Creato da pantouffle2011 il 28/09/2011

JAMBOREE

dove parlo, sparlo e soprattutto sproloquio

 

 

In tempi di siccità va bene anche la tempesta

Post n°251 pubblicato il 27 Luglio 2015 da pantouffle2011
 

 

E dire che pensavo di averle viste tutte.

Sì, perché se frequenti sempre la stessa spiaggia, con le stesse persone, negli stessi giorni, va a finire che le novità son poche. Al massimo manca qualcuno: morto? Ha fatto 6 figli? Vai a sapere. Poi magari ricompare dopo un po’.

Ed infatti io e la Anto ce ne stavamo lì tranquille, a spettegolare ad ammirare con il dovuto rispetto il geometra che si gira al passaggio di OGNI minorenne in bikini, neanche fosse uscito di galera giovedì; a rassicurare Mario il bagnino, unto come Gnapo, liscio e depilato, dicendogli che no, non sembrava assolutamente un wurstel troppo cotto. Per non parlare della signora Antonia e dei suoi sforzi di entrare negli shorts di taglia adolescenziale, che già quello vale un pomeriggio al mare, voglio dire.

E mentre siamo lì, con tutto questo popo’ da fare, cosa ti vedo? Gigi, il cameriere, che scivola tra un lettino e l’altro scherzando e sorridendo, (ma soprattutto sacramentando a denti stretti), reggendo un vassoio con il cestello del ghiaccio. Ed uno champagnino che ti spunta con contorno di 2 flute.

Una scena che neanche al cine, figurarsi al mare.

Mi giro ed immediatamente vedo i destinatari di tanta classe: lui sui 65, alto, moro, snello: uno più vicino ad Apollo che a Nino Frassica, per capirci. Lei bionda, biondissima, uno chignon così perfetto, che non c’è lacca che tenga. Deve per forza aver usato 2 punti di Black&Decker, e lei può raccontarla come vuole.

Stanno seduti entrambi su un unico lettino, sorridendo come se avessero appena inventato la ruota.

Neanche il tempo che Gigi si avvicini (continuando a sacramentare), e Lui ha già steso un telo su un secondo lettino e tirato fuori piatti e posate. Cioè, piatti di ceramica e forchette di metallo, non so se mi spiego. Mica la vaschetta della gastronomia dal Beppe.

“Sarà arrivato carico come uno sherpa nepalese”, ridacchia Mario, il fustone della spiaggia. Ma la sua è solo invidia, ed il confronto con questo gentiluomo lo fa apparire per quello che è: un fustone, appunto. La classe è un’altra cosa.

Intanto Lui parla a Lei, le sorride, le offre un po’ di questo, un po’ di quello. Brindano e ribrindano, a cosa non si sa, ma sembrano più felici loro sotto il caldone di luglio che molte coppie in viaggio di nozze alle Maldive. E proprio come se fossero nella più bella delle isole se ne stanno a bagno, ridendo, scherzando e beandosi di sole, di mare e di vita.

Chi ha detto che non si possono fare nozze con i fichi secchi?, vien da chiedersi. Persone prive di fantasia, sicuramente. Perché questi due qui, della crisi e dei problemi che certamente hanno, come tutti, sembrano fregarsene altamente. Tra l’invidia di tutta la spiaggia. Tra i sospiri delle donne ed i sorrisi degli uomini che in fondo in fondo, un po’ rosicano. Perché strappare qualche momento alla routine, morsicare un sogno, e dare un brividino alla vita, alla fin fine, è forse quello che vogliamo tutti.

Ciao Guys.


 

 
 
 

Sono sparita per un anno

Post n°250 pubblicato il 07 Luglio 2015 da pantouffle2011
 

 

Sono sparita per un anno perché ho perso delle persone care. Molto care.

Come ho vissuto la cosa? Bene!

Bene come uno che si schianta contro un platano ogni giorno per un anno, certo. Solo confusa, contusa e barcollante, niente di che.

Come mi sono risollevata tra un trauma e l’altro? Facile!

Con una nuova mazzata, peggio dell’altra. Come se ti rompessi il femore per non sentire più la colica ai reni, per dire. Così non sai nemmeno più per chi o per cosa stai piangendo. E ti senti anche cretina. E talmente fragile che trovare la gomma della bici a terra ti fa desiderare di non essere mai nata.

Ma tranquilli, adesso sto bene: faccio colazione con la camomilla, salto i pranzi, ceno all’aperitivo; di notte stiro/metto ordine, leggo molto; di giorno mi agito e mi esagito, stordendomi di umori, odori e rumori. Mi tengo occupata, come gli alcolisti anonimi, nervosa come una tossica, perché è proprio di una dose che avrei bisogno, ma della voce di chi ho perso. Quel minimo per poter pensare, quel respiro necessario per un momento di lucidità. Ma chi non c’è più non può più farlo e chi ho perso per sua scelta non chiama neanche per dirmi crepa.

“Sono solo fasi della vita, domani è un altro giorno”, dicono le Rosselle che incontro.

“Ma tu sei forte, ce la fai.”, dice chi non vede l’ora di andar via.

“Reagisci. Prova a scrivere, dai un senso a questa cosa.”, ha consigliato invece Gianluca, amico mio carissimo.

Ed io l’ho fatto. Ho scritto e riscritto, per buttar fuori la rabbia di un anno, tutto il dolore che mi impedisce di respirare, la sofferenza che non mi permette di vivere.

“Sei contenta?”, ha chiesto Gianluca quando il mio scritto è stato pubblicato.

Sì, ma è il non poterlo dire a chi non mi è più accanto che mi ammazza. Perché le avversità le puoi affrontare da solo, ma sono le gioie che non puoi fare a meno di condividere.

E ti fanno sentire ancora più sola.
Una perdita si elabora in 5 fasi, si dice spesso.

Ma è una cretinata: una perdita si elabora invece nel momento in cui lo trasferisci dal cuore alla mente, come dice Concita De Gregorio. Perché solo con la mente si dimentica, non dal cuore. Ma spero davvero che non ci voglia una vita.


 

 

 
 
 

Di sogni e bisogni

Post n°249 pubblicato il 24 Giugno 2015 da pantouffle2011
 

 

Sai, appena posso scappo e vado in barca. Certo, è solo un guscio, ma vuoi mettere il vento nei capelli ed il profumo di salmastro…?”

Il sorriso da brigante, un ciuffo sbarazzino. Peccato per l’ortodonzia anni ’50, ma vabbè.

“I miei coetanei scelgono la moto, io ho scelto la barca. Vento, libertà, zero vincoli. Ci passerò la mia vecchiaia, in giro per il mondo.”

Lui non mi ha riconosciuta, ma io sì. Ci siamo incontrati 1000 anni fa; certo, in un’altra era ed in un’altra vita. Lui più grande di me, con il motorino a petardi a fare le impennate. Io, similbambina, negli anni in cui il figo della scuola ti chiede di passargli matematica e tu pensi che sia innamorato di te.

Diverse le scuole ed opposte le vite, ma nei piccoli paesi non ti perdi mai veramente di vista. Ecco perché so che la barca di cui parla non può essere la sua. O che l’unico progetto che può fare sui suoi ultimi anni è di vincere alla lotteria. Di sicuro sarebbe il più concreto.

“Prendi il largo e vai – continua – C’è il mare e ci sei tu.”

Soprattutto non c’è tua moglie, penso. E mi chiedo se sia davvero la terraferma l’unico vincolo da cui vorrebbe togliere gli ormeggi.

Ma so che non è tipo da fare il fenomeno in giro, non lo è mai stato. Forse anni di matrimonio in cui l’unico dialogo possibile è stato “ricordati di portar giù l’umido” gli hanno ammazzato la poesia, ma non è qualcuno con cui fare le capriole che sta cercando.

Ecco come ci si sente a non essere quello che avresti davvero voluto essere, dice invece il suo sguardo. Uno sguardo che sa di sconfitta, disillusione, di sfide forse mai cominciate.

Confesso che avrei preferito un’allusione offensiva, un complimento fuori luogo. Gli avrei tirato un breccolone, insultato tre generazioni di zie, ma mi avrebbe fatto meno male.

Lo ascolto e sorrido, mentre nel raccontarla, la vita che vorrebbe, sembra farsi via via meno immaginaria e più reale. Chissà quante volte l’avrà pensata, mi dico.

I tratti del suo viso si distendono, l’occhio si fa vispo, come se la brezza gli entrasse nel cervello, quasi a rinfrescare luoghi in cui asfissiava da troppo tempo. Ed improvvisamente è come se fosse ancora sul motorino, a guardare il culo alle ragazze. Come se un futuro diverso fosse ancora possibile. Senza il figlio disabile, la moglie disoccupata e le rate da pagare che si frappongono oggi fra lui e quel domani.

Sta cercando il vento, quello sì, ma non quello del mare. Sta cercando il vento della vita, che gli regali un po’ di movimento. Il respiro di un momento, ma più a parole che a fatti.

Questo fa di lui un cazzaro? Non lo so. Ma so che a volte ti somiglia più un sogno che la tua vita stessa.

Ciao Guys.


 

 
 
 

Quando c'è la salute c'è tutto. O quasi.

Post n°248 pubblicato il 20 Giugno 2015 da pantouffle2011
 

 

Dormo poco, mangio male, vivo peggio. Sarà che sono agitata, quasi isterica. Forse anche malata di mente.

Le responsabilità mi ammazzano, le difficoltà mi segnano, il quotidiano diventa un'infinita montagna da scalare.

Fossi vissuta due tre secoli fa mi avrebbero spedita in campagna per guarire i miei nervi scossi. O ad accompagnare la zia, zitella, in un lungo viaggio in nave fino in America. Il comandante, bello, tenebroso e fidanzato con una tipa in sedia a rotelle che non amava ma con cui stava per un voto d’amore, sarebbe stato Colin Firth.

L’avrebbe mollata per me, ça va sans dire. Scoprendo che lei camminava benissimo e che l’aveva sempre ingannato con la finta malattia per tenerlo stretto a sè. La stronza.

Fossi almeno ancora una ragazzina, potrei addormentarmi sognando un domani migliore, un luminoso futuro ed un quotidiano sereno. Credere davvero che la Fatina Chiattona possa portarsi via brutti e brutture, facendoti dormire in un letto di piume, lasciandoti la pelle come il culo di un bimbo.

Ma vivo nel 3000 e ragazzina non sono, ed ho scoperto da mo’ che il domani migliore è meno probabile dell’apparizione della Madonna di Fatima. Sul luminoso futuro lascerei perdere: l’unica cosa che cambia davvero dopo i 30 anni è la forza di gravità delle tette.

Per cui eccomi qui, con l’aspetto rilassatissimo di un ostaggio che sta per registrare un videomessaggio, fresca e pronta per affrontare la giornata con la tranquillità di chi sta per entrare nella gabbia dei leoni. Cosparsa di simmenthal.

Per cui che dire? Solo una cosa: Fatina Chiattona, vaffanculo.

 


 

 
 
 

Retrospettiva. Ma non è una brutta parola, giuro.

Post n°247 pubblicato il 21 Maggio 2015 da pantouffle2011
 

 

Allora. C’è da dire che i dipinti mi annoiano da un po’ e che le poesie mi ammazzano da sempre. Ma le fotografie quelle no, quelle continuano ad appassionarmi, emozionarmi, aggrovigliarmi le budella. Sempre. Soprattutto il bianco e nero, così chiaro, diretto e schietto. Come dovrebbe essere la vita, perché ai cazzari ci ho fatto l’allergia.

Ma torniamo a noi. Le foto, dicevo.

Una foto coglie l’attimo, ma coglie anche il fotografo.

Come nei libri, direte voi: vissuto, angosce, ambasce, è tutto lì, e lo scrittore se c’è vien fuori. Ma se mancano le esperienze e la testolina è vuota, ah be’ allora che vi devo dire… magari ci fa un blog su Libero. E lo chiama Jamboree. Per dire. Ma libri niente.

Anche il fotografo ci mette del suo, come no, ma di certo non ci mette la sua vita. Potrà essere suo lo sguardo con cui filtra il mondo, l’occhio che sa cogliere, la tecnica che esalta, ma non gli verrà mai chiesto di attingere ai suoi sogni di bambino. Perché lui la vita la guarda. Mica come lo scrittore, che per definizione, nella vita ci patisce. Anche perché se stesse bene la sua vita la vivrebbe, col cavolo che la racconterebbe.

Ma la differenza sostanziale è che un fotografo, per esercitare le sue funzioni, deve essere proprio lì, dove accadono le cose. E la simbiosi con il divano la lascia a chi sa scrivere.

E che vi devo dire, la mia simpatia di questi tempi va tutta a chi le cose le fa, molto meno a chi le racconta. Anche perché a saperla raccontare sono spesso i troppo furbi.

Ecco perché, quando in un imprevisto ed imprevedibile week end a Lucca ho visto questa bella insegna qua, m’è apparsa la Madonna. Perché le foto di Elliott Erwitt sono tutto: la capacità non solo di notare le cose, anche quelle apparentemente insignificanti, ma di dar loro un significato. Magari sapessi farlo io.

Ciao Guys.

 

 

 
 
 

Pare ieri, invece è oggi. E sono di nuovo qui.

Post n°246 pubblicato il 20 Maggio 2015 da pantouffle2011

 

E' che non so per quanto...

 

 
 
 

Ogni volta che vado

Post n°245 pubblicato il 03 Aprile 2014 da pantouffle2011
 

 

Ogni volta che vado a Venezia per lavoro mi prende lo sconforto. Sempre meglio del cagotto direte voi. E c’avete anche ragione, ma sempre sconforto è.

Che poi non è nemmeno per la città in sè, o perchè non mi pagano lo straordinario e di sicuro non è per il tipo di lavoro.

Fondamentalmente è per la compagnia: quella del mio capo. Di cui apprezzo tutto e niente. Ma soprattutto niente. Perché? Perché non saprei dire, non di preciso almeno, ma di sicuro non ci prendiamo.

E’ che c’è quest’antipatia, di pelle proprio, che deforma qualsiasi contatto, che filtra ogni tipo di interazione, peggiorandola e impoverendola. Ma proprio perché l’allergia è epidermica, e quindi istintiva, diventa più difficile da superare.

E se nella normale routine dell’ufficio devo mio malgrado sopportarlo e farmene una ragione, nelle trasferte di lavoro, con più tempo a disposizione per divagare, faccio una fatica che mi manda ai matti.

Oggi, per esempio, Il Signor-Per-fortuna-Che-Ci-Sono-Io era come sempre un po’ alterato e ce l’aveva con i piccioni, i turisti, i ferrovieri e gli studenti. Con gli extracomunitari invece ce l’ha sempre.

Poi se l’è presa con Venezia, mannaggia a lei e a quell’umidiccio che da solo ti blocca la cervicale. A quelle scale che belle sì, ma al massimo van bene per i turisti, che quelli non c’hanno mai un caspita da fare. Ma la gente che lavora può mica perder tempo così, che poi a forza di far su e giù, capace che ti s’infiamma il nervo sciatico e ti pieghi a panino per 3 giorni se va bene. Perché la ginnastica si fa in palestra, con la temperatura giusta e il personal trainer che ti controlla. Eh!

E quando attacca con i pipponi sul benessere fisico poi… Sì perché lui è salutista, perfezionista, assolutista e per giunta vegano: niente carne, niente pesce, niente uova. Anche se poi non trova minimamente ipocrita il fatto di spennare le piume dal culo dell’oca per imbottire i suoi griffatissimi e preziosissimi giubbettini da pirla.

Adesso poi c’ha la fissa della pelle e dell’ossigenazione dei tessuti. Ed io posso anche capire che lui sia il mio capo, che la salute sia importante (e uno stipendio ancora di più), ma quando oggi in macchina m’ha fatto lacrimare gli occhi e venire il raspino in gola con l’odore di quei potacci che si spalma ovunque, ho pensato veramente di abbandonarlo in tangenziale.

Ma son cose che non gli posso dire, e mi tocca stare zitta, far finta di nulla e sorridere anche. Perfino di fronte a scene pietose come quella al solito baretto: lui beve il caffè, va al bagno, e se ne esce sacramentando perché non c’è più sapone. Solita menata: io lavoro, guadagno, pago, pretendo, l’avrò sentita 1000 volte.

“Dovresti fare qualcosa per quello lì”, mi sussurra il barista.

“Sì, dargli un sonnifero. Magari con dei lassativi dentro. E poi lasciar fare alla natura.”, rispondo io.

Lui se la ride, mi strizza l’occhio e mi fa:

“Mi sa che ti è andata bene lo stesso.”

E mentre Mister Simpatia ci gira le spalle uscendo, che tanto a pagare ci pensa sempre la serva della gleba, noto che un pezzo di carta igienica, bello lungo, gli penzola dalla cintura, sul retro dei pantaloni.

Ed io lo so che adesso penserete che io sia la solita dipendente stronza e meschina che non gli ha detto nulla perché si rendesse ridicolo per tutta Venezia e tutto il treno, ma non è così. Io non sono di quella pasta. Nossignori.

Oddio è vero che non gli ho detto nulla, ma che c’entra, l’ho fatto per il suo bene: gli ho semplicemente permesso di conservare la carta igienica per poterla eventualmente riciclare in altra occasione, perché il pianeta io ce l’ho a cuore quanto lui, e di alberi abbattuti ce ne sono stati fin troppi. E siccome lo stimo molto per queste sue idee così eco… eco-qualcosa, mi è sembrato giusto che potesse farsene (anche se involontariamente) vanto. Per tutta Venezia e per tutto il treno.

Ciao Guys.


 

 
 
 

Rewind

Post n°244 pubblicato il 28 Marzo 2014 da pantouffle2011

 

Sarà l’influenza, magari la febbre, e certo la stanchezza ci mette del suo, ma oggi, più che mai, vorrei tornare indietro.

Ma non per fare o non fare delle cose, ci mancherebbe. Men che meno per rimediare a degli errori (che poi io quel bel gavettone alla Paola lo rifarei, va detto).

Vorrei tornare indietro solo per poter tirare il fiato, liberare la mente. Per avere come unico pensiero quello di tornare a casa la sera con le ginocchia intere e la bicicletta gonfia.

Questo desiderio non mi colloca di botto tra i grandi pensatori contemporanei, lo riconosco, ma mi viene proprio dal cuore.

Perché a volte si ha bisogno di staccare, recuperare e ripartire. E tornare al passato sembra l’unico modo per farlo.



 

 
 
 

ALLACCIATE LE CINTURE. O almeno tirate su le mutande ad Arca.

 

Il sunto di questo drammone chemioterapico potrebbe essere: tamarro te lo sei preso, tamarro te lo tieni. E la cosa potrebbe finire lì, lo ammetto.

Ma è pur sempre un film diretto e scritto da Ozpetek, quello di Saturno Contro, Le Fate Ignoranti e La Finestra di Fronte. E che soprattutto m’ha fatto conoscere Filippo Timi: voglio dire, mica cotiche.

Per questo, e solo per questo, son rimasta fino alla fine senza cedere alla tentazione – forte – di addormentarmi a metà del primo tempo.

Ma io mi domando e dico: m’hai fatto amare personaggi venuti su dal nulla disegnandoli addosso a Serra Yilmaz. Dai uno spessore perfino a Bova nei panni del ragioniere tristanzuolo e mi fai piacere perfino Elio Germano che parla con i fantasmi. E poi? E poi mi fai un film come questo.

Un film dove la descrizione del protagonista maschile si può riassumere in un'unica parola: maschio. Di quelli tamarri, ma tamarri veri, con bisogni primari e basici dove già ti dice bene se sui tatuaggi non ci sono troppi errori di ortografia.

Ma è Ozpetek, ti dici, non può essere tutto lì. Minimo verrà fuori che il protagonista porta dentro di sè una ferita del passato che gli rende intollerabile la felicità. O almeno qualche voto d’amore fatto alla madre in punto di morte, come nei peggiori film di Rete4. Macchè. E’ solo tamarro, e tamarro resta.

Ma si vede che con la sceneggiatura si andava di fretta, perché anche il personaggio femminile si può riassumere con una sola parola: sì. Sì alle corna, sì a lavorare per portare a casa la pagnotta, sì a crescere ed educare i figli (mentre lui fa il simpatico), sì, sì e ancora sì.

E non si capisce perché se lo tenga, il tamarro, visto che ci litiga pure.

Tanto lo sanno tutti che un pendolo, per sua natura, non può fare altro che oscillare. Anche se è attaccato ad un inguine.

Ma alla fine è proprio lei che sente il bisogno di spiegarlo (se lo chiede perfino lui, serve dire altro?): dice che lo fa per amore. Che lei il tamarro l’ha sempre amato, fino all’ultimo tatuaggio. E sembra non accorgersi che lui sbaglia i congiuntivi anche quando russa.

E finalmente l’Ammore vince, lui abbandona le vacche le signorine che aveva sparse in giro e torna dalla moglie. Certo, lei s’è dovuta far venire il cancro per riprenderselo, certo lui ha ormai un po’ l’addominale forte da carboidrato, ma che c’entra, poteva andare peggio, poteva averci anche la stempia. L’importante è che l’amore trionfi.

Ma alla fine la colpa non è nemmeno degli uomini: è delle donne, che ancora si ostinano a credere nell’amore eterno. Che se tale non è, ce lo fanno diventare. Perché loro, le Donne Che Amano, i loro uomini son sempre fin troppo pronte a perdonarli.

Infine, un consiglio ad Ozpetek: se non riesci a far recitare dignitosamente Francesco Arca, lascia perdere: non serve che ci mostri il culo. Anche se devo ammettere che il pensiero che anche un didietro avrebbe recitato meglio di lui ha colpito anche me.

Ciao Guys.


 

 
 
 

La solitudine dei numeri primi

Post n°242 pubblicato il 28 Febbraio 2014 da pantouffle2011
 

3 mesi fuori casa, 1 conto corrente prosciugato, 1000mila accidenti all’assicurazione.

Uno zilione di bestemmioni arrivati belli freschi dal bar sottostante alle 6 di mattina, ma ugualmente fragranti anche alle 3 di notte. Uno zilione di goals segnati, tentati, sbagliati, che mi hanno fatto tremare i muri ad ogni partita trasmessa sul maxischermo.  Un numero imprecisato di liti fra falegnami, elettricisti, cartongessisti.

Ma anche 1 bagno allagato. Una cifra di bottiglie vuote nascoste ovunque: dai cartongessisti? Dagli elettricisti? Magari dai falegnami. Di sicuro i ragazzi hanno festeggiato, alla facciaccia mia. Gli venisse il cagotto imperiale.

E poi 1 tetto sistemato, 1 solaio rifatto, 1 vita saccagnata e sospesa. 1 impresario truffaldino, 5 operai strappati alla Cassa Integrazione. 1 elettricista musicista, 1 falegname artista e 1 direttore dei lavori con il parrucchino nero pantera.

Tutto per 1 fulmine.

E adesso?

E adesso 32 finestre, 11 porte a vetri, 10 stanze, 3 cantine, 1 terrazzo, un numero imprecisato di piastrelle e un battiscopa più lungo della muraglia cinese: tutto da pulire, tutto lì che mi aspetta.

Ma non saranno queste le cifre che mi rimarranno in mente. 

Anzi, a dire il vero quello che rimarrà come ricordo non saranno nemmeno numeri, ma nomi: quelli delle persone che ci hanno aiutato.

Perché se è vero che si può perdere tutto in un momento, è altrettanto vero che saranno sempre e solo le persone che hai accanto a fare la differenza. Nel bene e nel male.

Amen.


 
 
 

Da qualche parte ho letto

Post n°241 pubblicato il 23 Febbraio 2014 da pantouffle2011
 

 

Da qualche parte ho letto che la vita è fatta di una quotidianità che al momento non noti e che dai per scontata, ma che alla fine saranno proprio le cose di tutti i giorni che ricorderai con più nostalgia.

Forse per questo a volte la felicità è riavere quello che avevi prima. Magari più nuovo.

Per me la felicità, oggi, è tornare a casa mia, ritrovare le cose di sempre. E se non lo è ci si avvicina parecchio.

Di sicuro è così che la voglio vivere. Ed è così che la sto vivendo.


 

 
 
 

Era meglio se continuavo a dormire

Post n°240 pubblicato il 04 Febbraio 2014 da pantouffle2011
 

Allora, che ultimamente non me ne vada bene una neanche per disgrazia ormai si sa.

Diciamo che su una scala da 1 a 10, dove 1 è “Ho beccato in pieno una pozzanghera” e 10 è “Ho preso l’ergastolo a vita e mi è venuto il sistema nervoso per la claustrofobia”, penso di potermi piazzare tranquillamente all’ottavo posto. Al limite al settimo perché son modesta.

Quindi mi scuserete se stasera ho proprio voglia di sfogarmi.

E se non mi scusate per me va bene uguale.

Perché stasera ce l’ho con gli assicuratori. Sissignore. Ma non con le Assicurazioni, perchè quelle sono astratte, ce l’ho con gli assicuratori, proprio. E con tutti quelli che si nascondono dietro al proprio ruolo, dimenticando di essere prima esseri umani, padri, cazzari.

Perché io lo capisco che magari di mestiere vorremmo tutti fare i salvatori della foresta minacciata dagli invasori, cacciare dinosauri e sfamarci 9 figli. Che vorremmo non dover mai accettare compromessi, sentirci importanti e nobili, domare incendi ed inaugurare orfanatrofi. Lo so. E so anche che la vita non è un film e che dobbiamo accettare un po’ quello che viene, fare un po’ quello che capita. Anche l’assicuratore.

Ma per rifugiarsi dietro a parole come “prassi”, “miglior offerta”, sapendo bene che ti sta ammazzando a badilate, ci vuole una bella faccia di colla. E non so se i soldi che si porta a casa a fine mese possano essere una giustificazione sufficiente.

Spesso ho detto che avrei voluto scappare via, andare a vivere sotto una palma, mangiare banane e guardare il tramonto, e la voglia ce l’ho ancora.

Ma stasera le mie priorità sono diverse: vorrei andare in un paese in cui i disgraziati sono disgraziati, e non assicuratori, dottori e avvocati.

E della palma farei ben altro uso.

 


 
 
 

The Wolf Of Wall Street

 

Dove più che un lupo c’è un volpone, che è Martin Scorsese, e dove Wall Street sono tutti i soldi che si porta a casa ogni volta che fa un film.

Perché funziona così: lui si fa venire un’idea, (che deve essere ambientata a New York, sennò non gli vien bene, un po’ come la mia nonna che se non faceva le raviole sul tavolone di marmo poi le venivano mollicce e tutto il ripieno ti faceva ciao), ci mette uno bravo (spesso Di Caprio), e poi passa direttamente alla cassa.

E’ così, non si scappa.

Perché Scorsese avrà fatto dei bellissimi film, non provo nemmeno a dir di no, ma non è che tutto quello che fa sia un capolavoro. 

Prendi questo qui per esempio: The Wolf Of Wall Street.

Che già il protagonista, voglio dire. Uno che la truffa ce l’ha nel dna, che non si pente nemmeno un momento, che non ha il benchè minimo rimorso né ripensamento. Un personaggio più piatto di una prima di reggiseno. E dire che in 3 ORE di film qualche occasione per redimersi ce l’avrebbe anche avuta, se vogliamo. Ma lui niente, dritto e ritto fino ai titoli di coda.

E’ basato su una storia vera e ognuno è quello che è, obietterebbe Scorsese. Va bene, ma anche Gino, il fornaio sotto casa mia, è vero verissimo, ma se ti racconta la sua vita ti addormenti in 3 minuti netti. Non è che ne devi parlare per forza.

Ma che la noia sia in agguato lo sa anche Scorsese secondo me. Infatti (ve l’ho detto che è un volpone), in queste 3 BELLE ORETTE (scusate se insisto, ma 3 ORE sono tante), ci mette dentro anche molto altro: perché c’è mica solo il protagonista, ci mancherebbe. Ci sono anche i suoi amichetti. Che si drogano tantissimo, fanno sesso a stecca e bevono abbestia. E nel mentre trovano anche il tempo di fare una paccata di soldi. Per drogarsi tantissimo, fare sesso a stecca e bere abbestia, naturalmente.

Il tutto per mostrare che chi ha i soldi vive in un mondo tutto suo, senza regole, freni, né inibizioni.  Ma che, davvero? Ciumbia che genialata. Ci voleva Scorsese per dirlo.

Ma se osanniamo The Wolf Of The Wall Street come un capolavoro, il fatto che Don Matteo sia arrivato alla nona stagione ha finalmente un senso.

Ciao Guys.


 

 
 
 

Qualche volta poi

Post n°238 pubblicato il 28 Gennaio 2014 da pantouffle2011
 

 

Se c’è una cosa che posso dire di avere fatto nella mia vita, è quella di aver girato il mondo.

Sissignore. Con cocciutaggine, convinzione e molto spesso incoscienza, ho girato il mondo in lungo e in largo, di sopra e di sotto. Magari non quanto avrei voluto, ma sicuramente più che ho potuto. E di alberghi ne ho visti tanti: alcuni bellissimi, da abbracciarsi al materasso per non farsi portar via, per dire, altri che un canile gli fa un baffo.

Perché io gli alberghi li scelgo un po’ così, alla viva il parroco, come dire, tanto so che non sarà di quelli che conserverò il ricordo. Ci saranno posti, sorrisi, pensieri, altre cose a definire un viaggio.

Ma poi ci sono le eccezioni, le sorprese. Quelli che riescono a staccarsi in qualche modo dallo sfondo in cui li ho confinati.

Come un alberghetto in cui ho soggiornato ad Arles per esempio. Comodo come la sabbia nelle mutande, nuovo come Gino Bramieri, ma gestito da una vecchina che ancora me la ricordo. Coetanea di Noè, penso, ma genuina e fresca come poche. Un personaggio in tutti i sensi.

Poi c’è stato L’Hotel Luxor di Las Vegas. E lì vabbè, fra cotoni egiziani, letti king size e prodotti di cortesia che pareva avessi una Sephora in camera, volevo chiedere la cittadinanza lì e non uscirne mai più. Per dire la comodità.

Ma l’ultima sorpresa l’ho avuta recentemente a Firenze.

Locanda dei Poeti si chiama il posto. Ci sono capitata per caso, un fine settimana, per fuggire da assicurazioni, parquettisti, calcinacci e ponteggi: due giorni per scappare dalla mia vita, una fuga in albergo per dimenticare di non avere una casa. Un paradosso? No: un regalo bellissimo, come solo chi ti vuol bene, chi ti è attento, ti può fare. Insomma, una cognata come la mia.

E io che non ho simpatia per i bed&breakfast, cari come un albergo, scomodi come una pensione, e che i poeti li manderei tutti a cercare il senso della vita nelle miniere del Sulcis, alla Locanda dei Poeti mi son dovuta rimangiare le mie convinzioni, dalla prima all’ultima. Perché il posto è bello, centrale, ben tenuto, originale e nuovo. E la spontaneità di chi lo gestisce è stata tale e tanta che perfino il vassoio di benvenuto e i cioccolatini sui cuscini mi son parsi la cosa più naturale del mondo e non la solita trovata banale e stucchevole da Love Boat.

Perché non era solo quello, era curato tutto, ogni dettaglio, dal giardino interno, alla cucinetta con ogni ben di dio, ai  salottini sparsi ovunque, ai libri a disposizione, tutto.

E io ho capito una cosa: non importa quello che fai, ma l’attenzione che ci metti nel farlo.

E allora un B&B diventa meglio di un hotel. E una cognata diventa una sorella.

Ciao Guys.


 

 
 
 

Bar Collando

Post n°237 pubblicato il 14 Gennaio 2014 da pantouffle2011

Mi avessero mai chiesto, fino ad un mese fa, di fare un veloce elenco delle tipologie di bar, ne avrei indicati un paio, massimo 3.

C’è quello da aperitivo, avrei detto sicura, magari fighissimo, con fighissimi e fighissime tirati a cera; quello da un caffettino e via, dando magari una sbirciata al Sole, e quello del Circolo Acli con la spuma, la spumiglia e il tressette.

Tutti gli altri, quelli dell’autogrill, della piscina etc., non sono altro che succedanei, figli di un dio minore, e vuoi per mancanza di occasioni, vuoi perché son pigra, mi capita poco di frequentarli.

Per questo o per altro, un bar come quello che mi son trovata sotto casa m‘ha colto impreparata. E mi lascia sconclusionata.

Dovessi definirlo, direi che è un bar di perdigiorno. Dovessi descriverlo, parlerei di schiamazzi, bevute e frustrazione. Le frasi complete mal s’adattano a rappresentarlo, perché poco o nulla c’è da raccontare. Non è un bar dello sport, non ci si gioca a biliardo, non ci sono videopoker, né tantomeno bariste tettute e chiacchierone: ci si va a bere e basta. Chè alla fine lo scopo è quello, e la crisi ti fa pratico.

Non è che mi voglia fare gli affari loro a tutti i costi, anzi, ma dato che i decibel vanno di pari passo con gli spritz, in qualche modo mi trovo a condividere pensieri e vite.

Pensieri tristi e vite grame a dire il vero, segnati da disoccupazione, figli non cercati e famiglie disgregate.

Con i ragazzi del muretto, o con gli stereotipi giovanili in genere, c’entrano poco. Ancora meno con parole come posto fisso e busta paga.

Perlopiù si lamentano di non avere soldi, del lavoro che non c’è, o della ex – quella zoccola - che s’è trovata un altro e non gli fa vedere i figli.

E più sale il tasso alcoolico più i progetti si fanno audaci.

“Eh ma vedrai che gliela faccio vedere io a quella lì… adesso mi sistemo, mi faccio la BMW, e poi vedi se non torna da me.”

E tutti a darsi ragione uno con l’altro, perché le donne vogliono solo i tuoi soldi, si sa.

Se abbiano progetti veri, concreti, per un domani reale e non destinato a svanire con il passare della balla, non saprei dire. Non so nemmeno se possano permettersi di averne, o se l’acquisto di uno smartphone a 1000 rate sia il massimo cui possano aspirare.

Un gorillaio di sfaticati, verrebbe da dire. E probabilmente non sarebbe nemmeno sbagliato.

Chissà quanti dei frequentatori abituali avranno sprecato tempo, soldi ed energie paterne ad inseguire le bionde. Magari qualcuno avrà anche passato gli anni a far saltare le cassette della posta e con altre amenità, altri si saranno persi. Ma, mi chiedo, è davvero pensabile che sia così per tutti loro?

O è più probabile che ci sia qualche altra spiegazione, se così tante persone si trovano in difficoltà, costrette ad una parvenza di vita che non va oltre una basica e quotidiana sopravvivenza?

A volte vorrei che qualcuno dei nostri politici venisse qui, a pronunciare parole come agendizzare, briffare, e altri deliri. Qui, sotto casa mia, a dire che il problema è la mancanza di flessibilità dei giovani. Secondo me lo frustano con la catenina che hanno al collo, sempre che non l’abbiano già venduta al Compro Oro, ovviamente.

E adesso che siamo pieni di disoccupati laureati in “Psicologia degli animali da cortile” e “Scienze degli scacchi” mi chiedo se il progresso sia davvero questo. O se nonostante tutto non fosse meglio una volta, quando tuo padre faceva il contadino o l’operaio e non ti veniva nemmeno in mente di fare altro, perché un lavoro era un lavoro e basta, e se ti permetteva di mantenere la tua famiglia, be’ allora era un buon lavoro.

Perché sognare un futuro migliore di quello dei tuoi genitori è legittimo, ma mangiare tutti i giorni è una necessità. E se hai la pancia vuota anche sognare diventa difficile.

Qualcosa non ha funzionato in questa nostra economia, questo è sicuro.

Ma farci credere che la colpa è nostra perché vogliamo una vita facile non è una soluzione. In realtà vogliamo solo che ne valga la pena.

Ciao Guys.

 

 

 
 
 

Il bello del Natale

Post n°236 pubblicato il 30 Dicembre 2013 da pantouffle2011
 

 

Il bello del Natale è che prima o poi passa. Il brutto è tutto il resto.

Ma non è che non lo sapessi, lo sapevo eccome. Son mica babbiona per niente, voglio dire.

E proprio per questo mi ero organizzata una perfetta via di fuga prenotando un girolino a Praga: tornavo a brindisi fatti e bella ciao. Niente pandoro, niente albero, niente lucette. Niente di niente. Poi è andata come è andata e vabbè. Ma la compagnia aerea un bel brindisi deve averlo fatto a me, quando mi ha comunicato che non mi avrebbe rimborsato una bella renna. Il prezzo è troppo basso, m’hanno risposto. (Brutta pezzente era il sottotitolo neanche troppo sottinteso).

Ma a parte che t’ho pagato quello che m’hai chiesto, e pure con un certo anticipo, potevi mica dirmelo quando t’ho sottoscritto l’assicurazione? Fatta proprio per poter annullare all’ultimo, aggiungerei. Mi dicevi ferma lì, con questa cifra non ci compri nemmeno le lenticchie a Capodanno e io mi facevo due conti. E magari ti credevo in buona fede. Ma se lo scopro invece solo dopo che ti ho chiamato, perdipiù A PAGAMENTO, perché per tagliare i costi non c’hai nemmeno più una miseria di numerino verde, permettimi che la mia seppur immensa fiducia in te possa vacillare un ciccinin.

Ma buttato alle spalle questo fastidioso contrattempo c’ha pensato il bar che ho sotto casa a ricordarmi che è Natale.

“Vedrai che in questi giorni rimarrà chiuso”, ho detto ingenuamente a mio marito aprendo le finestre. Il Tir parcheggiato proprio di fronte e 2 tipi che si davano da fare a scaricare casse e casse di birra m’ha tolto all’istante ogni illusione.

Perché si vede che quei ragazzi al Natale ci tengono e lo festeggiano come si deve. Fino alle 2 e mezzo di notte. Tanto che in qualche momento abbiamo anche pensato di chiamare i carabinieri. Così, tanto per farli festeggiare insieme a loro. Non necessariamente dentro al bar.

Anche se ammetto che il tentativo di uno degli sciamannati di baciare tutte le ragazze sotto il vischio m’ha commosso nel profondo. Soprattutto perché non c’era il vischio, ma una stella di Natale. E non era ad altezza d’uomo, ma sopra un tavolo. E a rotolarci sotto si fa sempre un po’ la figura degli ubriachi, soprattutto se ubriachi lo si è veramente.

Per il resto solito pranzo e solite cose. Con quelli che vedi sempre e che hai nel cuore, e non c’è bisogno del Natale per ricordarti di loro. E anche con quegli altri, quelli che vedi solo in quel giorno (e un motivo ci sarà), e che dopo averti sfrancicato le pigne ti dicono: “E adesso non aspettiamo Natale per rivederci un’altra volta eh…”.

Infatti io il Natale non lo aspetto proprio. Men che meno per rivedere persone di cui m’importa poco o nulla.

Ma che vi devo dire Guys, a me il Natale piacerebbe anche. Ma fra strazi familiari, fulmini e casini di ogni genere,  mi sa tanto che son io che sto un po’ sull’anima al Natale.

Cin cin.


 

 

 
 
 

Quando c'è l'armonia c'è tutto

Post n°235 pubblicato il 21 Dicembre 2013 da pantouffle2011
 

 

Collega 1 è depressa, ce l’ha con il mondo, con la figlia e con la macchinetta del caffè. Troppi giorni troppo uguali, con le sole scadenze delle bollette come date da ricordare.

Per ricompensarla dei tanti sacrifici sua figlia posta su feisbuk i suoi progetti per il futuro: “Da domani voglio drogarmi” resta il più sensato.

Collega 2 non dorme di notte. In compenso dorme di giorno, scegliendo di non vedere le infedeltà del marito.

Il capoufficio bestemmia a mezza voce, preoccupato per l’andamento aziendale. La baby sitter, le private, gli sci… ci vogliono soldi per potersi disinteressare dei figli.

Una non più giovanissima ragazza dell’accettazione s’è trasformata in meno di un anno da single selvaggia ad agorafobica zitella gattara. Adesso s’è fatta i colpi di sole e la permanente. “Ho voglia di conoscere qualcuno, mi sento sola”, m’ha confidato la scorsa settimana. Ma tanto lo sappiamo tutti che quando ha smesso di darla via come il pane,  lei non la cercano nemmeno per arrestarla.

In questo piacevolissimo clima di sfrenata allegria, il litigare diventa allora l’unico modo per sentirsi vivi, o per pensare ad altro.

E le discussioni inutili si sprecano, i dispetti pure.

“Brutta panzona deficiente” è stata l’ultima frase che ho sentito oggi mentre uscivo dall’ufficio. Tuttora ignoro se la panzona, deficiente o meno, abbia risposto con lo stesso slang. Magari si è accontentata di prendere a cornate la collega.

Dicono che il Natale tocca i cuori, e magari è anche vero. In fin dei conti 30 anni di Beautiful mi hanno insegnato che tutto è possibile.

Ma se così davvero fosse, lunedì, quando ci scambieremo tutti dei sincerissimi e profondissimi auguri, potrei finalmente rilassarmi un pochino, e magari gli auguri potrebbero essere davvero profondi e sinceri. Perché a me, di entrare in quello spirito natalizio, che ad oggi mi è così estraneo, non dispiacerebbe neanche un po’.

Cin cin, guys.


 

 
 
 

Poi magari mi carica un’ambulanza, ma magari no.

Post n°234 pubblicato il 17 Dicembre 2013 da pantouffle2011
 

 

E’ incredibile come una casa possa parlarti di qualcuno, anche quando questo qualcuno fisicamente non c’è più. Anzi, magari proprio per questo.

Ma succede. Succede se la persona in questione era una presenza talmente forte che anche la sua assenza non può essere da meno.

E infatti come ti giri, sia pure in una casa che di vecchio non ha nulla, i ricordi ti prendono a tradimento.

Basta arraffare al volo la sciarpa e ti cade l’occhio su un libro. Poi un altro e un altro ancora. Titoli selezionati, mai banali e improvvisamente capisci di come sia stato possibile che quella persona ti bastonasse regolarmente a Trivial Pursuit.

Oppure entri in casa,  butti frettolosamente il cappotto e tutto ad un tratto ti ricordi di quando su quella stessa poltrona ci stavi seduta con i pantaloni calati. Perché ti aveva fatto un’iniezione e tu eri mezza svenuta, un po’ per la fame, la stanchezza, il disagio. E poi perché a te le punture t’hanno sempre fatto venire il cagotto, diciamolo. E tutto mentre lei, impassibile come la Madonna del Parto, ti parlava di antenati, matrimoni e parenti, come se fosse assolutamente normale avere qualcuno seduto in salotto con il culo di fuori e le gambe in alto. E l’unica cosa che tu riuscivi invece a pensare era Signore prendimi subito, che se entra sua figlia e mi trova agonizzante davanti alla tv posso dire addio alla mia reputazione.

Poi alzi gli occhi e vedi foto di sorrisi, balli e picnic. Immagini spensierate di un’esistenza che spensierata non è sempre stata, perché la felicità non è cosa per anime profonde. Ma una vita sicuramente voluta, accettata con lucidità e convinzione anche nei suoi aspetti più bui, mai rinnegata. Con la caparbietà di chi può permettersi di sbagliare perché sa che avrà in sé la forza di poterne uscire. E pensi che non è poco. Che donne così è una fortuna averle conosciute.

Per settimane ho corso da una casa all’altra, tra l’impacchettare le mie cose, spostare mobili e cercare di restare sana di mente. Voglio dire, c’è chi non corre così nemmeno con la colite. Ma adesso che ho più tempo, mi ritrovo a pensare a lei sempre più spesso. E anche se sono a casa sua e resto ancora profuga e raminga, non mi sembra di guardare la sua vita dal buco della serratura: mi sembra proprio che lei sia qui vicino a me. E che vi devo dire, la sua compagnia mi piace.

Ciao guys.

 

(grazie a Penny per la foto, involontariamente regalatami :-)

 

 
 
 

Com'era, com'è

Post n°233 pubblicato il 07 Dicembre 2013 da pantouffle2011
 

Oddio, non è che non mi piacciano le belle cose, i bei vestiti, gli oggetti di design. Anzi. Solo a guardarli mi vien caldo alle orecchie, per dire. Ma mi sento a mio agio anche con la tuta presa al mercatino e con le sedie dell’Ikea.

“Sono solo oggetti”, ho sempre detto. Hanno il valore che tu dài a loro, non sono loro a dare valore a te. E lo pensavo, giuro. Così come lo penso ancora.

Ma perdere la casa è diverso. Non perdi solo un tetto, i ricordi, le comodità: perdi un po’ anche te stesso.

Non hai un luogo dove andare, un posto a cui tornare. E se prima non vedevi l’ora di chiudere fuori il mondo e spalmarti sul divano, adesso senza accorgertene scegli la fila più lunga alla cassa del supermercato per rimandare quanto più possibile l’ora di rientrare.

Perché non torni a casa tua, sei ospite. Ed essere ospite veramente, dopo che mi ci son sentita sempre, visto che nella mia vita tanto a mio agio non mi ci son trovata mai, mi destabilizza un ciccinin. E quel poco di lucidità che avevo se n’è andata sulla luna, insieme ai miei risparmi e a qualsiasi sogno di serenità.

Ma una cosa sto imparando: ad accettare aiuto. Che per me vuol dire mandar giù l’orgoglio e dire grazie. Il chè può sembrare facile, ma non lo è per niente se non ci sei abituata, quando hai trascorso tutta la tua vita a dimostrare di non aver bisogno di nessuno. E guarda te com’è finita.

Ma accettare aiuto è un conto, altro discorso è chiederlo. E di quello ancora non son capace, proprio no. Anche perché ho talmente bisogno di tutto, che alla fine non ho bisogno di niente.

E chi lo sa, magari la vera libertà è proprio questa.

Ciao guys.


 
 
 

Potrebbe andare peggio: potrebbe piovere

Post n°232 pubblicato il 25 Novembre 2013 da pantouffle2011

Sono ingenua, lo ammetto. Magari anche un po' pirla.

Ma se dopo la disoccupazione, un terremoto, strazi familiari e 2 operazioni in 2 mesi, pensi, "bene, adesso spero di tirare un po' il fiato", non mi pare di essere la regina degli ottimisti. Una pensa di aver già dato.

O magari si guarda attorno e pensa: massì dài, potrebbe andare peggio: potrebbe piovere.

E infatti quello fa, piove. Ma così tanto che ti si allagano cantina e garage. E siccome siamo in un mondo di esibizionisti, anche il tempo vuole fare lo sborone. Ed ecco allora che insieme alla pioggia (tanta), ci mette anche i fulmini (pochi). Ma ne basta 1 per colpire l'antenna di casa tua. E per far andare sulla luna tutto quello che di elettrico hai in casa. A quel punto l'incendio del tubo del gas ti sembra puro folklore. Insieme ovviamente alle 2 camionette dei vigili del fuoco, all'ambulanza, ai carabinieri e ad un numero imprecisato di curiosi.

Per cui, quando alla fine ti schiaffano in mano il verbale in cui la tua casa viene dichiarata inagibile perchè il tetto potrebbe crollare, non ti stupisci nemmeno più. Pensi solo che la sfiga ha trovato la sua regina: sei tu.

E allora ti nasce dal cuore una sola preghiera: Signore, va bene che sono in un mare di merda: l'ho capito e lo accetto. Ma almeno non mi mandare l'onda.

Grazie.

***

P.S. Grazie infinite per tutti i messaggi che mi stanno arrivando in questi giorni. Non so se e quando riuscirò a collegarmi ad Internet, per cui spero mi vorrete scusare se non sarò veloce nelle risposte. Ma sappiate che le vostre parole mi scaldano il cuore, molto più del riscaldamento che non ho. Per cui grazie ancora, vi abbraccio tutti.

 
 
 
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