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« III sogno ricorrenteII Parte. La villa del Moro. »

III parte. La villa del Moro.

Post n°23 pubblicato il 12 Febbraio 2013 da massimofurio
 

                                                     Altre due le avevamo portate a scuola sempre nella formalina in bottiglia, alla prof, di scienze, una bella donna, quasi un’attrice, caccio gli occhi fuori dalla testa, che mai mi sembrarono così azzurri, e poi le mise nell’armadio di scienze, tremando un pochetto anche nella voce, una era enorme l’avevamo messa in formalina dentro una bottiglia del latte, la guardammo con un ghigno, lei ci dette sempre la sufficienza, aveva capito……che potevamo portagliene una viva. 

                          L’ingresso superiore della villa, quello verso il bunker, era un piccolo cancello di ferro arrugginito, in mezzo a due pietre grosse, più alte del cancello stesso e le mura le inglobavano, rifinendo l’entrata. Quando trovammo la grossa chiave, dentro la villa appesa ad un chiodo, dietro la porta di entrata, ce la nascondemmo sulla strada di arrivo in un buco nel muro, occultato da un sasso e non dovevamo più fare i salti mortali per entrare, eravamo i padroni, avevamo le chiavi……

 

                          All’ultimo tornante, c’era sopra strada una pietraia di detriti di scavo delle gallerie del bunker, a metà era nata chissà come, una pianta di albicocche, tutti gli anni incredibilmente coperta di frutta, carica quasi a spezzarsi, nostra tappa certa, ma il problema era che, la pietraia rovente, era la meta anche degli aspidi rossi, detti anche i sordi, con un po’ di corno sul muso, ma anche loro finivano di essere uccisi a bastonate o sassate, le albicocche erano nettare di vita per noi poveri fanciulli affamati…….

                           La prima volta che entrammo, salimmo sul muro, che  era ancora in piedi perfetto, su tutto il perimetro, ne frane, ne buchi minavano la sua funzione, scendemmo a terra sulle piante e ci colpi subito l’oscurità che regnava, il fresco, ci accovacciammo a terra istintivamente impauriti. Le piante non curate da chissà quanto, erano entrate in competizione tra di loro per la luce ed erano cresciute alte, verso il sole, sotto c’era quasi buio, a rispetto della luce accecante fuori le mura, cresceva poca erba e c’erano delle specie di rosoni ove non cresceva nemmeno l’erba e si vedeva la nuda terra. Al di sopra di tutto, c’era una specie di tetto verde.

 

                         C’erano olive, aranci, limoni,palme, albicocche, amarene, nespole, susine, pini marittimi, tutte erano alte fuori dal normale, ma anche molto più grandi e sulla cima, solo sulla cima c’erano i frutti.

 

                          I muri di fascia erano fatti con delle pietre che mi colpirono subito, erano grossi triangoli regolari, molto grandi, tanto da sembrare tagliati dalla mano dell’uomo, erano inoltre molto più alti del normale e le scale incassate nelle fasce, scendevano rettilinei verso la villa, ed  erano scaloni da matrimonio, larghi un paio di metri, con scalini piani e regolari, profondi credo più di un metro.

 

                          Scendemmo guardinghi, come sempre, ma subito capimmo, che il posto era abbandonato da anni, non si vedeva segno di attività recenti, la costruzione era unica nel suo genere, non ne ho mai vista una simile ed era soverchiata dalle piante. Il tetto, era protetto dal libeccio dalle chiome, era intatto, la casa era ad un piano solo, ma era molto larga e profonda, le fasce man mano che ti avvicinavi alla villa erano sempre più larghe e i due ingressi del piano abitativo erano in corrispondenza ma staccati dalla fascia superiore con una specie di fossato. Mentre il piano delle stalle e delle cantine vi si accedeva dalla fascia di sotto. In pratica le stalle erano accessibili attraverso la fascia sottostante e in casa entravi dalla fascia di sopra, attraverso due piccoli ponticelli, sollevabili con delle catene ancora sul posto. Sul lato a monte, dagli ingressi, non c’erano finestre e i muri parevano quelli di un piccolo forte. I due piani erano in comunicazione tramite una galleria ove vi moriva lo scalone di grosse pietre che stavamo scendendo. I due piccoli ponti levatoi ci fecero strabuzzare gli occhi, in un gustoso languore d’avventura, incredibile e straordinaria, ci prudevano persino i piedi…..

 

                        Era molto vecchia la villa, chissà 4/5 cento anni, gli avrà avuti di sicuro, al piano delle cantine sotto la breve galleria, c’era una vasca da abbeveraggio per le bestie, era in pietra, enorme almeno un paio di metri di larghezza e uno di profondità e altezza, al centro c’era una pompa da pozzo a leva, che con nostro enorme stupore funzionava ancora, gli ugelli appaiati e ricurvi al basso, da dove usciva l’acqua parevano le narici di un drago, nell’atto di buttare fumo, avevano un uncino per attaccare i secchi da riempire, era in acciaio ed era più alta di noi, sul bordo della vasca in piedi riuscivamo a malapena a farla funzionare. Nella rinfrancante frescura pompavamo l’acqua che stava in chissà quali vasche sotterranee, probabilmente era l’acqua del tetto, quella piovana e dopo aver riempito la vasca, che era senza foro di scarico di fondo, (prima la pulivamo era piena di foglie e di lucertole morte, che fesse, entravano e non riuscivano a uscire). Dopo, come un rito, ci spogliavamo belli nudi e ci mettevamo dentro la vasca, piena d’acqua di cisterna, con quell’odore di sabbia e foglie che marciscono, stavamo li, che magia, nudi sotto l’archivolto, dentro la vasca piena d’acqua sino al collo a mangiarci le albicocche. Altro che centro benessere e ammennicoli simili, ce ne stavamo nel fresco e silenzio assoluto. Lì, tutti noi eravamo a casa.

 

                         Le solite coppie, ci dividemmo e ispezionammo tutta l’area, il grosso cancello di accesso a valle, era serrato da un enorme glicine che con le sue liane gli si era avvolto attorcigliandosi alle sbarre e inoltre cingeva gran parte delle piante nel podere, per aprirlo ci voleva una sega, erano anni che se ne stava chiuso, sigillo inviolato, il sito, era tutto nostro.

 

                          Davanti la villa c’era un gran spiazzo, ove crescevano le piante da frutta, noi li sotto a quelle piante, come pulci in mezzo ai capelli. Salivamo sulle piante, alte e scheletriche, ricordo gli aranci; i frutti avevano una buccia spessissima, tagliandoli in due con il coltello, la noce di succo che c’era, spremuta direttamente in bocca, dava poche gocce di un succo dolcissimo e con un fondo amaro insieme, che sapore, non lo mai più provato, ma com’erano dissetanti. Li tiravo giù a Mattone che era lesto come un ladro a prenderli al volo, non dovevo insegnarli nulla………..

 

                        I limoni erano enormi, leggermente deformi, li sbucciavamo alla Calabrese, mangiandoceli a morsi e le albicocche erano splendide, vellutate, buone, senza vermi. Era pericoloso raccogliere i frutti, stavano in alto, ad una decina di metri, Cita e Mezzo erano i più abili e leggeri per salire.

 

                        Visto la mancanza di pericoli, nei dintorni della villa, decidemmo di entrare, la prima volta fu con il cuore che batteva a martello.

 

                        Schierati, tatticamente, dopo aver guardato e riguardato, porte e finestre, curiosamente nessuno aveva il coraggio di salire sui ponticelli, tocco a me e Cavallo, al solito, notai che le porte erano tenute entrambe da un fil di ferro grosso e un pezzo di catenella, con ruggine vecchia sopra e se poi erano chiuse dall’esterno come potevano esserci persone dentro. Ma non bastò a tranquillizzarci. - Se ci fossero stati dei morti o peggio dei fantasmi, disse Scion. - - Si, tua sorella ad aspettarci tutta nuda e con la …….aperta. – gli risposi, con la mia solita finezza Francese. Andammo, tolsi il fil di ferro dalla becua piantata nel muro, apri la porta e un tuffo nel passato, apparve ai miei occhi, senza dir nulla mi guardai con Cavallo. Davanti a noi una bolla temporale ferma da almeno 30 anni. – Cosa c’è cosa c’è cosa c’è.- Era Cita che parlava a mitraglietta. – Tua madre – La risposta del maestro di deontologia e gran cerimoniere del gruppo. – Dai venite- e come una molla che spinge un meccanismo erano al nostro fianco, esplorammo la casa uno a fianco all’altro, come una testuggine romana, pronti a tutto, ma non c’era nessun pericolo, la casa era abbandonata da anni. La prima stanza era una grande cucina, da un lato c’era il lavandino in marmo, con delle mensole anch’esse in marmo, di fronte una grossa credenza e sul piano dei cassetti, una bilancia a due piatti, di quelle antiche, con gli aghi che si pareggiavano in un piccolo vetrino, il tavolo, grandissimo col piano che si sollevava tutto e sotto c’era un cassetto a contenitore con le tovaglie a quadretti tutte marce, nelle altre stanze, armadi e comò, con ancora qualche capo d’abbigliamento dentro, mezzo marcio e sforacchiato dalle camue (tarme). Altri tavoli, tondi e quadri, i letti, in ferro battuto con le palle di ghisa sui montanti, sembravano di cannone, i materassi di paglia. Nella credenza in cucina, c’erano i piatti e i grilletti e le fiammanghille, (piatti da portata), ingialliti dal tempo, rotti e riparati col cemento di pronta e fil di ferro, con i punti come i sarti, nella migliore tradizione Genovese, le pentole d’alluminio e in terra cotta. Su di una mensola c’era un vecchio bicchiere posato li ad asciugare, da chissà quando, lasciò il segno nella polvere quando lo levammo. Una cosa insolita era che il lavandino, non aveva rubinetti, l’acqua te la portavi nei secchi di lamiera, prendendola giù alla pompa, e poi te ne servivi per il da fare in cucina. Non c’era nessun impianto di illuminazione, ma nella sala c’era un camino da entrarci dentro. L’altra porta dava in una stanza uguale , ma tutto l’arredamento era meno ricercato, più povero, come si dice ora: in arte povera, ma le stanze erano uguali. Insomma il piano di sopra era diviso in due e una parte era meglio arredata e quella scegliemmo come dimora.

 

                     Ricordo le considerazioni  di innocenti: - Ce la compriamo e ci veniamo ad abitare….Uniamo i nostri risparmi….Chissà sarà abbandonata, ce la prendiamo e basta….Ad abitare in quel posto isolato da tutto e così vicino alla citta, che stava sotto ai tuoi piedi, ci sarei andato solo io, tutt’ora è un sogno nascosto. Vedevo le auto in C.so Europa, il treno sulla tratta Genova Roma, le navi che passavano e  la gente al mare a fare il bagno, alle spalle il monte Moro, il bunker, le pinete, era un posto strepitoso, unico.

 

                      Lungo il monte sul versante al mare, ce ne erano altre due di ville simili, una è visibile dall’autogrill di Sant’Ilario. Strano, ma non troppo se si pensa al carattere dei Liguri, scontrosi, solitari, e sono tutt’ora abitate, a volte ho visto piccole carovane di persone che salgono lungo tortuosi sentieri, con sacchi sulle spalle o a dorso di piccoli asini.

 

                        Il piano di sotto era diviso in stalle e cantine. Nelle cantine c’erano le botti con del vino inacidito e nelle giare c’era ancora dell’olio ispessito, quasi grasso, sopra il tappo di legno e lo spago per la goccia. Trovammo anche delle armi, che molti anni dopo ce ne disfammo, buttandole in un dirupo, ho ancora 5 proiettili di mitragliatrice contraerea alti come una bottiglia del latte, ma li avevamo subito scaricati, per dar fuoco alla polvere la sera San Giovanni Battista, per “festeggiare”. Nelle cantine, cerano le mangiatoie di legno, fatte con tavole enormi e c’erano appesi gli strumenti per lavorare la terra, coi manici tutti tarlati.

 

                         L’unico difetto della villa, era molto lontana, per raggiungerla ci mettevamo 4 ore buone, a passo svelto, senza passare dalla croce, un ora e mezza di meno, ma il tempo di permanenza era poco. Lì, ci sentivamo a casa nostra e ci abbiamo dormito varie volte, alzando i piccoli ponti levatoi, che sogno. Se dormivamo lì, alla sera accendevamo il fuoco nel camino, per non fare vedere il fumo, specie nelle volte che ci andavamo in inverno. Poi un giorno arrivando, sentimmo che in casa era entrato qualcuno, il fil di ferro era come lo mettevamo noi, il cancello chiuso, ma qualcuno era entrato, sentimmo inoltre, l’odore di orina nel minuscolo gabinetto, noi non la lasciavamo mai, gettavamo sempre in ultimo un secchio d’acqua. Ci scosse molto, inoltre su al bunker cominciavano ad andarci le coppiette in macchina, niente di male, certo, ma dietro a loro arrivavano i guardoni e più di uno l’avevamo preso a fiondate. Dal canto loro ci promettevano a gesti di tagliarci la gola, poveri illusi, certe fiondate in testa, li facevamo correre quegli schifosi. Ma, prenderci era impossibile, se poi uno fosse stato preso, lo avremmo ammazzato a coltellate e sassate, su questo eravamo tutti per uno, tra di noi botte anche tutti i giorni, ma se uno esterno toccava qualcuno di noi, la sua vita valeva molto poco, guai chi mi toccava Mattone o chiunque altro, ma su questo eravamo come un branco di lupi.

 

                       Per fortuna non ci fù mai bisogno di questi estremi gesti, bastava la nostra tecnica/fama……solo con un toro, ci dovemmo difendere a cuore in bocca, ma questa, è un’altra storia, Lucarelli docet.

 

                       Di fatto, cominciammo a recarci guardinghi alla villa, passando in assetto, nascosti nella vegetazione, giù dritti dal monte, non ci rasserenava più abbastanza e infine non ci andammo più.

 

                       Ci andai molto tempo dopo, con una ragazza, volevo farle vedere quei posti che le raccontavo, sperando, è vero, che la signorina si commuovesse…..e quindi…., la chiave era ancora al suo posto nel muro, la trovai sicuro, come se ce l’avessi messa il giorno prima, feci un figurone facendole vedere il sito e la ragazza cedette e rifeci un altro figurone……         

                       Ma non avevo più Cavallo, Mattone, Cita, Scion e Mezzo al mio fianco, nonostante la presenza femminile, non era la stessa cosa, ma erano e sono con me, le loro anime.

 

                        Mi raggirai per quelle stanze vuote e ammuffite e per la prima volta le vidi veramente vuote, non c’erano più quei ragazzetti a ridere e scherzare e a tenere in ordine quella casa, manco fosse casa nostra, alle finestre a guardare il mare, a mangiare la frutta come tante scimmiette o nella vasca a rinfrescarsi, cercando di schiacciarci  le palle l’un l’altro con i piedi, scambiandoci occhiatacce e minacce mai attuate, tra gli spruzzi, gli sputi e le risate sguaiate, ma mai con cattiveria.

 

                        Quel giorno piansi in silenzio e mi incupii, la ragazza, era la figlia di un banchiere, non capì, non feci una bella figura stavolta, ma le emozioni mi travolsero, non ci sono più stato.

 

                        Anni dopo, venni a sapere che ai tempi era stata abitata da una famiglia contadina, sfrattata dalla costruzione della torre binata con i cannoni da 381 mm di diametro e del bunker, che le serviva da Santa Barbara, era simile a quelle sulle navi corazzate della II G.M.. Costruita a difesa della citta, il bello è che non sparò mai un colpo, nonostante due attacchi dal mare. La casa si trovava sotto la linea di tiro dei grossi cannoni e nel caso si avesse dovuto sparare, lo spostamento d’aria avrebbe ucciso chi si trovava lì sotto, ed erano poi esposti, ad un eventuale contro tiro nemico.

 

                         Oggi, un qualche soggetto senza scrupoli, ha fatto una strada tracciata sulle fasce, che sale da Genova, distruggendo muri e piante secolari, la villa è stata sventrata e riconvertita a maneggio per cavalli, ha un orribile tetto tipo case del Trentino, non perché sia brutto in se, ma non è della mia terra, non è un nostro tetto.

 

                          Là, restano le nostre fantasie e le nostre ambizioni di ragazzi, un po di me e un po dei miei fratelli. Alla mia banda. A Maurizio/Mattone – Franco/Cita – Marco/Cavallo – Stefano/Mezzo – Mauro/Scion – e io, Massimo/Panzer.

 
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