divinità, muta la rotta dell’imbarcazione ed abbandona il ponte al primo impatto con lo scoglio della materialità. Non ho mai perso così tanto la mia carne prima d’ora, quando ancora non sapevo fosse mia. Adesso che la percepisco, sento il tempo depredarla pezzo a pezzo: il senso dell’incarnazione è l’equilibrio della massa universale che ha da essere costante perché tutto non si spenga all’improvviso. Che io divenga uomo è ormai obbligato, il peso opprime, il mondo chiama. Ma quale uomo? Chi sarò? Le vostre grida percepite qui dall’esosfera sono vaghe, inutili scommesse. Ognuno si proclama « Io ». Dovrò incarnarmi in « Io »? Se io sono Io, se anche tu sei Io, se tutti siamo Io, chi sarò io? Se l’Io sarà tutto ciò che avrò del mondo, se tutti lo possiedono, che cosa sarà unicamente mio? Se inferno sono gli altri, ed io sono l’inferno tuo, e noi siamo l’inferno altrui, suicidio ed omicidio, o meglio non incarnazione, sono il paradiso? Dal canto mio, che tutto sia insensato e abbia una fine passi, ma che alla fine debba corrispondere un inizio è sconveniente crudeltà. Così tu sei mia crudeltà, così per te lo sono io. La troposfera è colma di motteggi di condivisione, tolleranza, amore. L’amore è soluzione artificiale a guerra naturale: si dolgano le madri, impugnino i forconi i padri. L’amore è una bugia della paura. Gli atomi si urtano l’un l’altro in un saccheggio di elettroni al fine di occupare spazio con il minimo dispendio di risorse: il fine ultimo non è la convivenza ma la soppressione del non-self, l’appropriazione di quell’ Io che non può essere disperso, condiviso. Ed ogni atomo sarebbe ben felice di annientare gli altri e finalmente essere il Tutto senza più, mai più dover mutare di traiettoria o di energia. Ciò che si biasima, la guerra, è in fondo ciò che tiene vivi: miriadi di anticorpi divorano invasori a preservare integrità e sopravvivenza: il mondo nasce da uno spacco, non da un bacio.

Lo spacco avviene ora: aumenta la temperatura, la tuta prende fuoco, una vertigine che sale dalla pancia e gonfia gli occhi è traduzione del precipitare. La ionosfera è il vostro mondo che si espande, è il mio universo che soccombe: il vostro zenit è il mio nadir. Accelerato in modo esponenziale, inarrestabile meteora, sono microbo fagocitato, anello di benzene derubato d’atomo di idrogeno; da ciclico, protetto e stabile, mi apro con dolore al mutamento, esposto alla battaglia quotidiana della materialità terrestre: crollo. Chi sarò? Cosa sarò? La geografia laggiù si fa pastello, mescolanza di colori con la coda, scie confuse d’incredulità, spavento, aspettative. Il mare schiuma, un bimbo nudo abbraccia un cucciolo di lupo, una ragazza s’addormenta sulle scale, un uomo calvo si ubriaca. Il cielo tuona, una signora piange sola in una stanza, un treno sfreccia accanto ad una mezzaluna. La pioggia scroscia su tettoie di lamiera, inonda i campi, inventa fiumi che trascinano detriti, volti, nomi, cellule sfaldate e tutto torna al mare e questo sale al cielo e il cielo si fa pioggia e torna al mare. E il mare schiuma. Chi sarò? Cosa sarò? Rigagnolo di acqua infiltra, un masso viene eroso alla radice, si distacca, rotola ingoiato dal crepaccio, si frantuma partorendo un microsisma che fa breccia per la falda circostante: nuovo liquido si insinua, erode, spezza. La terra urla, ha fame di materia. Per esistere si deve divorare, digerire, vomitare, plasmarti, ingurgitarti, rigettarti. Il tutto un anello senza capo, senza coda, ciclo di voracità feroce in cui tu sei soltanto corpo e il corpo solo cibo per la macchina di un tempo immoto, giogo ridondante d’un’evoluzione a guisa di spirale.

Stratosfera: sempre più vicino. Madreperlacee nubi iridescenti aprono fauci con fanoni di vapore, deglutiscono la mia caduta in una peristalsi di correnti che sospingono più giù, verso la troposfera, stomaco di succhi corrosivi in cui ci si dimena per non essere dissolti. Ma la carne si dissolve. Da bolide a meteora, da meteora a meteorite, mi consumo. La velocità si è espande, il tempo si ritrae sempre di più, ne resta poco, sempre meno. Il vostro è un canto gregoriano, acuto ed angosciante dice « Vieni! Cresci! Vieni! » sillaba « Scendi! Vivi! Scendi! ». « Com’è accaduto che mi permettessi di sottrarmi così a lungo alla follia della gravitazione? » voi pensate « Sfiorare chiome di comete, carezzare eso-galassie, riposarmi in nebulose, a chi serviva? » biasimate « Chi sei tu per non nuotare in questo impasto di materia e percezione, faticare, insudiciarti in questa lotta senza senso?».

A diecimila metri dal terreno l’attrito si fa scoppio, ottunde la coscienza. Mentre l’uomo si addormenta l’animale si risveglia, si ribella. Non riesce a sopportare quell’idea: l’essere Io senza l’unicità. Salivazione, rabbia, morso: brandelli dilaniati, dispersione. Mi frantumo. Da bolide a meteora, da meteora a meteorite. Infine solo polvere stellare, dispersa per i continenti come spora in primavera, trasportata dalle onde ad incarnarsi in molti corpi, in molti  Io. Volteggio a piuma, mi deposito dovunque. Chi sono? Chi sarò? Sarò chiunque.

 

  Y. Stratos ®

 
 
 
 
 

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