Creato da FenomenidiEmersione il 05/01/2013
. . . . . . . . . . .

- - -

 

  I sette dormienti - Stratos Yolanthe

 

Area personale

 
 

FOTOGRAMMI DI DISSOCIAZIONE

 

Tag

 
 

Archivio messaggi

 
 
 << Luglio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

Cerca in questo Blog

 
  Trova
 
Citazioni nei Blog Amici: 7
 

Ultime visite al Blog

 
lotus.houseP_ColaAndrea_Di_VicoWhaite_HazelaeternaLaLigneNoirDONNADISTRADAalessandrapiccininimillepezzettiselvaggi_sentierineve00001max_6_66FenomenidiEmersionepsicologiaforense
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 
 

 

 

L'equilibrio

Post n°25 pubblicato il 01 Agosto 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Ai piedi di un ghiacciaio di alta quota, sfregiata da un ruscello solitario con riverbero di luna, la notte si addolora. Sospinge nebbie eterne, le costringe ad umiliarsi, a degradarsi in piccole gocciole di rugiada che riveste una scalea. Dall’ultimo gradino si diparte una colonna, sormontata da una lacrima di marmo. In cima vi sta un uomo. La fronte è corrugata, le palpebre rigonfie. È il re del Pianto. Alle sue spalle una signora, immobile nel tempo – chissà da quanto ormai – indossa un paramento di satin, le dita ossute lo martoriano nervose, inappagate. È la regina del Singhiozzo. Un vento di ponente li separa, re e regina. È solo un rivolo, una bava, potrebbero spezzarlo con un bacio, eppure se ne restano distanti e taciturni. Il canto del torrente, bizzarro ed argentino, colma il vuoto di parole e crea illusioni di monologo incessante. Ma entrambi, i due regnanti, sono soli. Immensamente soli. Un tempo si inseguirono giocosi, tintinnarono corone nella foga dell’ardore. Un tempo dialogarono tenendosi per mano. Poi, fu in maggio o fu in novembre, una sottile galaverna scheletrì quel desiderio di parola. Da allora, cioè da sempre, il loro mondo è governato dalla nebbia. Accade che, di tanto in tanto, s’oda un grido di animale in lontananza, un ticchettio di fossile spezzato, fruscio di ali infreddolite, ma è un linguaggio primitivo, insufficiente. « Il cielo volge al bello » constata la regina « la nebbia si diraderà ». « Sarà come tu dici » osserva il re, flettendo dolcemente il capo. « Sarà. » annuisce la regina. Lo smalto delle unghie sbava il viola del satin come terriccio sul coperchio di una bara ed una volpe abbaia acuta nella bruma. « Davvero pensi si diraderà? » soggiunge. « Non ti dare pena » risponde il re, stizzito « che altro è il domani se non ieri da venire? ». « Già » sospira la regina « che altro mai. » Il re strascica i piedi come un bimbo pensieroso, un dubbio ormai si insinua, gli si legge chiaro in volto: « Forse lei non mi ama più? ». Ma nessuno può vederne il volto, nemmeno la regina lo ha mai visto, lui l’ ha sempre preceduta, lei lo ha sempre tallonato, non vi è stato mai un incontro che non fosse solo verbo, abbraccio stilizzato, amplesso sublimato. « Desideri danzare insieme a me? » domanda tutt’a un tratto la regina. Il re si scuote in un sussulto, apre la bocca tramortito, prontamente la richiude, la riapre: « Danzare è poco serio, significa patire un vuoto interno e non riuscire mai a colmarlo ».  « Già » sospira la regina « se così dici, altro non è ». Il re si flette un poco, sconsolato, la regina increspa l’abito delusa, torna il regno del silenzio. Neghittosa, la caligine riavvolge la speranza, fluidifica l’attesa di qualcosa che non c’è. La notte sa di acqua, tutto è acqua. Il letto del ruscello è ricamato di sottile intreccio d’aghi delle tuje, imprigionati nelle squame delle pigne che, incessanti, cadono dal folto della nebbia e partoriscono concentriche collane in superficie. Le onde si propagano leggere, come lingue di velluto si dipanano in carezze contro agli argini di ghiaccio. Sul fondo, tra i ciottoli smussati, due cellule ibernate si congiungono, si scambiano frammenti di esistenza, serpentelli di materia, sintetizzano una vita. « Se solo nostro figlio ritornasse! » singhiozza la regina. « Mia cara » piange il re « noi non abbiamo un figlio. Non lo abbiamo avuto mai. » « Eppure io ne sento la mancanza » insiste la regina « per cui, da qualche parte, in qualche tempo, esiste e non sa più come tornare. » Il re vorrebbe prenderle le mani, carezzarle dolcemente, ma il singhiozzo non precede il pianto e lui non può voltarsi, lei non può raggiungerlo. Inseparabili e divisi, non si incontrano che in altra dimensione generata dalle loro immateriali essenze, prodotto di reagenti in una nebbia burrascosa che confonde, obnubila, prosciuga. Idrogeno ed ossigeno si perdono nell’acqua, e l’acqua è un Esperanto, un artificio per intravedersi in terra di nessuno. Il verbo è acqua. « Ne sono certo, cara » osserva il re « non c’è alcun figlio, nessuno si è smarrito... » ma la regina grida indispettita « Desidero qualcosa che non c’è, vorresti dire? Allora, se non c’è, perché ne ho voglia? » Il re è inquieto. Qualcosa gli si spezza dentro: turbinio di sogni antichi si discioglie in un monologo sofferto, struggente apologia del pianto. « Amore mio » ricorda « i lupi della notte in cui ti ho udita, la prima intendo, erano a un passo. La bava ne rigava le vallate, lacrimate tra un rilievo di grafite e ghiaccio ed uno sputo si stagliava tra l’abete e l’avvenire. La notte in cui ti ho udita, intendo, era una notte senza giorno. O di più giorni ripetuti, clonazioni di apodittici coluri, occluse nari in universo di profumi. La notte che ti udii fu incanto, prima unghia d’embrione, fine lista della spesa, anfitrione divertente, luce spenta quando il sole torna e, caro, sfiora inverni di silenzio. Abbiamo bimbi? Tu sei bimba indaffarata, colma di sacralità decidua, soppesata, astrusa, dimezzata, astuta, antropomorfa, dolorosa di un’acidità pungente, assurda, scialba ed occludente, nord che viene sera e muta stella in Vega, tempo addietro, tempo avanti, assoluzione, mia contemplazione, addio. Se amare è naufragare in un anfratto di illusioni, io nuoterò con te ». Quell’ultimo pronome monosillabo si tuffa nel torrente ed entra in risonanza con il greto che, distolto dal suo sonno secolare, vibra: le cellule, congiunte da un sottile istmo di calcarea rena, si separano ed il loro viaggio a valle ha inizio. Discendendo, si deformano al contatto con la ghiaia, si espandono e ritraggono pulsando. Attraversano paesaggi che non possono vedere ma conoscono da sempre: rapprese cere d’api lungo colli di bottiglia che ricordano vulcani lacrimosi, gomitoli di lana ritagliata in stelle alpine, pastelli di pinete sdrucciolevoli. « La materia è desiderio » canticchia ora, sottovoce, la regina « il desiderio è vita ». Si impigliano nel grembo delle alghe, riposano, riprendono il cammino. I primi raggi di una stella incandescente si rifrangono nell’acqua, la riscaldano, compaiono i colori. Branchi di creature sagittate dardeggiano festanti, indaffarate, mentre il mondo sovrastante si tramuta in tundra e, questa, in ampio piano verdeggiante. Un piccolo, sommesso mulinello tra due pietre in una dolce insenatura trattiene le due cellule: il viaggio è terminato ed ora il sortilegio ha inizio.

 

                                                                   *

Ai margini di un bosco rigoglioso, solcato da un ruscello di pianura, il giorno è appena sorto. Immerse nel tepore mattutino, due anime si inseguono felici. Lei, ghirlanda di mughetto attorno al capo, è la Signora della Grazia. Lui, la chioma fluttuante, è il Signore del Sorriso. Entrambi nudi, ora si osservano incantati, ora si stringono le carni. L’amore li alimenta, l’acqua fresca del torrente li disseta. « Dente di cane / coda di coniglio / lingua di serpente / corri che ti piglio » canta lei, giocosa, mentre lo rincorre. Le trecce di tiepida luce si sciolgono morbide, i rami degli alberi offrono frutti maturi, dolcissimi. Il verbo qua è muto, ogni cosa è se stessa, al suo posto, del tutto incosciente di essere. Non v’è che il piacere d’un oggi che dura per sempre. Un pomo precipita in acqua, sprofonda sul greto sabbioso, rimbalza, risale e volteggia nel piccolo gorgo. L’epicarpo è poroso, le cellule vi restano adese. Appetibile, rosso di sole, la donna lo leva dall’acqua, lo addenta, ne offre al compagno, lo getta. Il torsolo, scheletro d’eucaristia, ora è immerso in terriccio fragrante e fecondo, i suoi semi germogliano. Piccoli rami violenti sprofondano al centro del globo terracqueo e s’intrecciano a rivoli caldi di ferro, di nichel, di fuoco. Venature beanti trasportano il magma ad un fusto che fende il tappeto di erba e risale nel cielo. Il mostro di legno, possente, si slancia a cercare la luce, emette ramifere digitazioni annaspanti, affamate di aria. Le frasche si chinano al peso di gemme e boccioli, compaiono fiori scarlatti, a decine, a migliaia, miliardi di fiori scarlatti che creano un’aurora terrestre. Poi, uno per uno, appassiscono, seccano, lasciano spoglio il gigante, ingobbito e smembrato come scheletro mai appartenuto a nessuno. Si ode abbaiare una volpe.  Ora la signora della Grazia è stremata, si accascia sull’erba, osserva pensosa le nubi. Il signore del Sorriso le si accomoda al fianco, le sfiora i capelli insicuro, ritira la mano e il suo sguardo si perde lontano. Tutto appare più lento, sbiadito, ovattato, circonfuso di un’aura irreale. Qualcosa si muove nel verde, ne scosta gli steli strisciando: è un sibilo aspro, una noce di vespe furiose. « Che cosa è accaduto? » domanda sgomenta la giovane donna « Che cosa è cambiato? ». Il re del Sorriso nemmeno si volge a guardarla, una lacrima occlude la gola, vorrebbe parlare ma suda, ha l’affanno. La noce di vespe furiose avvicina la donna, si annida nel grembo, vi penetra. Una patina grigia, profonda come acqua di stagno in autunno, discende nel cuore e rovista: ignote paure finiscono in circolo, percorrono ogni tessuto. Con gesto stizzito la donna si scuote di dosso qualcosa, poi cinge le braccia a difendersi il corpo. È nuda e fa freddo, una stilla di sangue le riga una coscia, serpeggia accidiosa, ricade sull’erba. La luce del sole è azzurrognola tela di ghiaccio che increspa la pelle e un sapore di vuoto perpetuo e angoscioso riecheggia, un metallico senso di colpa che morde alla cieca ha scalzato la gioia. Ora tutto è un’attesa infinita del tutto ed il nulla è un’attesa infinita del nulla. Il richiamo animale si smorza, la vergogna di essere privi di vesti travolge. Bisogna trovare rifugio nel bosco. Ma il bosco è caduto nell’ombra, una brina improvvisa ricopre ogni cosa, fissandola in gelido istante che dura in eterno, atarassico, afasico, spento. Bisogna combatterlo, il freddo. Inventare indumenti, trovare un riparo, una nicchia, una grotta, qualcosa di chiuso e di caldo. Raccogliere rami e fogliame, discioglierne il ghiaccio col fiato, plasmarli con mani e sudore: sudore! La muscolatura si tende, il carbonio è bruciato, la fabbrica della tristezza si apre in vapore, sbuffato da lunghe trachee derelitte, tradite da un sogno deluso, superbo e infelice. Dolore e lavoro. Lavoro e dolore. La notte di un giorno perenne è calata sul mondo.

 

                                                                    *

Ancora più a valle, oltre un’insenatura d’argilla, sfidando le leggi scoperte dall’uomo, il torrente si torce a spirale ed arrampica un monte vieppiù denudato del verde. La cima ha un berretto di nebbia stantia, fotogramma di acqua rappresa. Lassù, re e regina, governano, a turno, il singhiozzo ed il pianto del cosmo. Lo sguardo di lei si conficca a strapiombo in un lembo lontano di nulla, le labbra di lui sono piccole valve di ostrica morta da tempo. Là il tempo è un concetto storpiato, matrimonio perfetto tra il mai ed il per sempre. Eppure la donna è in attesa, il suo sposo è nervoso, apprensivo. Entrambi passeggiano senza avanzare di un metro. « È vicino, lo sento, è tornato! » risuona solenne il presagio. Graffiata da un lampo fugace – una sorta di globo che emana un alone vibrante, sonoro alveare che avanza – la foschia si dirada in cristalli di piccole gocce argentate, trafitte da un debole raggio di sole, che assume la forma di spada dall’elsa dorata. Un singulto terrestre, errabondo, discende dall’apice ai piedi del monte, creando dei piccoli vortici d’aria che crepano il ghiaccio e risvegliano spore sepolte nell’ humus. La coltre gelata comincia a squagliarsi, losanghe di tundra ibernata si affacciano al cielo, affiorano isole verdi in un mare di gelo disciolto che, docile, scorre giù a valle. Squagliandosi, il picco si smussa, si abbassa, si appiana, abbandona l’anello di nebbia sgusciandovi dentro, smagrito anulare sguarnito di fede in divorzio solenne. Sul volto del re prende forma una ruga stupita, insueta: è un sorriso. D’impulso vorrebbe voltarsi, guardare la sposa di sempre. Sgomento, ci prova, sorpreso ci riesce. E la vede. Fragranze di bacche essiccate pervadono l’abito della regina, ghirlande di pace le colmano gli occhi di piccole stelle brillanti, stupende: il singhiozzo è soltanto un ricordo. Lontano, nel cuore di un’alba soffusa, si sente abbaiare una volpe. Il disgelo è iniziato.

 

      Y. Stratos ®

 
 
 

E. Salgari

Post n°24 pubblicato il 31 Luglio 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Di maggio

il fiume.

Ascolto

profumi.

Scie di

barche,

il Po.

Amo

una donna

stanca.

Di giorno

il Dio,

la notte

inferno.

Comprò

dei tacchi

in centro:

acquisto estremo.

Di giugno

nel fiume

mi detersi.

L’anima

spirò tra

dighe.

I baci

suoi

restarono

impigliati nei

bastioni di

cemento.

Sulla pietra

un nome

ed una data.

Il tempo ha

fame di

sé stesso e

si divora.

 

 

           Y. Stratos ®

 

 
 
 

Mauthausen

Post n°23 pubblicato il 31 Luglio 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Treno di notte,

le tre.

S’accapigliano stanche le genti,

sul filo di brina

restiamo terribili e assorti.

Luci fievoli appaiono in legno e di sotto le ruote:

si sale!

 

La sete e la fame e le fiabe, la volpe e

l’agnello e poi l’uva….

Si strappa la notte.

Si rompe ogni odore, si cambia binario.

Biancore intravisto

in fessure: è dicembre.

 

La strada è gradevole ancora,

la notte di burro.

Finestre di case con luci…

Si arriva:

gioisci!

 

      Y. Stratos ®

 

 
 
 

L'abbandono

Post n°20 pubblicato il 29 Luglio 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Una signora dai capelli cotonati, tinti in biondo come grano a fine luglio, sosta immobile di fronte ad una porta in noce scuro. Una valigia rossa opaca, antica e vuota, sta al suo fianco. Lei è una madre. In una mano la maniglia dell’ entrata, ottone cesellato in oro puro, nell’altra la maniglia dell’uscita, carbone coagulato sopra ad osso di giaguaro. La madre da oltre un anno sta in pigiama. Ha occhi come uova ribollite, braccate da perpetui predatori immaginari. È spaventata. La vita, fuori dal suo scrigno, si dimena e si consuma e le paure si amplificano e stratificano in estenuanti ere di terrore e glaciazioni. Dentro tutto è disperato, come lacrima senz’acqua.

Di fronte a lei un bambino. Indossa un abito di funi grezze, sottratte a un trapezista in una sera di novembre durante uno spettacolo di un circo itinerante. In mano tiene un ago con del filo di budello nella cruna. Lo sguardo segue l’ombra della madre proiettata sul soffitto e muove il capo in ampi semicerchi per illudersi di un qualche movimento che non c’è.

Fuori nevica la sera. La coltre infarinata dei sentieri presenta lunghi graffi scuri, minuscole vallate interminabili scolpite dalle zampe di randagi e volpi scese a ricercare cibo. Le stelle sono basse. Così basse che scintillano dai piccoli rilievi in ghiaccio stesi ai bordi delle strade ed ogni tanto una di loro si conficca in un lampione e getta sfrigolii di luce sulla piazza a ricordare che è Natale.

Nel cortile, lambite dagli schiaffi di una fiamma, due giovani eschimesi in un abbraccio primordiale riproducono, cantando, la banchisa. L’una tozza e infagottata nella renna, l’altra cerea come costa di balena, occhi negli occhi, guerreggiano in furente katajjak,  sognando di sconfiggersi a vicenda. Accanto, un bimbo seminudo abbraccia un cucciolo di lupo e lo impiastriccia con dell’olio ricavato da una foca trucidata giorni avanti: servirà a lubrificare gli occhi della madre, così che possa piangere davvero e, finalmente, dissetare il figlio con dolore meno denso.

Più in là, in un ripostiglio delle scope, accovacciato accanto a un foro irregolare ritagliato nel parquet, un padre pesca con la lenza ed un rocchetto. Le mani sono gonfie e screpolate, le dita troppo corte non controllano lo scorrere del cavo che da tempo, sotto l’acqua, è già marcito insieme all’esca. Occasionali blizzards confondono lo scopo dei suoi gesti, inamidandolo da sempre nello stesso ripetuto istante, in una sola desolata, speculare geografia.

« Sole gentile, sole ritorna! » gracchia la voce della inuit tozza, imitando quella del vento « Fallo per l’orso, io sono l’orso! » risponde la inuit cerea, scimmiottando la risacca contro a un fiordo.

A questo canto l’ombra della madre vibra. Per il tempo di un perdono, elastica e danzante, si dilata e si ritrae più volte e quasi pare che si sdoppi. Il bimbo dal vestito in funi grezze insegue con lo sguardo le due madri proiettate sul soffitto. Ritiene che una sola sia la vera, eppure non la riconosce, nonostante l’una danzi e l’altra resti immota come pietra. Ne ha paura. Chi è quell’entità danzante? Quello sbuffo di vapore nero e tremolante, troppo vivo, troppo intenso per carpirne il nucleo, la stabilità? Da quale delle due nascere ancora? Chi abbracciare? La paura spinge ad atti di sgomento che somigliano al coraggio. Questo il bimbo non lo può sapere ancora, ma s’arrampica ansimante sulla punta dei suoi piedi e tende un braccio ad acciuffar le sagome, tentando di accostarne i lembi a farli combaciare.

« Sole gentile, sole ritorna! Fallo per l’orso, io sono l’orso! » incalzano le due eschimesi, occhi negli occhi.

L’ombra danzante è sottomano ma, con scatto di moscone, sguscia via. Ha approfittato della strana melodia per trafugare l’olio destinato agli occhi della madre ed ora è inafferrabile come un delfino appena partorito. Il bimbo gratta il cielo con un’unghia e  cade a terra, mentre l’ago gli trafigge il polso ed un ruscello di acqua, miele e sangue scorre lento per le scale e infine giunge nel cortile, inonda il lupo che lo lecca avidamente. D’un tratto alla memoria del bambino affiora il padre. Non ha anche lui una lenza? Non è forse un pescatore? Rialzatosi, si lascia rotolare per la scalinata in legno che conduce al ripostiglio e qui ritrova l’uomo chino, lo sguardo fisso al foro nel parquet. Solleva un avambraccio, gli mostra fiducioso la ferita in segno di sottomissione e attende una carezza per potersi pronunciare. La lenza, molto tesa, appare strattonata a intermittenza, come se la terra intera vi si fosse appesa e sussultasse di dolore. Potrebbe essere un salmone o uno storione, o solamente un desiderio di salmone o di storione. Ma il padre non si cura del pescato, osserva inerte il foro e non v’è nulla che lo possa separare da quel buco che ha colmato di speranze e aspettative.

« Orso dei ghiacci, figlio del mare! Se vuoi cacciare con uomo, da uomo ti devi vestire! » prosegue inarrestabile e violento il canto Inuit.

Vestirsi con che cosa? Attorno non v’è nulla: solo ghiaccio ed una scala che riporta dalla madre. Sopra ancora sta il soffitto ed oltre, forse, un cielo, ormai rigato di bestemmie tratteggiate da rosari lavorati in legno chiaro, costellati di pois che riproducono all’interno altri pois di stoffa ritagliata a croce in una notte di dicembre in cui un bambino cerca una carezza o un indumento per averla. Che indumento? E dove? Ora l’orso, sebbene non si veda, comincia a far paura.

« Padre! » esclama il bimbo strattonando l’uomo per un braccio « Padre aiutami, ti prego! La madre ora ha due ombre ed io vorrei cucirle insieme. Ma sono troppo in alto, non ci arrivo. Padre, aiutami, mi vedi? Sono qui, mi vedi? » .

Senza sollevare il capo, lentamente il pescatore addita il foro. « Sei tu figlio? » sillaba con voce roca di chi parla raramente o non ha parlato mai. « Lo vedi, figlio, questo foro? » prosegue più  sicuro « Ebbene, un giorno tutto questo sarà tuo! ».

« Padre, mi sono fatto male. L’ago mi ha punto ed esce sangue! » aggiunge il bimbo protendendo il polso insanguinato.

Le inuit hanno iniziato ad imitare il verso del delfino. L’uomo rimane lungamente assorto in un silenzio a tratti invaso dagli schiocchi cadenzati. Infine, monocorde e stanco, aggiunge « Lo vedi, figlio, questo foro? Ebbene, un giorno sarà tuo! ».

Fuori, il raggio di una luna del color di panna sporca, fotocopia di se stessa, si fa strada nella notte brancolando attorno ai cumuli di neve. La piazza si rischiara: nel centro v’è un abete inghirlandato di minuscoli nastrini colorati, appesi ai rami come anelli al dito o cuccioli di cane alla mammella. Rintocca una campana, pare sughero compatto, picchiettato contro nubi di bambagia modellata su di un’anima di stagno: flessibile, ondulante. Antecedente il tempo, i luoghi e la ragione, un corpo gigantesco con la coda di rugiada sfavillante fora il cielo, celeste di cometa incede, ma nessuno nella casa ne ha sentore.

Il bimbo dalle vesti in funi grezze osserva sconsolato il padre e si ritrae in un pianto interno, ottuso e greve come stilla di caverna. Nessun vestito lo può fare uomo, nessuna madre infonderà l’amore. S’accascia sul parquet gelato, occhi nascosti dietro a mani piccole ed asfittiche. Come una vecchia inuit, si allontana dal villaggio e attende l’orso a porre fine all’esistenza: le zanne, lo sciabordio del ghiaccio, il vento tra i capelli. Il nulla.

«Orso dei ghiacci, amico fraterno » singhiozzano le due eschimesi « quanto è lontana la luce?».

« Guardami! » irrompe una voce arrochita « Voltati, cucciolo bianco di uomo! ».

«Non voglio vederti! » risponde il bambino « Divorami e basta! Fai presto, non voglio vederti!».

« Voltati! » insiste la voce.

Lo sforzo muscolare è sorprendente: le vertebre sono ruote dentellate arrugginite. Si odono ingranaggi risuonare e ad ogni scatto gli occhi si aprono di un poco.

« Su, guardami! ».

A un metro dal terreno, fluttuante, incastonata in un’aurora boreale in miniatura, soffusa come il dormiveglia sta una foca di indicibile bellezza. Intrecci d’alghe rosse e cinerine ne rivestono la nuca e si riversano in torrenti lungo il corpo, a terminare in una coda d’oro e argento che riverbera di antica ninna-nanna. Negl’occhi, dolci e cupi come perle nel kajal, respira il mare: sublimi e lacrimosi cavalloni s’inseguono schiumando e la risacca avviene in battito di ciglia, ad ogni istante rinnovata. Sul petto pulsa una spirale di cangianti, colorate acrobazie, galassia dentro a cuore di galassia, eterno labirinto senza uscita in cui trovarsi oppure perdersi è medesima, incredibile magia.

« Chi sei? » domanda il bimbo sussultando.

« Io sono Sedna » risponde la creatura in un sorriso che tintinna tutt’attorno « Sono Sedna e tu sei un cucciolo del mare. Non temermi, so che cosa vuoi. »

« Io non ti temo. »

« Siedimi sulla coda e tienti forte. Stringi l’ago tra le dita ed assicurati vi sia abbastanza filo. Fa in fretta, da troppo attendi. Forza! ».

Il bimbo si rannicchia in una pinna e l’altra si richiude dolcemente a farne uovo in nido, seme nel terreno. Solo il braccio, la cui mano stringe l’ago, resta fuori, pencolante in aria. Si leva forte un suono, un potentissimo fruscio come d’autunno in mezzo a un bosco e ha inizio l’ascensione. Il padre s’allontana, si fa piccolo, distante: ora è una pesca, ora una noce, ora di riso un chicco, ora è scomparso. L’intero mondo ruota. Prima lento, poi veloce, infine è un gorgo di bagliori, cilindro di vertigini e pareti accelerate attorno a un perno di stupore, forsennato otto-volante. E sale e sale. E a un tratto il perno sfreccia accanto alle due ombre della madre e l’ago nella mano del bambino vi si impiglia, le perfora, le rapisce come fiocina col pesce e le trascina in una corsa verso il cielo, combacianti, sovrapposte e unite. Nel mentre, il corpo gigantesco con la coda di rugiada, celeste di cometa, discende sopra il tetto della casa e geme luce come a giorno. Si accendono fiammelle, nelle strade accorrono ritagli di celata umanità: pastori, pescatori, intabarrati manigoldi si mischiano a belati fragorosi, la folla, risvegliata goccia a goccia dalla luce, ora è l’ oceano. E sale e sale. E nel frattempo la cometa scende e scende. E il gorgo sale e sale e sale...si soffoca di nausea, di dolore, di velocità, di freddo, di paura, amore, solitudine, abbandono, eternità... Lo schianto!

Il turbine si cheta. Dolcemente prende a roteare, a beccheggiare come culla d’aria affaticata. La cometa si disgrega in fiocchi evanescenti, morbida lanugine di tempo che ricade lenta al suolo. Ogni lapillo, come acaro di scabbia, scava grotte nella neve. Cunicoli di estrema precisione, aeree cavità frutto di incontro tra acqua e fuoco emanano vapore. Lassù, tra un angolo di stella e la convessità di luna, compare una figura antropomorfa, rannicchiata come feto, rivestita di lucente bava densa. Una gomena la trattiene per la vita al tetto della casa ed essa levita leggera, anela al cielo come mongolfiera voluttuosa di spezzare quell’ormeggio. Il cavo prende a sfilacciarsi. Gli occhi degli astanti ne riflettono ogni minima tensione, il fiato è fermo, trattenuto in un sublime istante di pre-morte. Poi lo schiocco, la frattura. Il feto rannicchiato prende il volo. Apoteosi di possente desiderio, si allontana, si fa piccolo, distante: ora è una pesca, ora una noce, ora di riso un chicco. Ora un puntino luminoso, molecola di sabbia nella melma dello stagno universale. Poi silenzio. La strada resta spoglia: la gente torna là di dove era venuta ed anche l’ultimo portone si richiude, dando al mondo la parvenza di una piazza fiocamente illuminata a ricordare che è Natale.

«Orso bellino, bell’orsettino » canta sommessa un’infermiera dai capelli tinti in biondo come grano a fine luglio, cullando un bimbo tra le braccia. « Bimbo carino » fa eco un’ ostetrica, mentre getta in un bidone dei guantini di caucciù.

« Portate via il bambino » ordina un uomo con divisa verde e il viso ascoso da una mascherina. La sua voce è stanca, antica. « Cristo, sembrava non volesse proprio nascere! ».

« Ma questo è un vero ometto, forte e bello! » canticchia l’infermiera uscendo dalla sala nell’istante in cui la lampada scialitica si spegne e torna, lieve, il buio.

Y. Stratos ®

 
 
 

La sete

Post n°18 pubblicato il 24 Luglio 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Il locale è nascosto. È possibile scorgerne l’uscio soltanto col passaparola. L’insegna, purpurea ma fioca, fa aggetto in un piccolo metro di asfalto celato da un angolo tetro incavato all’interno di un angolo oscuro, a sua volta incassato tra finte sporgenze dipinte di nebbia che creano una nicchia, profonda ma angusta. L’ingresso presenta tre porte: la prima ha il colore del buio ed è fatta di puro carbonio, la seconda è barriera traslucida d’aria compressa sparata in brutali correnti, la terza è d’avorio africano splendente. Un piccolo atrio scavato nel plexiglas accoglie cappotti e cappelli e si apre a estuario in cunicoli stretti, foderati di cuoio conciato ed immerso in tintura castana. I cunicoli sfociano, ognuno ad altezza diversa, in un vacuo salone rotondo e biconcavo al centro. Non v’è che un bancone di marmo. La ragazza sta dietro il bancone: vermiglie le labbra, vermiglie le unghie, vermigli i capelli. Mesce bibite dense e sorride. Avventori scomposti si accalcano attorno a un cilindro di acciaio che termina in una stenosi beante: da questa, la bibita densa è sputata in un grosso catino di rame da cui la ragazza, con piccole ciotole in peltro, attinge del liquido spesso e carminio. È la sola ragazza là dentro. Circondata da visi assetati ed urlanti, si muove con tenera grazia e dispensa bevande ad ognuno, con gesto meccanico, ma ben misurato, dimostra interesse per tutti. In realtà lei non vede nessuno, due lenti a contatto rossastre rivestono l’iride e sporgono sulla pupilla a restringerne il campo visivo. È così da contratto – lei dice – non deve vedere nessuno, non può ricordare nessuno, è assunta per mescere e dimenticare. D’altronde, a sua volta nessuno ricorda il suo viso. Ciò che attrae è quel colore vermiglio di smalto, rossetto e vernice, nessuno si cura di cosa si celi al di sotto, l’infrarosso è invisibile ai sensi e la sete è l’urgenza assoluta. La folla maschile è pigiata, i corpi si strusciano l’uno sull’altro, sudati e violenti. Una radio avvitata al soffitto trasmette una nenia sinistra; una sorta di prece, volgare e insistente, dissemina l’aria di germi invasivi, motteggi stanati da un mantra ancestrale: « Il sangue è l’essenza – bevetene tutti – prendetene tutti – tingete di rosso la vita ». La ragazza non sembra capirne una sola parola. Capire non è necessario, lei stessa non parla, si limita a mescere il solo prodotto richiesto e sorride. A nessuno interessa che cosa lei pensi, da dove provenga e chi sia. Ha un’età tra i venti anni e gli ottanta, le mani serrate in due piccoli guanti di diafana pelle, alle orecchie due ciondoli a forma di goccia pendente. Caviglie sottili solcate da lacci di cuoio, sospese su tacchi elevati, si muovono leste nel nugolo irsuto di maschi, schivando a fatica le pozze di sangue raccoltesi a terra. « È soltanto un lavoro » ripete a se stessa « soltanto un lavoro ». Inoltre il gestore – uno scricciolo d’uomo peloso con collo di toro – sebbene sia affetto anche lui dalla cronica sete, le lascia una valida parte di incasso, provvede a saldarle sia vitto che alloggio, ne cura l’immagine pubblica. È vero che siede nel retro, protetto da un vetro oscurato, ed osserva ogni suo movimento e talora si infuria se qualche avventore domanda uno sconto, ma questa evenienza è infrequente: la sete giustifica l’esuberanza del prezzo. Giustifica tutto.

 Intanto all’esterno un’anonima folla maschile è in attesa di entrare. Protetti dal buio, individui di varie fattezze ed età, assetati e impazienti si schermano dietro a riviste ed occhiali da sole, camicie con baveri alzati, cappucci di felpe. Ciascuno è convinto del mantra, nessuno di loro ritiene che il fare del sangue bevanda sia insano, eppure si ignorano a turno, vorrebbero berlo lontano dagli occhi degli altri, in un rito privato. Non sanno da dove gli giunga la sete, non sanno il perché la si provi, a che serva placarla in quel modo. È un richiamo potente, una subdola, piccola spina invisibile ben conficcata che infiamma il pensiero a cadenza costante e costringe a una sorta di caccia animale furiosa. Il motivo si perde nel tempo, capirlo non ha più nessuna importanza, soltanto una cosa è essenziale: entrare, levarsi l’arsura, tornare nel buio. Lo sa la ragazza che il mondo là fuori è così? Lo sa, ma non conta, è soltanto un lavoro, la sete non è cosa sua. Finito il suo turno, si ritira in un piccolo monolocale in affitto, lontano da tutto, arredato con gusto di bimbo o di anziano sereno. Impaziente si leva le scarpe – massaggia la pelle laddove stringevano i lacci – si strucca. Levate le lenti a contatto, la luce le esplode negli occhi: il rifugio ha pareti con porte-finestra che danno a ponente, il tramonto è un intreccio di fiori, un riassunto di sogni dipinti che screziano il cuore di pace. A doccia ultimata, lei indossa un kimono di lino e, scostate le tende, si siede a caviglie incrociate di fronte a quel gioco policromo e immenso. Il tempo di un ammiccamento e un’ ipnosi profonda la assorbe: lo spazio si espande, gli oggetti si fanno distanti, l’eleganza del vuoto risana ferite nascoste in un angolo tetro celato da un angolo oscuro, silenzio di un cuore che urla. Le palpebre chiuse dilatano il campo visivo. I fotoni tratteggiano mondi squisiti, realtà parallele, fantastici angeli privi di sete, con ali sontuose e regali (e privi di sete), con occhi ricolmi di anima e idee (e privi di sete), con gesti di tenero airone orgoglioso (e privi di sete), fluttuanti su trame di delicatezza e attenzione ed amore e presenza, empatia, devozione di angelo privo di sete. E più su, dove prima il soffitto chiudeva la stanza, si aprono mondi più vasti dei primi: giardini di semplice essenza fuggiti dai corpi, solcati da stormi di anime senza una meta (la meta è dovunque, la meta è il principio, la meta è la fine), frinire di grilli e cicale in un mare dorato di grano ondeggiante in un luglio perenne. Ed ancora più su, superati i confini del cosmo, frantumate barriere del suono disgregano il verbo e troneggia il silenzio assoluto: la culla di luce ondulante è raggiunta, la sete è una cosa remota.

La notte ha ammansito la sera innalzando uno spicchio di luna. Il kimono si tinge di latte, le pieghe di stoffa si fanno sentieri ed i raggi vi slittano sopra stillando sui piedi raccolti, rimbalzano in volto ed il volto si specchia nel vetro che da sullo spicchio di luna. È un riflesso sfumato: una treccia incornicia due labbra distese, si flette sul collo, percorre una spalla e discende a pennacchio sul petto. Le guance – mari di Tranquillità separati dalle Alpi del naso – si incavano appena. La fronte – mare di Serenità – è una lacrima d’olio in quiete, lievemente chiazzata di antichi pensieri assopiti. Il grembo – mare di Fertilità – è protetto da piccole mani di giada, congiunte in un segno di pace insueta. Accanto, una bambola in abito bianco di sposa, adagiata nell’incavo di una parete, sorride alla stanza. I suoi occhi di plastica verde rammentano madri perdute, carezze sgusciate in imbuti profondi di tempo. Sulla schiena si scorge un occhiello annodato a una fune sottile: tirandone il capo, un dischetto riposto nel ventre di gomma si aziona e, sebbene le labbra scolpite nel gesso mantengano intonso il sorriso, la bambola erompe in un pianto angoscioso. Sopra a mensole brevi si allineano torme di oggetti, ricordi di tutta una vita: un berretto di lana di piccola taglia, un’ampolla di vetro con acqua di mare, un ovetto di Pasqua dipinto, un ricamo iniziato e lasciato a metà. Nel mentre, la ruota celeste volteggia, le ore trascorrono mute, accidiose. La notte pian piano si leva quell’abito scuro ed indossa il chiarore dell’alba: dapprima due guanti di nubi citrine, poi un tenue cappello di piume cremisi; distratta, si tinge le unghie di smalto, si spalma il rossetto, si china a legare dei lacci di cuoio su tacchi elevati ed indossa due lenti a contatto. Infine – alle orecchie due ciondoli a forma di goccia pendente – si avvia verso un metro di piccolo asfalto celato da un angolo tetro nel sorgere antico di un giorno qualunque. « È soltanto un lavoro » sorride quieta « soltanto un lavoro. »

 

Y. Stratos ®

 
 
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963