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ANTONINO ZICHICHI ED UMBERTO VERONESI

Post n°81 pubblicato il 13 Novembre 2016 da giulio.stilla

17 h ·

L'Huffington Post

· "Caro Umberto, Dio esiste e la prova è l'universo" (FOTO)

"La scienza non ha mai scoperto nulla che sia in contrasto con l'esistenza di Dio. L'ateismo, quindi, non è un atto di rigore logico teorico, ma un atto di fede nel nulla". Antonino Zichichi

 

Considerata l’attenzione ricevuta da parte di alcuni amici ed ex-alunni, ripubblico su “Sapere aude” la diatriba sollevata dallo scienziato Antonino Zichichi sull’ateismo dell’oncologo Umberto Veronesi, recentemente scomparso.

 

Desidero aggiungere all’articolo di ANTONINIO ZICHICHI alcune mie argomentazioni, in maniera molto dimessa e senza alcuna pretesa di esaurire una difficile tematica, che ha fatto scrivere, nel corso dei secoli, un numero infinito di pagine filosofiche, L’autorevole scienziato ANTONINO ZICHICHI ha sempre esternato il suo pensiero sul tema dell’esistenza di Dio, apportando argomentazioni di natura logico-matematica per sostenere che l’esistenza stessa dell’Universo è l’effetto evidente e concreto dell’esistenza di un suo Autore.
E’ questa la cosiddetta Prova Cosmologica dell’esistenza di Dio, addotta da molti filosofi a partire da Aristotele e poi, via via, da San Tommaso, Cartesio, Locke, Newton, Leibniz, i Deisti dell’Illuminismo come Voltaire, i quali tutti partivano dalla tesi che se esiste l’effetto deve esserci necessariamente la causa. Se esiste il condizionato, deve esserci necessariamente l’incondizionato. Se esiste il contingente, deve esserci il necessario. Se esiste l’imperfetto, deve esserci necessariamente il Perfetto, ecc., ecc. Io, in tutta franchezza, non sono d’accordo con questo tipo di argomentazioni e, quindi, anche con lo scienziato Zichichi.
Condivido la tesi di Emanuele Kant, che nella “Dialettica trascendentale” della sua “Critica della Ragion Pura” sostiene che la categoria della causa, valida nel mondo dei fenomeni, perché soggetta a verifica empirica, non può, a rigor di logica, essere estesa fuori del mondo come causalità del mondo, per il semplice motivo che quest’ultima presunta “causalità” non cade sotto l’analisi della nostra esperienza empirica.
Ritengo, poi, che dedurre l’esistenza di Dio attraverso queste argomentazioni di riflessione filosofica non è conveniente e propizio né all’ateismo dell’oncologo Umberto Veronesi né alla fede cristiana dello scienziato Antonino Zichichi, perché tutti e due pretendono spiegare le atroci sofferenze dell’uomo nel mondo, l’uno negando Dio e l’altro sostenendo la sua esistenza come Autore dell’Universo.
Per queste vie non si cava un ragno dal buco. Per chi professa la fede nel Dio dei Cristiani, non esiste soltanto la fede, cioè l’abbandono totale nell’Amore di Dio, ma anche, a mio modestissimo parere, l’argomentazione logica, più logica della Prova Cosmologica, sopra esposta, consistente nel fatto, provato ed esperito, che l’unica “vita” di questo mondo, che esiste come “Umanità” e “Libertà”, è quella dell’uomo. Nessun altro animale è dotato di questa “Essenza”. La nostra esistenza finisce, ma la nostra Essenza-Umanità è il marchio eterno della nostra identità. Ecco perché è più che giustificato sostenere che Deus Caritas Est, che Dio E’ Amore, perché Dio ha creato l’uomo “a sua immagine e somiglianza”, cioè a immagine del suo Amore, della sua Libertà, ma anche della sua Intelligenza, che da sempre fa discutere scienziati e filosofi, come Umberto Veronesi ed Antonino Zichichi.

La prova dell’esistenza di Dio, cari amici, non va cercata fuori del Mondo, ma nel Mondo, nelle opere di Bellezza, nelle opere di Intelligenza, nelle opere di Ingegno, nelle opere Etiche e nelle opere di Carità.

 
 
 

LO STATO COMATOSO DELLA SCUOLA ITALIANA

Post n°78 pubblicato il 24 Settembre 2016 da giulio.stilla

 

 Lo stato comatoso della Scuola Italiana.

 

Leggevo, questa mattina, la ripubblicazione, fatta da FB, di un mio scritto di alcuni anni fa sullo stato comatoso della Scuola Italiana. Esprimevo in esso considerazioni critiche di grande durezza nei riguardi di una classe politica che ha sempre disatteso le speranze degli uomini di Scuola, non smentendosi mai nell’ostentare demagogia e superficialità per i diversi tentativi di riformare la Scuola, come quello ultimo della Ministra della P.I., Stefania Giannini. Anzi, già si parla del prossimo Esame di Stato, che sarà radicalmente rivoluzionato a conclusione del corrente Anno Scolastico.

Sarebbe troppo prolisso e noioso riproporre la lettura di quello scritto, dal titolo “Una Paideia per un nuovo Millennio”. Mi basta riportare la parte introduttiva di esso per meglio comprendere le ragioni che mi hanno indotto a scrivere, stamani, il Commento, in neretto, al “ricordo” di FB.

 

Scrivevo:  

“Lunedì, pomeriggio, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, inaugurando l’anno scolastico al Quirinale, nel suo intervento di conclusione della manifestazione ha trovato il modo di affermare: “Non possiamo più restare prigionieri di conservatorismi, corporativismi e ingiustizie”, per sostenere esplicitamente l’azione riformatrice del governo di Matteo Renzi, che dagli Stati uniti, ieri, ha gridato che urge “investire nella scuola, perché crescano le idee”.

Della urgenza di una Riforma della Scuola si parla da decenni. Io sono cresciuto con questi ritornelli negli orecchi fin da quando, scolaro delle scuole medie, ho incominciato a capire che la Scuola Italiana era una grande moribonda, al cui capezzale si sono succeduti, di decennio in decennio, luminari di riformatori, pedagogisti, sociologi, osservatori attenti della nostra realtà sociale, insigni ministri della pubblica istruzione, ecc. ecc., senza mai riuscire a realizzare una riforma scolastica che permanesse almeno per un quinquennio.

La verità è che, dopo la Riforma di Giuseppe Bottai del 1940, la quale  rivedeva e modificava la Riforma di Giovanni Gentile del 1923, in Italia non si è più riusciti a varare una riforma organica, dalle scuole elementari all’Università.

Capire le difficoltà intrinseche alla politica e alla stessa Scuola, che hanno impedito il suo processo di ammodernamento, è risultato sempre una cosa vana quanto tutti i tentativi fatti per portarlo a termine.

Arrivano, adesso, Matteo Renzi e la sua ministra della pubblica istruzione, Stefania Giannini, e scoprono che bisogna “investire nella scuola, perché crescano le idee” (Matteo Renzi) e che, sulla professionalità dei docenti, “chi fa di più prende più soldi” (Stefania Giannini).

 Che sia la volta buona per guarire la grande ammalata, avendo da parte di tutti la consapevolezza che non esistono riforme a costo zero e che soprattutto per la scuola, per realizzare una Riforma vera, una palingenesi del sistema educativo italiano, occorre chiamare in servizio una classe di docenti preparati, veri talenti dell’educazione e dell’istruzione, incoraggiando i giovani a scegliere facoltà universitarie che abbiano come unico sbocco professionale l’insegnamento.

Per far questo, però, le sirene che dovrebbero indurre i giovani e le famiglie a scegliere discipline insegnative all’Università non sono i convincimenti tradizionali: “la missione dell’insegnante”,  ‘l’attitudine”, “tre mesi di vacanze estive”, “non riesci ad essere bravo ed  a guadagnare con la tua professione, vai a fare l’insegnante”, “per una donna è preferibile la professione docente”, ecc. ecc.   -  Anche se, per alcuni studiosi della Psicologia dell’Età Evolutiva, il processo tuttora in atto della completa “femminilizzazione” della Scuola potrebbe implicare alcuni rischi  per una corretta crescita psico-sociale degli scolari “maschi”.   -  I concetti di sopra, comunque, sono tutti luoghi comuni, stereotipi sbagliati che non reggono più. Oggi, occorrono i soldi, i talleri da dare alla nobile attività dell’insegnamento, ai giovani talenti che verrebbero così distolti dall’ossessione di superare i test di ingresso ai corsi universitari di Medicina o di altre Facoltà, che promettono lauti guadagni e gratificazioni sociali.

Sono gli Insegnanti che danno la vita ai Medici, Giuristi, Ingegneri, Biologi, ecc. ecc. 

Senza gli Insegnanti queste ultime figure professionali non esisterebbero e le società degli uomini non sarebbero più emancipate dall’ignoranza, dalla barbarie, dalla violenza, dalla imbecillità dei governanti. Desideriamo una Scuola illuminata, capace, efficace, efficiente ed al passo con le necessità dei nostri tempi; paghiamo gli Insegnanti e non facciamo di essi dei frustrati sociali senza motivazioni e senza competenze.

Per formare un buon cittadino, la Pedagogia più avveduta ha sempre teorizzato “Tre saperi”:  a) sapere,  b) saper fare,  c) saper essere. E cioè, per costruire una società di uomini liberi e razionali occorrono, anzitutto, le competenze, le conoscenze teoriche; poi la abilità pratiche  e, infine, il saper essere uomo, con tutte le spinte interiori che hanno origine dallo Spirito, dall’Umanità e non dalla bestialità e dalla ferocia.

I “Tre saperi”, però, per essere impartiti con sicuro profitto, devono essere coniugati da un quarto “sapere”:  il “Sapere” da parte della nostra società e dei nostri politici governanti  che  la Scuola italiana  ha urgente necessità di disporre di una classe di Insegnanti ben preparati e ben pagati.

Questi Insegnanti non dipendono dai Presidi, dagli Ispettori, dai Partiti Politici,dai Sindacati, dai Bidelli,  dalla burocrazia, dalle Imprese di pulizia, ecc. Questi Insegnanti dipendono da se stessi, dalla loro libertà e dalla loro deontologia, perché sono la deontologia e la libertà che fanno la Scuola.

E’ stato, infatti, questo Spirito che ha caratterizzato i miei indimenticabili 40 anni di insegnamento, condotti sempre all’insegna della libertà e del dovere professionale, insofferenti sempre dell’arroganza e della prevaricazione di chi tentava talvolta di deprimerli. E’ stato questo stesso Spirito che il 6 dicembre 2003 mi suggeriva di scrivere il seguente intervento”:

 

Ho commentato oggi, 24/09/2016:

 "Tempus fugit irreparabile": il tempo fugge irrimediabilmente, come la Scuola italiana che muore per una malattia congenita senza rimedio. Ringrazio FB di aver ricordato questo mio scritto di alcuni anni fa, a dimostrazione che i problemi della Scuola in Italia si sono ulteriormente aggravati, nonostante la presa di posizione dell'Accademica Stefania Giannini, ministra della P.I., che, proprio con questo avvio dell'anno scolastico 2016, ha fatto di tutto per creare un vergognoso disordine fra i docenti, chiamati ad emigrare a mille chilometri dalle proprie residenze per uno stipendio di 1200 euro. Che la smettano tutti di parlare di una scuola che incomincia a funzionare. Ci vogliono i talleri, di cui scrivevo sopra. Devono togliere i soldi ad altre professionalità e darli agli Insegnanti. Un medico di base, che lavora per tre ore al giorno, paga di IRPEF, lo stipendio del cosiddetto Professore. Non si può bocciare il 60% dei docenti in cerca di lavoro, partecipanti all'ultimo "concorsone", e commentare che gli aspiranti all'insegnamento sono impreparati. E' stato un clamoroso autogol per Lo Stato italiano. Vorrei sapere chi sono gli esaminatori dei docenti riprovati. Sono forse usciti dalle Università, dove insegnano i colleghi della Ministra Giannini?. Così pure è una vergogna insopportabile il sapere che, ogni anno, viene bocciato l'80% o il 70% dei giovani luareati in Giurisprudenza, che partecipano all'esame di abilitazione per l'esercizio dell'Avvocatura. Se si vanno a leggere i giudizi formulati delle Commissioni Esaminatrici per motivare le bocciature dei giovani giuristi, in moltissimi casi si scoprono contraddizioni ed errori marchiani da denunciare ai TAR di tutta l'Italia. Si potrebbe continuare così, all'infinito, anche in tutti gli altri abiti disciplinari. Lo scandalo non muta. Tutto muta, ma in Italia vi è una Legge del mutamento che non muta: è la Legge della corruzione. E' unica dappertutto. Il tutto è sempre infarcito da pratiche disoneste e corruttele, elevate a sistema, che non lasciano speranze alle vere Intelligenze, costrette ad emigrare all'estero. Ancora stamattina, i giornali scrivono che in tutte le migliori Università Italiane sono presenti migliaia di omonimie, riconducibili quasi tutte al traffico del nepotismo dei cosiddetti Baroni Accademici. Nipoti e compari sempre di mediocre fattura.

 

 
 
 

AD ANTONIO DEL VECCHIO

Post n°77 pubblicato il 14 Settembre 2016 da giulio.stilla

   SU SOLLECITAZIONE DI ANTONIO DEL VECCHIO

Caro Antonio, ho letto, l’altro giorno, il tuo interessante articolo sulla figura di un certo PETER PETRUCCELLI, artista assai noto in Australia e nei Paesi anglosassoni, prima che a San Marco in Lamis, sua terra d’origine. Ho apprezzato molto, come tu scrivi, la vasta ed “eclettica” produzione artistica, fatta di singolari creazioni in ceramica, incisioni, opere scultoree, architettoniche, e di pitture a soggetti tematici di varia ispirazione, quali i “dipinti su tela ad olio di lino o acrilico”.

Mi sorprendo come a te risultano tutte queste belle informazioni, che, evidentemente, ti pervengano dalla tua amicizia con il fratello dell’artista, Nick, che anch’io ho avuto modo di conoscere, perché padre di una mia ex-alunna ed autore, anche lui, di molte opere d’arte, come la scultura lignea della Madonna del Carmine di Rignano.

Se ho ben capito dal tuo articolo di giornale, starebbe per essere dato alla stampa un libro sulla figura dell’artista italo-australiano, che sarebbe già stato scritto da alcuni amici tuoi di San Marco.

Suppongo che si tratti di diligenti segugi, che hanno, come al solito, fiutato la pista e la possibilità di attingere il finanziamento da qualche parte per la pubblicazione del libercolo, che mai nessuno leggerà. Si sperpera anche in questo modo denaro pubblico. Ma tutto è giustificato e perdonabile, quando è a rischio la vanità di costoro, protesi ad occupare un posto in vetrina per l’eternità.

A me invece è bastato leggere il tuo breve scritto per rimanere informato sulla straordinaria personalità del Petruccelli, la cui fama si è espansa nel mondo, a differenza di tanti suoi concittadini sammarchesi, rimasti chiusi dentro gli orizzonti limitati dalle cime delle colline che circondano il paese.

Questa è la ragione oggettivamente orografica, che ha determinato la nascita di tanti “poeti” in lingua, in dialetto, in vernacolo, fioriti, in tutti tempi, a San Marco in Lamis.

Essi, infatti, non avendo la possibilità di spaziare con la mente e la speculazione sull’Infinito, se lo devono immaginare con il sentimento, che, come si sa, è la via più diretta per raggiungere l’Assoluto.

Con la speranza che questa mia gratuita ma bonaria ironia non offenda la suscettibilità degli amici del mio amico, abbiti i miei saluti con vivissime cordialità.

 
 
 

"ORA CHE FACCIAMO ?" 3

Post n°76 pubblicato il 05 Settembre 2016 da giulio.stilla

   “ORA CHE FACCIAMO?”     3

 

Bisogna, invece, invertire il cammino, risalire con la nostra esistenza la china, aspra e ripida, per emergere, dalla miseria dei nostri impulsi sensibili e dal nostro egoismo, alla nobiltà dello spirito e della intelligenza.

Bisogna migliorare la nostra esistenza, perché il fine ultimo di questa è la compiutezza della nostra Umanità.

Scrive Johann Herder (1744-1803), nella sua opera fondamentale “Idee per una filosofia della storia dell’umanità”: “A questo scopo evidente è organizzata la nostra natura; per esso ci sono dati sensi e impulsi più raffinati, per esso ci sono date la ragione e la libertà, una salute delicata e durevole, il linguaggio, l’arte e la religione. In ogni condizione e in ogni società, l’uomo non può avere altro in vista né può altro costruire che l’umanità, così come la pensa in se stesso”. (Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero, “Itinerari di filosofia”, vol. 2B, dall’Illuminismo a Hegel, Edizione di G. Fornero, pag. 805, Paravia. 2003).

Herder, filosofo, letterato e critico tedesco, era stato uno dei più grandi discepoli di Kant, che amò più di se stesso, anche se non condivise appieno la filosofia del Criticismo, rivendicando per sé una filosofia della fede in Dio, volta a superare il dualismo lasciato da Kant tra l’intendimento della natura e l’intendimento della storia ovvero dello spirito e della libertà.

L’uomo ha un compito ben definito: realizzare la sua Umanità attraverso l’educazione che gli provenga principalmente dalla fede, ma anche dalla ragione, che, secondo lo scolaro di Kant aveva già dimostrato tutti i suoi limiti nel comprendere il progetto della storia.

Io ritengo, invece, in misura più dimessa della riflessione di Herder e nel pieno rispetto per le delicate problematiche dei nostri tempi storici, che fede e ragione non possono confliggere fra di loro, ma che l’una ha bisogno dell’altra e viceversa, per non scadere nel fanatismo religioso, responsabile oggi e nel corso della storia degli uomini di tanti atroci crimini commessi al grido di “Dio è grande” e “Dio lo vuole”.

Io, invece, ritengo più kantianamente che le preghiere più amate da Dio, dalla sua divina saggezza e dalla sua suprema bontà, sono quelle a Lui innalzate dalle opere morali degli uomini, che si addicono sia agli uomini di fede sia ai non credenti, perché tutti dobbiamo rispondere all’imperativo etico della nostra coscienza per migliorare il corso della storia.

Quando Monsignor Giovanni D’Ercole, in mezzo all’omelia pronunciata alle esequie delle vittime del terremoto ad Ascoli Piceno, esprime lo sconforto e la disperazione di Giobbe con le parole: “Ora che facciamo?”, mi viene spontaneo osservare, con spirito, ripeto, assolutamente laico che la domanda è superflua e retorica, prima perché Dio non risponde alla logica degli uomini e poi perché la risposta è racchiusa più umanamente nella domanda: “Ora che facciamo?”.

Facciamo che dobbiamo migliorare la nostra esistenza, punendo i ladri, i corrotti, i corruttori, i concussori e mandando alla gogna i politici delinquenti.

Facciamo che dobbiamo mettere in sicurezza antisismica tutta l’Italia, dobbiamo mettere in sicurezza la catena degli Appennini, tutta la Penisola dalle Alpi alla Sicilia, da Gemona del Friuli a Messina, abitata da migliaia di borghi medievali, patrimonio culturale delle nostre genti storiche.

Come si può sopportare che nell’area vesuviana, alle pendici del Vesuvio, l’abusivismo edilizio è assoluto, e 700 mila persone vivono indisturbate all’ombra di una possibile sciagura vulcanica?

Se il terremoto di Amatrice si fosse verificato, dicono gli esperti, in Giappone o in California, non avremmo assistito al disastro e alla rovina di tante povere popolazioni. Sarebbe stato un normalissimo evento naturale, prestudiato e prevenuto dal grado di consapevolezza civica dei governanti di quei Paesi e dalla severità degli studiosi e degli operatori, non avvezzi a rubare e sollecitamente inclini ad evitare le tragedie pubbliche e private.

La nostra cultura occidentale e quella mediterranea, in particolare, dispongono di una tradizione umanistica, che affonda le sue radici nella “scuola dell’Ellade” di Pericle e di Tucidide, così tanto per citare un significativo punto di partenza della nostra vocazione agli studi umanistici, che oggi sembrano essere mortificati o quasi scomparsi nel sistema scolastico italiano.

Mi auguro che almeno un Sindaco degli ottomila Comuni Italiani, possa dire della sua città quello che Pericle diceva di Atene, nel 430 a.C.

Riassumendo i concetti più caratterizzanti la Orazione Funebre, pronunciata da Pericle, secondo la narrazione storica di Tucidide, in commemorazione dei Caduti nel primo anno della Guerra del Peloponneso, trovo eminentemente ammirevole che Pericle parla dei suoi cittadini come animati tutti da un grande spirito di distinguersi nelle arti e nel lavoro senza mai competere con invidia fra di loro, ma semplicemente per essere dei modelli di comportamento per gli altri e per le genti straniere. 

Trovo semplicemente ammirevole che Pericle parla della città di Atene come della culla della democrazia, perché governata non da una ristretta oligarchia, ma da cittadini a cui le leggi garantiscono giustizia e diritti uguali per tutti, privilegiando il merito e il valore di ciascuno e non l’appartenenza ad un partito politico. La povertà non è di ostacolo alla istruzione e alla formazione né impedisce la libera affermazione dei propri talenti nella vita privata e la espansione della fertile intelligenza nel rendere i servigi alla vita pubblica e alla polis.

Ciascuno gode della massima libertà ed è interesse della collettività permettere ad ognuno di vivere a suo piacere, senza essere per questo rattristato dalla invidia o dall’arroganza del potere.

La povertà non è motivo di vergogna o di umiliazione. Umiliante, invece, è il non fare niente per superarla, formandosi ad un mestiere, ad un lavoro ad un’arte. E la ricchezza non è mai motivo di oppressione per gli altri, ma sempre fattore di intraprendenza e di attività produttiva.

“L’amore del bello non ci insegna lo sfarzo, né la cultura c’infiacchisce”. Tutti i cittadini, ciascuno al proprio livello, devono interessarsi di politica, cioè di democrazia, perché questa è l’arte per garantire il benessere della cittadinanza. E’ la ricerca razionale per la creazione di una società fatta di uomini liberi e razionali, diranno e scriveranno, grossomodo, tutti i filosofi delle politiche liberali dell’età antica, moderna e contemporanea.

Il cittadino che non s’interessa di politica, cioè di democrazia, non è ritenuto un cittadino tranquillo, ma un cittadino inutile, tanto inutile per la sua vita privata quanto per quella pubblica.

La città di Atene è detta da Pericle “la scuola dell’Ellade”, perché, vivendo in essa, tutti i cittadini esprimono liberamente la propria autonoma personalità nelle più diverse forme di vita, distinte sempre dal piacere di ubbidire alle leggi e di esercitare la giustizia nel razionale rispetto per il benessere e la realizzazione dell’altrui personalità.

In Atene non si ruba e non si corrompe, non si evade il fisco e non si condona. Tutti pagano le tasse e tutti conformano il proprio comportamento pubblico e privato a rendere più evidente la grandezza e la bellezza della polis.

Perfino lo straniero, quando non sia soggetto di sovvertimento delle leggi, è sempre accolto, non come schiavo, ma sempre come persona per godere insieme a tutti gli ateniesi del benessere comune e della cultura, dell’arte e degli spettacoli della polis.

Per tutti questi aspetti e per altri ancora sottaciuti, Pericle ha ragione di definire la sua patria “la scuola dell’Ellade” e di presagire che tutti i cittadini di Atene “saranno oggetto di ammirazione ai contemporanei e ai posteri, senza nessun bisogno della lode di Omero”.

(Cfr.Tucidide, La  guerra del Peloponneso, II, 37-41, trad.it. di P. Sgroi, Istituto per gli studi di Politica Internazionale, Varese-Milano 1942, pp.197-199).

Questo discorso di Pericle è un capolavoro di educazione civica alla Umanità, scritto dallo storico Tucidide in tempi in cui fiorivano in Atene le   lettere e le arti, il teatro e la filosofia. Sono tempi in cui irradiavano luce e saggezza l’umanismo di Socrate, la dottrina delle Idee-Valori di Platone, la sistematica delle “scienze”, con la metafisica, la logica e la politica di Aristotele.

“Abbiamo superato Ippocrate, il padre della medicina, ma non Platone, il padre della filosofia”

 

 

 
 
 

"ORA CHE FACCIAMO ?" 2 1

Post n°75 pubblicato il 04 Settembre 2016 da giulio.stilla

            ORA CHE FACCIAMO ?”    2

 

Si parla sempre più spesso dell’urgenza di approfondire la riflessione filosofica sulla biologia, sulla fisica, sulla comunicazione elettronica, sulle tematiche ambientali, sulla medicina, sulle organizzazioni delle società, sempre più multietniche, multiculturali e multireligiose.

La società globale è stata già realizzata dall’economia, dalla finanza, dalla rete informatica, ecc., che rovesciano sull’uomo miliardi di informazioni e di istruzioni, ma l’uomo vive enormi difficoltà di organizzazioni sociali, di integrazioni etniche, di coesistenze di culture, di costumi diversi, di tradizioni, che spesso fanno registrare fra di loro distanze millenarie su un globo terrestre ridotto dalla velocità del tempo ad una ragnatela di spazi geopolitici tanto estesi quanto quelli raffigurabili su un gomitolo.

I problemi dell’uomo si sono dilatati su scala planetaria. Non ha più senso parlare o semplicemente pensare in dimensioni nazionalistiche o, per contrapposte posizioni, in termini teoricamente cosmopolitici. La contrapposizione non esiste più. E’ stata superata dalla realtà globale che impone a ciascun di noi, anche al cittadino del piccolo villaggio, di elaborare categorie mentali volte a rivoluzionare i nostri sistemi di coesistenza, creando istituzioni sociopolitiche e strutture culturali ed educative per diffondere e rendere omogenei i valori civili ed umani più onnicomprensivi delle esigenze e dei bisogni di ognuno.

Bisogna avviare presto un processo di globalizzazione effettiva, tendendo alla realizzazione di una società cosmopolitica, una federazione universale che nasca da una nuova organizzazione degli Stati nazionali, che, in dinamiche di sussidiarietà, si attivino e contribuiscano alla creazione e allo sviluppo di strutture economiche e produttive e alla diffusione di Accademie e di Istituzioni culturali e scolastiche in tutte quelle realtà geopolitiche, dilaniate dalle guerre intestine e dalla mancanza assoluta delle condizioni primarie ed elementari per sopravvivere alla fame, alle orribili malattie, alle miserrime condizioni imposte dalle violenze e dalle orde dei nuovi barbari.

Gli Stati Europei che per secoli hanno assoggettato le popolazioni indigene dell’Africa, dell’Asia, delle Americhe, nutrendosi delle loro energie fisiche e mentali e sfruttando le loro risorse naturali, adesso hanno l’obbligo morale di portare la civiltà vera in tutte quelle Terre martoriate dalla schiavitù, resa stato sociale e costruzione di benessere per una sparuta minoranza di colonizzatori.

Non è una utopia. Non può essere più una fantasiosa utopia, come ai tempi di Emanuele Kant, quando scriveva, nel 1795, l’importante saggio “Per una pace perpetua”, in cui sostiene, per l’appunto, il superamento degli Stati Nazionali e l’auspicio di passare alla creazione di una grande Federazione planetaria per la realizzazione della pace nel mondo e lo sviluppo delle società degli uomini, di tutti gli uomini formati ai valori etici della ragione e della libertà.

Oggi, una organizzazione mondiale cosmopolitica è dettata dalla necessità e dalla urgenza di trovare soluzioni alle espansioni inarrestabili di ingenti masse di migranti, che non possono, di certo, essere fermate dallo sterminio etnico e dai genocidi programmati, come leggevo in uno stravagante quanto assurdo articolo di giornale, in cui si delineava la possibilità che, per il prossimo futuro, i convincimenti del gotha della Finanza internazionale avrebbero già programmato la drastica riduzione della popolazione mondiale da 7 o  8 miliardi di persone a sole 500.000 (cinquecento mila).

Sarebbe questa, sì, una diabolica utopia, ma la Storia ci ammonisce a non considerare assurdo, folle o impossibile ciò che nel recente passato è stato reale, lucidamente reale, demenziale e possibile.

I tempi storici sono maturi per civilizzare le genti nel mondo intero, limitando le nostre ricchezze e lottando in ogni angolo del pianeta per riscattare gli uomini dalla crudele povertà, dalla nuda ignoranza, dalla feroce violenza.

Ciò che scriveva il filosofo Giovanni Amedeo Fichte nella sua celebre opera de “I Discorsi alla nazione tedesca” del 1808, in cui sostiene la tesi che la Germania, culturalmente e spiritualmente elevata, era chiamata a “realizzare la umanità fra gli uomini”, a me sembra che si possa ripetere per la nostra Europa intera, investita da una missione, direi, divina di “unificare tutto il genere umano”, costruendo delle società nazionali e delle comunità locali, fatte di uomini liberi e razionali.

E’ evidente che a queste espressioni si addice una univoca interpretazione, cioè quella di “realizzare la umanità fra gli uomini”, che per il filosofo tedesco aveva una specifica valenza culturale ed immanente, per me invece assume una importanza trascendente e metafisica, un impegno etico e religioso insieme, perché resto persuaso che la nostra Umanità è la Sostanza di natura divina, è la Essenza che aspetta di diventare esistenza, la nostra esistenza, educando noi stessi e il prossimo ai valori etici della ragione, della libertà e della fede nel Dio dell’Amore e dell’Autorivelazione.

Se questo Dio non ci fosse stato, come insegnano gli scienziati della materia e delle particelle, bisognava inventarlo per dare una spiegazione logica, razionale alla nostra umanità, che non può non avere una scaturigine divina.

Noi in qualsiasi contesto storico siamo chiamati ad esistere, in mezzo alla sciagure naturali o in quelle provocate dalla malvagità degli uomini, anzi soprattutto in queste, abbiamo l’imperativo etico di tendere a realizzare sempre l’umanità con le opere morali, che penso essere più gradite a Dio e agli uomini, forse più delle preghiere, che di certo per l’uomo di fede sono la via dell’illuminazione, della grazia e del conforto interiore.

Ma con le opere morali, che realizzano il bene per gli altri, Dio si dispone meglio all’ascolto, anche perché tutti, credenti e non credenti, possiamo pregare con esse, le quali scaturiscono direttamente dalla nostra coscienza, dall’imperativo etico che ci impone di agire senza la mediazione della preghiera orale o del culto religioso, che sono diversi, come sperimentiamo ogni giorno, da religione a religione.

Con le opere morali si esprime la volontà razionale a esplicitare la nostra essenza, la nostra umanità che per il credente è l’adesione all’Amore di Dio oltre che alla sua ragione, per il non credente è l’adesione alla sua razionalità e alla sua scientificità.

Di certo, far prevalere nel comportamento pratico il nostro egoismo, la nostra inclinazione sensibile a lucrare sulla spesa pubblica, impoverendo le risorse del bilancio dello Stato, depredando il lavoro e le intelligenze dei cittadini onesti, dissipando le risorse ambientali e rubando nelle imprese di ricostruzione delle zone disastrate dalle calamità naturali, non aiuta la società degli uomini a realizzare l’Umanità.

E’ stato calcolato che il 10% del fatturato delle opere pubbliche, gestite dalle Amministrazioni periferiche e da quelle centrali, prende la via della tangente, che, qui, in Italia, non è  solo una retta geometrica, toccante una curva senza mai tagliarla, quanto piuttosto una secante la circonferenza, cioè la torta da tagliare per distribuirla ai commensali delle pubbliche amministrazioni.

Di certo, uccidere, prevaricare, sopraffare i deboli e i poveri, delinquere a qualsiasi livello di istruzione e di consapevolezza, non aiuta a realizzare la Umanità fra gli uomini.     (Continua)

 
 
 

"ORA CHE FACCIAMO" 1

Post n°74 pubblicato il 03 Settembre 2016 da giulio.stilla

“ORA CHE FACCIAMO?”     (1)

Un mio insegnante di Filosofia era solito scrivere e dire; “Abbiamo superato Ippocrate, il padre della medicina, ma non Platone, il padre della filosofia”.

L’espressione citata è rimasta conficcata nella mia mente come un chiodo non estraibile, racchiudente nella sua ferrea saldezza la verità tutta della riflessione filosofica, dai primordi fino ai nostri tempi, complicati e resi invivibili dalle violente barbarie della cultura della morte.

Se la Storia è fatta dall’uomo, dall’uomo integrale, cioè è la realtà creata dalla sua intelligenza, dalle sue passioni, dalla sua economia e dalla sue idee, e non da una serie di paradigmi rigidi, che storicisticamente hanno la pretesa di dettare le regole del divenire, valide per tutti i tempi e per tutti i luoghi, allora è sull’uomo che bisogna concentrare la riflessione per correggere la irrazionalità delle cause che determinano le guerre, le tragedie dei popoli, le violenze dei carnefici, i fanatismi assassini, gli spargimenti di sangue dei martiri, i terremoti catastrofici, che in Italia si ripetono mediamente ogni tre anni.

PAPA FRANCESCO, nella sua visita recente al campo di sterminio nazista di AUSCHWITZ, ha proferito nel silenzio eloquente delle sue preghiere le parole: “Signore abbi pietà del tuo popolo, Signore perdona per tanta crudeltà”, ripetendo in tal modo le espressioni e gli stati d’animo di altri pontefici, che, come BENEDETTO XVI, in visite analoghe in questi luoghi di così atroci sofferenze, si rivolsero a Dio con le parole: “Dio mio, perché hai taciuto?”.

Quando Monsignor Giovanni D’Ercole, nel bel mezzo all’omelia espressa alle esequie delle vittime del terremoto ad Ascoli Piceno, colpito da tante orribili distruzioni e interpretando forse le sofferenze di Giobbe, eletto da Dio a simbolo di tutte le tragedie  umane, pronuncia le parole: “Ora che facciamo?”, pensa certamente al personaggio biblico, che, di fronte alla distruzione della sua casa e alla morte dei sui dieci figli, confessa a Dio  la sua incrollabile fede e benedice il suo nome con queste parole:  Nudo uscii dal ventre di mia madre, e nudo vi tornerò. Dio stesso ha dato, e Dio stesso ha tolto. Si continui a benedire il nome di Dio”. (Giobbe, 1-20).

Noi, invece, che non abbiamo forse la stessa fede di Giobbe, qualche dubbio ci assale ogni qual volta veniamo a trovarci di fronte a tante assurde crudeltà e disastri immani, per i quali non riusciamo a trovare una spiegazione razionale, che possa lenire le nostre sofferenze e mitigare il disagio logico e cristiano dell’uomo di fede e di preghiera.

A me, in particolare, ascoltando l’interrogativo “ora che facciamo?” di Monsignor Giovanni D’Ercole, sopraffatto da tante orribili distruzioni, mi viene spontaneo rispondere in misura assolutamente laica:  

 La domanda è superflua e retorica  -  non tanto per Giobbe, che doveva dimostrare per la fede in Dio la sua infinita pazienza a sopportare una lunga serie di indicibili sofferenze, quanto piuttosto per il vescovo D’Ercole  -    sia perché Dio non risponde, in termini della logica degli uomini, sia  perché la risposta è racchiusa più umanamente nella domanda: “Ora che facciamo?”.

Facciamo che dobbiamo migliorare la nostra esistenza, punendo i ladri, i corrotti, i corruttori, i concussori e mandando alla gogna i politici delinquenti.

In altri termini, la risposta c’è e soccorre, in esclusiva, proprio l’uomo di fede, che non mette in soffitta la sua ragione, ma la impiega come strumento di indagine e di riflessione, quando si sofferma a pensare che il Signore dei Cristiani è il Dio che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, libero di compiere il bene ma anche il male, soggetto di intelligenza, capace di risolvere i suoi problemi, coscienza morale chiamata nelle ore decisive a superare il male e ciò che di irrazionale permane sempre nello svolgimento e nel progresso dell’Umanità.

Per rispetto alla libertà dell’uomo, la rivoluzione del Dio dell’Amore non è la rivoluzione in terra, ma una Rivoluzione extratemporale, fuori dei luoghi e dei tempi in cui la malvagità degli uomini si esercita per distruggere l’Umanità. Certamente, il Signor Iddio, onnisciente ed onnipotente, sarebbe potuto intervenire prima che divampasse e si consumasse l’olocausto degli Ebrei. Ma se lo avesse fatto, avrebbe conculcato la struttura ontologica dell’uomo, cioè la sua libertà, la sua prerogativa di collaborare o meno al piano universale della Storia, ideale per Gian Battista Vico, razionale e reale per l’Idealismo di Hegel e Benedetto Croce, sempre misteriosamente provvidenziale per lo Storicismo cattolico.

Ho fatto riferimento a tre visioni della Storia, molto affini fra di loro, perché a me sembrano più vicine a spiegare la presenza del male nel mondo e più idonee a chiamare in campo aperto la coscienza morale di ognuno per l’affermazione delle leggi dello Spirito sulle cieche dinamiche materiali della violenza e del fanatismo.

L’uomo gode di una libertà finita, cioè condizionata dai suoi limiti. E’ sempre costretto o destinato a passare sul ponte della vita, ma dispone della libertà di passarci in mille modi, amando o odiando, costruendo o distruggendo, coltivando lo spirito, la intelligenza, o abbrutendosi nella ferinità, nella barbarie e nell’egoismo. Egli non potrà mai distruggere il ponte, costruito non da lui come l’unica via percorribile per raggiungere l’altra sponda. Potrà tentare di non passarlo, ma sarà trascinato dagli eventi molto più necessitanti e razionali della sua capacità di resistenza.

Sarà la sua coscienza morale a fargli intendere che la sua libertà è quella di agire per combattere il male. Sarà la sua natura, cioè la sua libertà, a fargli comprendere che egli non è una macchina robotica, ma una volontà protagonista e responsabile, capace di orientare la sua esistenza e navigare fra i marosi della vita, ispirandosi alla storia ideale eterna per tradurla in effettiva realtà.

Sarà il suo imperativo etico a fargli comprendere che il bene, contrastato sempre dal male, va costruito dispiegando attivamente le forze dello spirito per la compiutezza e la perfezione della propria umanità.

Il fine dell’uomo è la realizzazione, l’attuazione, l’attualizzazione della sua umanità. Una vita senza umanità non à degna di essere vissuta, nel senso che la nostra umanità, essenza di scaturigine divina, è un processo di ritorno a Dio, superando, in assoluta libertà, i limiti e le difficoltà frapposti alla nostra elevazione morale e spirituale dalle dimensioni materiali ed egoistiche della nostra esistenza.

A riflettere bene, come mi induce a pensare un Padre della Chiesa, l’Olocausto degli Ebrei non è stato preordinato tanto dalla volontà di sterminio di un popolo, quanto piuttosto dal tentativo di uccidere Dio. La prima metà del Novecento, a mio modesto giudizio, sarà ricordata dalla Storia come il tentativo del Male assoluto di ridurre gli uomini in schiavitù, privandoli della loro dignità, cioè della loro libertà.

Era stato programmato un Deicidio, attraverso la distruzione del popolo che per primo aveva scoperto il monoteismo religioso e la vocazione di Dio a farsi uomo per amore e libertà.

E’ stato il genocidio diabolico di Satana, il suo progetto di realizzare la società dell’anticristo, una società di schiavi, sudditi non più persone, privi della facoltà di scegliere tra il bene e il male. Ma le forze del male, alla fine, non prevalgono; la Storia redentrice, comunque intesa, arriva sempre in soccorso dell’Umanità, che, soprattutto nei tempi nostri, è minacciata in modo paradossale dallo sviluppo delle scienze della natura e dalle tecniche di investigazione e di sperimentazione, che per molti e controversi aspetti inducono a riconsiderare gli effetti negativamente collaterali che spesso inficiano   l’evolversi dell’uomo.    (Continua)

 
 
 

UNIONI CIVILI, FAMIGLIE "ARCOBALENO" E DIRITTI NATURALI (4)

Post n°73 pubblicato il 13 Maggio 2016 da giulio.stilla

 

UNIONI CIVILI, FAMIGLIE “ARCOBALENO” E DIRITTI NATURALI    (4)

 

Ci si deve sempre riguardare dal rischio reale e quotidiano di strumentalizzare l’umanità che è in noi e negli altri, perseguendo i nostri personalissimi obiettivi, interessi ed utilità, che in genere offendono la dignità nostra e quella degli altri.

Spesso, non ce ne accorgiamo nemmeno, perché riteniamo le nostre interrelazioni umane eticamente lecite e giustificate dal fatto che così fan tutti. Non è “così”. La dignità degli altri non va strumentalizzata. La nostra umanità non è fatta di scalini sui quali possiamo ascendere per raggiungere la sommità della scala, che, quasi sempre, nella nostra società, la si confonde con il successo, immeritato, con la carriera del talento, inesistente, con la promozione sociale, sempre sorretta dalla “raccomandazione, con le ingenti ricchezze, quasi sempre accumulate con il furto, con il crimine, con il calpestio della dignità altrui.

Bisogna tendere a istituire “il regno dei fini”, prescrive la massima kantiana. Noi per gli altri e gli altri per noi devono essere dei “fini”  e mai dei “mezzi” per appagare il nostro egoismo, la nostra “sensibilità”,  dimensione assolutamente umana, dalla quale, però, dobbiamo decondizionarci, ogni qual volta dobbiamo assumere la veste della moralità.

La natura dell’uomo, ricorda Kant, è bidimensionale. E’ fatta di sensibilità e ragione. Se prevale la prima sulla seconda, prevale la nostra irrazionalità, il nostro egoismo, e non siamo in pace con la morale, che richiede il dovere di superare le tentazioni e contribuire ad istituire una società fatta da uomini liberi e razionali, in cui la dignità dell’essere, sommo valore dell’umanità, è sacra ed inviolabile.

Con l’esempio riportato sopra della cosiddetta “maternità surrogata”, una pratica, a mio modesto parere, assolutamente prostitutiva, si offende per tre volte la dignità dell’essere uomo.

Una prima volta, nel momento in cui una donna vende al costo di decine di migliaia di dollari il proprio utero, offende la propria dignità di essere “mamma”.

Una seconda volta, quando il neonato è sottratto alla sua madre naturale ed affidato a chi l’utero non l’ha mai avuto, si offende la dignità del figlio, che non può essere oggetto di mercimonio.

Una terza volta, quando il bimbo sarà cresciuto da una psicologia di famiglia, che non implica la diversità di generi, si offende ancora la dignità del figlio che ha il diritto naturale di essere cresciuto ed educato dalla complementarità di due coniugi: mamma e papà.

Né valgono per confutare questa mia deduzione, le logiche surrettizie volte a garantire al figlio adottato un amore genitoriale, tanto grande quanto inteso e preteso come “diritto”.

No! Non è un diritto. E’ un desiderio quanto vogliamo comprensibile, comprensibilissimo, ma non è un diritto. E’ un’aspirazione alla propria felicità, che le leggi positive, però, non possono tradurre in diritto civile, perché manca a quest’ultimo il sostegno del diritto naturale o razionale.

 Il concepimento di una vita dà luogo al diritto alla vita e non al soddisfacimento di un nostro desiderio di avere un figlio. "L'utero in affitto" - che brutta espressione - è una tecnica che scambia i diritti naturali con i nostri desideri. Personalmente, amo una donna, anche perché concepisce nel suo utero mio figlio, che ha il diritto ad una crescita integrale, cioè biologica, psicologica, culturale, sia nel contesto famigliare sia in quello sociale. Per favore, non confondiamo i nostri diritti con i nostri desideri. Anch’io, che deambulo su sedia a rotelle, desidero ardentemente vivere l’emozione di scalare le vette alpine, ma ho qualche dubbio che questo mio desiderio possa essere inteso come un diritto.

Tutti - donne, uomini, omosessuali - abbiamo diritto alla vita, all'assistenza, all'amore, all'integrità fisica e psicologica, alle libertà civili, alle “unioni civili”, di cui è stata varata, l’altro giorno, in Parlamento la Legge, che rende giustizia alle cosiddette coppie “di fatto”, ma per ciò stesso a questi diritti accede per natura il concepito, cioè il germoglio, che cresce solo per virtù naturale nell'utero, non preso in affitto come il corpo di una prostituta, ma di una madre che lo vive, che lo sente, che le piace in piena commozione d'amore e di affetti con il suo papà. Tutto il resto è frutto delle astuzie degli uomini che piegano la morale alle proprie convenienze edonistiche e sociali.

La dignità della persona, condizione ontologica, cioè costitutiva, dell’umanità, non può essere offesa in qualsivoglia condizione esistenziale essa si trovi né dallo Stato né da un privato cittadino, né nei ghetti né nelle affollate carceri italiane né nei bracci della morte dei penitenziari americani, né sui marciapiedi né nei tuguri, né a Lesbo né a Lampedusa, e nemmeno negli uteri materni.

La dignità della persona trascende la sua condizione spazio-temporale e postula il rispetto della sua vulnerabilità soprattutto da parte delle tecniche e delle scienze, che devono rimanere al servizio e alla tutela dell’umanità, e non questa al servizio di esse, il cui progresso può andare all’infinito, sempre, però, sotto la responsabilità etica della natura dell’uomo.

Non smarriamo i lumi della ragione con il rischio di perdere per sempre l’Umanità. Scrive il filosofo d’Alembert, grande collaboratore di Diderot nella realizzazione della famosa Enciclopedia, alla voce “filosofo”:

“La ragione, rispetto al filosofo, è ciò che la grazia è rispetto al cristiano: La grazia determina il cristiano ad agire; la ragione determina il filosofo. Gli altri uomini sono trascinati dalle passioni senza che i loro atti siano preceduti da riflessione: sono uomini che procedono nelle tenebre; mentre il filosofo, anche nelle passioni, agisce soltanto dopo aver riflettuto; avanza nella notte, ma una fiaccola lo precede”.

E’ la fiaccola della razionalità e della corretta socialità che deve guidare ogni uomo e soprattutto il legislatore, ai tempi di oggi, nelle tenebre dei Valori.

 

  

 

 

 

 

 

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UNIONI CIVILI, FAMIGLIE "ARCOBALENO" E DIRITTI NATURALI (3)

Post n°72 pubblicato il 12 Maggio 2016 da giulio.stilla

UNIONI CIVILI, FAMIGLIE “ARCOBALENO” E DIRITTI NATURALI    (3)

 

Saggezza e Libertà per le grandissime figure del passato: Virgilio, Catone, Seneca, Dante, ed altri, infinitamente altri Sapienti dell’Umanità. Due termini costituiti in un Binomio che è la Ragione dell’uomo, è il Logos degli antichi filosofi greci, che domina e governa la storia.

 E’ la ragione a cui deve ricorrere l’uomo nella sua individualità e socialità esistenziale, irta di pericoli, deviazioni e perdizioni, come Dante ricorre a Virgilio, guida morale e razionale, per lasciarsi condurre attraverso l’Inferno e il Purgatorio, i regni oltremondani della dannazione e della espiazione.

E’ la ragione a cui ricorre la filosofia giusnaturalistica del ‘500 e del ‘600 per definire i diritti naturali, gettati poi a fondamenta ed eretti a pilastri di sostegno per la costruzione delle Società moderne e contemporanee, aperte, democratiche, libere e responsabili.

I Diritti Naturali sono quelli riconosciuti e sanciti dalla ragione, che, come dicevo all’inizio di questo scritto, sono gli achetipi dei diritti positivi. Non si può costruire una società civile se vengono conculcati i diritti pensati dalla natura razionale dell’uomo, che ha adottato, a partire dalla riflessione speculativa degli antichi filosofi e via via dai pensatori moderni ed illuministici, il criterio della reciprocità per definire la sacralità e la universalità dei diritti naturali.

“La libertà mia finisce lì dove inizia la libertà degli altri”, sogliono ripetere gli Spiriti liberali al seguito della riflessione illuministica di Giovanni Locke, Voltaire, Montesquieu, Beccaria, Kant, sui concetti  della dignità, dell’uguaglianza, della tolleranza, della libertà e della qualità della vita e dei diritti delle persone, indirizzati in forme sintetiche anche alla comprensione dei soggetti più distratti.

 Le numerose Dichiarazioni dei Diritti dell’Uomo della nostra contemporaneità attingono alle meditazioni dei grandi Pensatori dell’Umanità con la sola preoccupazione di assicurare alle nostre organizzazioni sociali una base certa ed universale dei diritti naturali. Assai importanti ed esemplificativi sono i grandi Documenti del passato, che nelle svolte più importanti della Storia hanno teorizzato e sancito la uguaglianza e la dignità di tutte le persone senza differenza alcuna di condizione sociale e di nazionalità.

Già nel lontanissimo passato dell’antica Persia, intorno al 500 a.C., abbiamo rinvenuto un Decreto di Ciro il Grande, che deliberava la soppressione della schiavitù e l’uguaglianza universale fra tutti gli uomini. E’ la prima grande Dichiarazione sui diritti umani, passata alla Storia con il nome del “Cilindro di Ciro”, e poi via via, col passar dei secoli per la Grecia e Roma, giungiamo al 1215 con la Magna Charta Libertatum, alla Petizione dei Diritti del Parlamento inglese del 1628, alla Costituzione degli Stati Uniti del 1787, alla Dichiarazione Francese dei Diritti dell’Uomo e dei Cittadini del 1789, alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, firmata a Parigi il 10 Dicembre del 1948, il cui primo articolo è una pietra miliare definitiva sulla sacralità dei Diritti Naturali:

 “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.

Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

Precorritrice, quindi, di questa lunga evoluzione giusnaturalistica era stata la filosofia stoica, in particolare latina, che aveva inteso chiaramente che “il vivere secondo natura è vivere secondo virtù, cioè secondo la natura singola e la natura dell’universo, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l’universo ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo”.

(Diogene Laerzio, op. cit., VII, 88)

Basterebbe questa antichissima testimonianza di Diogene Laerzio, storico greco, vissuto prevalentemente ad Alessandria d’Egitto tra il 180 e il 240 d.C, per affermare l’attualissima sensibilità degli antichi filosofi a richiamare la razionalità della natura umana come stella polare per guidare la condotta degli uomini nelle nostre complicatissime società, gremite di problemi inimmaginabili non solo alla Civiltà greco-romana ma anche a tutta la tradizione giusnaturalistica.

Alludo in particolare al sofferto dibattito odierno sui delicatissimi problemi sollevati dalle scienze della vita, come la Bioetica ovvero la trattazione dei Biodiritti.

Molte sollecitazioni a capire arrivano da diverse posizioni culturali e tradizioni di costumi le più disparate, che lamentano il ritardo delle nostre legislazioni a definire in termini etici i rivoluzionari metodi e i risultati delle cosiddette “tecnoscienze” in materia di fecondazione assistita, di maternità surrogata, di manipolazione di embrioni, di coppie omosessuali ed eterosessuali, di selezioni eugenetiche, di eutanasia, ecc. ecc.

Corriamo il rischio di rimanere confusi dalle molte implicazioni che vengono sollevate dalla complessità di questi problemi, che potrebbero compromettere il destino stesso della nostra “umanità”, se non rimaniamo molto attenti nello studiare con lungimiranza i contesti di approdo delle odierne tecniche e sperimentazioni scientifiche, soprattutto nei distretti delle biotecnologie. Personalmente, se mi pongo sul piano giuridico-legislativo, resto del parere fortemente etico che, per aderire alle risultanze presenti e future di tutte queste tecnoscienze, bisogna sempre ripensare la nostra tradizione giusnaturalistica, che, in particolare, con la filosofia pratica di Immanuele Kant ha raggiunto un livello altissimo di chiarezza concettuale, a cui ciascun di noi dovrebbe ispirarsi per guidare la propria esistenza pubblica e privata.

Certo, non penso alla strutturazione di uno Stato etico, le cui nefaste conseguenze dittatoriali sono state sperimentate con immani sacrifici dalle generazioni del ‘900. Ma ritengo che una Entità Statale debba sempre perseguire e riconoscere i valori etici che salgono dalla scuola, dalla famiglia, dalla società civile e, quindi, anche dalla Chiesa. Non possiamo rinunziare ai nostri valori etici, conoscitivi, politici, religiosi ecc., per fare spazio ai disvalori della barbarie e della distruzione violenta delle nostre organizzazioni sociali.

Dobbiamo, quindi, consolidare questi valori, specie nelle età di crisi, come questa in cui viviamo, e farcene banditori, ricorrendo ai grandi maestri di umanità come Kant, che in opere monumentali come “La Critica della Ragion Pratica”, la “Fondazione della Metafisica dei Costumi”, “La religione nei limiti della semplice ragione”, “La metafisica dei costumi”,Per la Pace Perpetua”, esprime profonde e sistematiche riflessioni sulla natura dei nostri comportamenti pratici, etici e politici.

Famosa, anche per i non addetti agli studi filosofici, è la sua trattazione, nella “Critica della Ragione Pratica”, dell’Imperativo Categorico, inteso come la legge naturale ed universale, inscritta nella mente di ogni uomo.

“Tu devi”, comanda questa legge, in maniera in-condizionata e perentoria, oggettivamente valida per tutti, perché per tutti essa si identifica con la ragione. Questa non comanda nessun contenuto specifico, perché, se lo facesse, perderebbe la sua portata universale, in quanto il suo obiettivo evidentemente non potrebbe essere valido per tutti. Comanda invece il “modo”, il “come” agire, quando in tutte le circostanze e in tutti i tempi perseguiamo i nostri scopi. Ogni tua azione è morale se tu “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale”. (Critica della Ragion Pratica, A 54). In altri termini alla base di questa formula vige il cosiddetto “principio della generalizzabilità”, cioè che la nostra condotta non sia dissimile da quella degli altri e viceversa.

Non possiamo, in altri termini ancora, giustificare come razionale un nostro atto illecito, perché nel momento in cui lo facessimo, lo dovremmo riconoscere razionale anche per gli altri.

La nostra convivenza civile sarebbe impossibile.

Così come pure a me non sembra provocatorio ed esagerato considerare, alla luce della formula kantiana, la pratica “dell’utero in affitto” un’azione assolutamente immorale, primo perché, se dalle leggi a tutti fosse consentita, qualche rischio di disordine sociale, prima che etico, non sarebbe poi tanto remoto ed inevitabile. E secondo perché questa pratica, detta anche della “maternità surrogata”, confligge chiaramente con il senso altamente morale della seconda formula dell’Imperativo di Kant, che, nella “Fondazione della Metafisica dei Costumi”, BA 67-68, scrive: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.

E’ una massima tanto limpida ed inequivoca quanto elevatissimo e nobile è il concetto di sacrosanto rispetto, in essa racchiuso, che dovremmo portare per la umanità nostra e per quella degli altri.

(Continua)

 
 
 

UNIONI CIVILI, FAMIGLIE "ARCOBALENO" E DIRITTI NATURALI (2)

Post n°71 pubblicato il 10 Maggio 2016 da giulio.stilla

 

UNIONI CIVILI, FAMIGLIE “ARCOBALENO” E DIRITTI NATURALI     (2)

 

E’ stata riporta, in precedenza, l’accorata Preghiera al Dio di tutti i tempi, che anticipa, per tanti aspetti, l’avvento del Cristianesimo e che come il Cristianesimo esprime il dramma dolente dell’uomo sub specie aeternitatis.

…….né per gli uomini è più grande privilegio
né per gli déi, di cantare per sempre, nella giustizia, la legge universale.”

E’ l’accorata Preghiera che confessa l’urgenza, oggi più che mai straziante, di implorare la Pietas, la Misericordia del Signore della Croce, per varcare i confini del Male ed affermare la legge universale della Giustizia e la Libertà dalla ignoranza, radice di tutte le ignominie e le malvagità della condizione umana.  

Anche Cleante ricorre al notissimo concetto socratico della ignoranza come causa di tutti i mali e di tutte le nefande  ingiustizie.

 “Salva -  o Padre - gli uomini dalla loro funesta ignoranza;”

E’ l’accorato grido, orante e gemente, di chi ricorre al Dio della Caritas per non soccombere sotto il giogo della non speranza.

Fra i discepoli di Cleante la Storia della Filosofia annovera la singolare figura di Crisippo di Soli, città della Turchia mediterranea.

Filosofo e matematico, fu autore di una vasta produzione letteraria, andata quasi tutta perduta. Si distinse, in particolare, per i suoi studi di logica. Alla sua meditazione è legata la “metafora del cane”, costretto a correre dietro il carro, al quale è legato da un destino ineluttabile.

L’uomo, come il cane, è costretto a seguire la volontà del fato, o assecondando la sua andatura per vivere più agevolmente la propria esistenza o resistendole senza per questo migliorare la sua sorte, perché sarebbe trascinato comunque fra mille sevizie e tormenti. Non resta, quindi, che lasciarsi condurre dal carro, cioè, fuor di metafora, dall’Amor Fati, dal Logos, che governa saggiamente l’armonia del Cosmo, piuttosto che opporgli una inutile resistenza, manifestazione di impotenza, rivelazione di stupidità, esercizio di ignoranza sulla sorte degli uomini.

Sarebbe questa la scelta prospettata dallo stoico Crisippo per conciliare la inevitabilità del fato con la libertà dell’uomo.

A questa preghiera si ispira con maggiore maturità stoica Lucio Anneo Seneca, che, dopo l’uscita dalla vita politica, si ritira a vita privata, consegnandosi all”0tium”, alla riflessione filosofica su tematiche di natura etico-esistenziale e alla composizione delle sue opere, fra cui  Epistulae morales ad Lucilium”, 124 Lettere morali a Lucilio, discepolo e grande amico.

Dopo essere stato coinvolto nella Congiura dei Pisoni, ordita contro Nerone, Seneca muore suicida nel 65 d.C., in fedele coerenza con i dettami della sua filosofia, che gli suggerivano la “razionalità” imperturbabile di togliersi la vita, quando questa fosse riuscita insopportabile per se stesso e per gli altri, in particolare, per Nerone, a cui, come racconta Tacito, “non gli rimaneva ormai più, dopo aver ucciso madre e fratello, che aggiungere l’assassinio del suo educatore e maestro.” (Tacito, Annales, 62).

Il suo “Stoicismo” vuole essere, però, più mite, meno rigoroso di quello adombrato nella “metafora del cane” di Crisippo di Soli. Non più una passiva accettazione dell’Amor Fati, ma una sorta di conciliazione tra il fatalismo assoluto dell’antica “Stoà” greca e la libertà dell’uomo, tanto che per amore di questa, come Catone Uticense – uomo politico al tempo del Primo Triumvirato tra Pompeo, Crasso e Cesare e seguace intransigente delle virtù stoiche -  non esiterà a darsi la morte nello stesso anno della Congiura dei pisoniani.

Molto è stato scritto ed investigato sui possibili rapporti tra Seneca e il Cristianesimo. Ma, in conclusione, sia da parte degli Storici latini, come Tacito e Svetonio, sia da parte dei Padri apologisti della Chiesa, non è stato mai rinvenuta alcuna circostanza o testimonianza, che possa far pensare ad una interrelazione o  influenza della religione di Cristo sulla vita e sul pensiero del filosofo di Cordova. Fu per molto tempo desiderio del Medioevo voler trovare connessioni probabili ma non provate tra la dottrina stoica di Seneca e la chiesa del I secolo d. C.

In particolare, si può riportare, insieme ad altre citazioni, il convincimento di Lattanzio, che ebbe modo di esprimere una lusinghiera vicinanza tra la concezione di Dio di Seneca e quella Cristiana. (Cfr.: Divinae  Institutiones(II,8,23;VI,24,13)., tra il Logos di Seneca e la “Razionalità” del Dio cristiano.  Ma nulla di più.

Come pure, da parte degli scrittori latini nulla fu mai concesso per avvicinare la filosofia di Seneca alla Religione di Cristo. Tacito negli Annales XV, 44, quando vuole alludere alla religione dei Cristiani, parla di una “exitialis  superstitio”.

Non è stata mai provata, inoltre, una ipotizzata e sempre vagheggiata amicizia tra San Paolo e Seneca, che, dotato di una cultura vastissima, avrà, di certo, sentito parlare di questa nuova religione, il cui Vangelo predicava, con altre finalità, molti temi dalla dottrina etico-esistenziale del filosofo.

Basti considerare come Seneca non potesse sopportare la realtà dei suoi tempi che davano per naturale e legale la pratica della schiavitù, avendo modo di affermare ogni qual volta la circostanza lo richiedesse che tutti gli uomini sono stati creati da un unico Dio, senza differenza di razza, di condizione sociale, di nazionalità, ecc.

La condizione del “servus” era esecrabile per il filosofo, perché violava la dignità dell’uomo ed offendeva la creazione: tutti gli uomini sono fratelli, figli dell’unico Padre Celeste.

Ma al di là di questa particolare sensibilità di Seneca per gli ultimi, per gli emarginati, per gli schiavi, nel contesto della Roma imperiale del I° secolo d.C., non è assolutamente proponibile un accostamento ulteriore della filosofia di Seneca alla Religione di Cristo.

La filosofia di Seneca è una filosofia, una riflessione, cioè, sulla esistenza, alla luce del logos, che esclude dalle sue analisi l’assurdo, il mistero, la fede, implicando la consequenzialità del conoscere e dell’agire, dell’attività teoretica e di quella pratica.

La religione di Cristo, invece, prima di essere Logos, Verbum, è soprattutto Amore, Caritas, Misericordia, che supera la logica degli uomini e si rivela come Mistero, Assurdità, Sacrificio del Divino, Perdono e Fede.   

Il tema del suicidio, extrema ratio per Seneca e gli Stoici, è un gravissimo atto contro la Creazione per il Cristianesimo.

Assurdità è la crocifissione di Dio per gli Stoici, per il Cristiano è l’estremo sacrificio del Figlio di Dio per la redenzione dell’Umanità.

Visione ciclica del tempo, all’interno del quale, per lo stoico Seneca, si succedono e si ripetono gli eventi della storia; concezione rettilinea e finalistica per il Cristianesimo, per il quale l’uomo, in particolare, è destinato ad un fine ultimo secondo i piani provvidenziali del Dio dell’Amore.

In verità, anche per Seneca la storia è dominata e governata dal Logos, dal Destino, che non è il Caso, ma un ordine prestabilito e provvidenziale. Bisogna condurre la propria esistenza in modo conforme alle leggi di natura, che sono emanazioni, come scrive Diogene Laerzio, in “Vite e dottrine dei filosofi”, VII, 88, della “retta ragione diffusa per tutto l’l’universo ed identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo”.

Ma al di là di questi parallelismi e differenze di fondo tra una filosofia ed una religione, Seneca rivendica per sé il diritto fondamentale alla propria libertà personale, in un gesto di rivolta prometeica come il suicidio contro l’imponderabile, soprattutto quando non puoi cambiare il corso degli eventi.

Sembrerebbe che la libertà di darsi spontaneamente la morte stride in contraddizione con quello che il filosofo afferma nei Libri XVII-XVIII delle sue Epistole a Lucilio, in linea con lo stoicismo greco di Cleante:

“La miglior cosa è sopportare ciò che non puoi correggere ed adattarti alla volontà divina, da cui tutto procede, senza mormorare: è un cattivo soldato chi segue il generale lamentandosi…… e rivolgiamoci a Giove, dal cui governo dipende l’andamento dell’universo, come il nostro Cleante gli si rivolge in versi eloquentissimi, che io mi permetto di volgere nella nostra lingua, seguendo l’esempio di Cicerone, uomo eloquentissimo….

Duc, o parens celsique dominator poli.

Quocumque placuit: nulla parendi mora est;

adsum inpinger. Fac nolle ,comitabor gemens

malusque patiar facere quod licuit bono.

Ducunt volentem fata, nolentem trahunt”

 

“Conducimi, o padre e signore dell’alto cielo,

dovunque vuoi: sono pronto ad obbedire;

eccomi pieno di slancio. Supponi che io sia contrario,

seguirò la tua volontà lagnandomi

e con l’animo avverso subirò ciò che avrei potuto fare di buon animo.

Chi segue i fati lo conducono, chi recalcitra lo trascinano”.

(Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, Libri XVII / XVIII, pp. 850, 851, 852, 853, trad. a cura di Umberto Boella, UTET, Torino.).

E’ la professione di fede di tutti i Saggi dello Stoicismo nel “Logos”, nella Razionalità del Tutto, nell’Amor Fati, che non è una passiva accettazione degli eventi e non è in contraddizione con la libertà personale che il Filosofo rivendica per sé con l’estremo gesto del suicidio, quando questa è messa in pericolo dal tiranno Nerone, così come il nobile ed incorruttibile Catone si toglie la vita in Utica, nel 46 a.C., per non cadere nella prigionia di Cesare.

Dante celebra l’estremo sacrificio di Catone per amore della libertà nel Primo Canto del Purgatorio, con le famose due terzine che di seguito amo ricordare, allorquando Virgilio, allegoricamente inteso come la Saggezza, la Ragione umana, prega il vegliardo, dalla “lunga barba e di pelo bianco mista”, che sta a guardia  del secondo regno oltremondano, di lasciar passare il sommo poeta , perché anche questi cerca la libertà da una vita traviata:

 

“Or ti piaccia gradir la sua venuta:

libertà va cercando, ch’è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta.

Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara

in Utica la morte, ove lasciasti

la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.” (Purgatorio, Canto I°,vv.70-75).

(Continua)

 
 
 

UNIONI CIVILI, FAMIGLIE "ARCOBALENO" E DIRITTI NATURALI. (1)

Post n°70 pubblicato il 09 Maggio 2016 da giulio.stilla

UNIONI CIVILI, FAMIGLIE “ARCOBALENO” E DIRITTI NATURALI    (1)

Sta per essere discusso anche alla Camera dei Deputati, dopo l’approvazione in Senato, il Disegno di legge di Monica Cirinnà, che assicuri i diritti civili e sociali alle cosiddette “Unioni Civili” o “Formazioni Sociali”, che dir si voglia. In una società aperta e democratica, i diritti civili devono scaturire sempre dai Diritti Naturali o meglio Razionali, cioè, pensati dalla Ragione, che è la natura dell’uomo, e sanciti appunto dalle Leggi come uguali, inalienabili e insopprimibili per tutti.

I Diritti Civili non possono discendere da una visione ideologica dell’organizzazione sociale, da un programma politico o da una posizione settoriale o partitica, ma per la loro stessa funzionalità e validità oggettiva devono trascendere la conflittualità dialettica dei gruppi politici e configurarsi come metaideologici, perché appartenenti e utilizzabili da tutti i soggetti componenti la comunità sociale.

Non possono esistere distinzioni nella fruizione dei Diritti Civili senza violare il principio attivo fondamentale inscritto nella mente e nella dignità di tutti gli uomini, cioè, quello che leggiamo nelle costituzioni liberal-democratiche e sulle cattedre di tutte le Corti di Giustizia dei Paesi più emancipati: “LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI”.

I Diritti Civili, per essere veri nella teoria e nella pratica, non devono essere parole retoriche, vuote di senso, ma devono essere avvertite come concrete emanazioni dirette dai Diritti Universali, che appartengono ad ogni uomo, in quanto espressioni della natura e non della organizzazione sociale, che può strutturarsi in maniera aperta e democratica, ma anche in maniera chiusa e negatrice delle libertà fondamentali.

La riflessione filosofica, da tempi molto andati, a partire dallo stoicismo dei Latini (Seneca, Cicerone, il liberto Epitteto ed altri) sentì la necessità di ricercare il fondamento universale della società umana, che non fosse, cioè, soggetto alla mutabilità delle culture, alla diversa organizzazione sociale, al cambiamento delle stagioni, delle mode e dei costumi. Il problema si ripresenta in tempi moderni con la riflessione dei filosofi giusnaturalisti, che, a cavallo dei due secoli, 1500 e 1600, avvertirono l’urgenza di ricercare il fondamento stabile delle società degli uomini.

In particolare, con UGO GROZIO, autore de “Il diritto della pace e della guerra”, è avviata una indagine specifica sui caratteri originari della strutturazione di una comunità umana.

Il filosofo, nato e vissuto in Olanda nel periodo che va dal 1583 al 1645, individua nella razionalità e nella socialità dell’uomo i connotati naturali ed ontologici, dai quali non si può prescindere, se vogliamo fondare o rinnovare le società su basi universali, stabili e sicure. Razionalità e socialità sono i caratteri intrinseci alla natura dell’uomo, sui quali bisogna costruire i sistemi sociali forti e capaci di resistere a qualsiasi azione demolitrice che possa provenire nel corso della storia dalla stessa corruzione dell’uomo. “Ex pricipiis hominis internis” soleva scrivere il filosofo Grozio per ribadire il convincimento che la natura dell’uomo coincide con la sua razionalità, già individuata dallo stoicismo greco di Zenone di Cizio come il riflesso del LOGOS universale, dal quale l’uomo, nella sua singolarità, deve lasciarsi guidare per assicurare equilibrio alla sua mente, senza originare conflitti interiori tra i suoi desideri e i dettami della ragione, e collaborare con la vita del Tutto, che si esprime per l’appunto nell’armonia cosmica.

Lo Stoicismo greco di prima maniera, che non disponeva di una riflessione più matura e rispettosa della libertà dell’uomo, soprattutto con Cleante, che succedette a Zenone nella guida della Scuola, accentuava il carattere della fatalità, a cui il singolo dovesse saggiamente sottostare per assicurare alla sua esistenza uno svolgimento sereno ed intelligente.

Cleante, raccontano le fonti, moriva all’età di 99 anni, dopo aver vissuto una vita particolarmente morigerata, molto sobria e dedita agli studi. Di lui abbiamo il piacere di leggere una delle più belle liriche dell’antichità, “Inno a Zeus”, il quale, oltre a contenere i principi fondamentali della sua filosofia stoica, è una struggente ed accorata preghiera al Dio di tutte le creature, al Logos, all’Armonia cosmica.

Non è mia intenzione tediare il mio eventuale e coraggioso lettore, ma mi corre l’obbligo morale di cogliere questa opportunità per diffondere l’emozione, non solo estetica ma soprattutto etica e profondamente umana, che si avverte, quando leggiamo i versi di questo straordinario poeta e filosofo del III° secolo a.C.:

 

“O più glorioso degli immortali, sotto mille nomi sempre onnipotente,
Zeus, signore della natura, che con la legge governi ogni cosa,
Salve; perché sei tu che i mortali han diritto d'invocare.
Da te infatti siam nati, provvisti dell'imitazione che esercita la parola,
Soli tra tutti gli esseri che vivono e si muovono sulla terra;
Così io ti celebrerò e senza sosta canterò la tua potenza.
É a te che tutto il nostro universo, girando attorno alla terra,
Obbedisce ovunque lo conduci, e volentieri subisce la tua forza;
Così grande é lo strumento che tieni tra le tue mani invitte,
Il fulmine a due punte, fiammeggiante, eterno.
Sotto i suoi colpi, tutto si rafferma;
Per suo mezzo reggi la Ragione universale, che attraverso tutte le cose
Circola, mista al grande astro e ai piccoli;
Grazie ad esso sei diventato così grande ed eccoti re sovrano attraverso i tempi.
Senza di te, o Dio, non si fa niente sulla terra,
Né nel divino etere del cielo, né nel mare,
Tranne che quel che ordiscono i malvagi nella loro follia.
Ma tu sai riportare gli estremi alla misura,
Ordinare quel che è senz'ordine, e i tuoi nemici ti divengono amici.
Perché tu hai armonizzato così bene insieme il bene e il male
Che vi è per ogni cosa una sola Ragione eterna,
Quella che fuggono e abbandonano i perversi tra i mortali,
Disgraziati, che desiderano senza sosta il possesso dei (pretesi) beni,
E non badano alla legge universale di Dio, né l'ascoltano,
Mentre, se le obbedissero con intelligenza avrebbero una nobile vita;
Da se stessi si gettano, insensati, da un male all'altro;
Questi, spinti dall'ambizione, alla passione delle contese;
Quelli, volti al guadagno, senza alcun principio;
Altri, sfrenati nella licenza e nei piaceri del corpo,
(Insaziabili) vanno da un male all'altro
E fan di tutto perché succeda loro proprio il contrario di quel che desiderano.
Ah! Zeus, benefattore universale, dai cupi nembi, signore della folgore,
Salva gli uomini dalla loro funesta ignoranza;
Dissipa questa, o padre, lungi dalle loro anime; e concedi loro di scorgere
Il pensiero che ti guida per governare tutto con giustizia,
Affinché, onorati da te, ti rendiamo anche noi grande onore,
Cantando continuamente le tue opere, come si conviene
Ad un mortale, poiché né per gli uomini è più grande privilegio
Né per gli déi, di cantare per sempre, nella giustizia, la legge universale.”

(Da: montesion/Montesion.html)

(Continua)

 
 
 
 
 

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