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Papaveri

Post n°55 pubblicato il 10 Maggio 2011 da lab79
 

(immagine dal blog: http://ilcuorecomeilmare.blogspot.com/2011/01/adesso.html )

Inizia l'estate una domenica qualunque di primavera. La vedo attraverso i finestrini sporchi del treno che sferraglia, incurante del proprio ritardo che intanto si dilata, come sembrano dilatarsi le ore dei pomeriggi d'agosto. I contrasti si fanno intensi, i raggi del sole traffiggono la pelle e scaldano l'alambicco del cuore, facendo bollire i vapori dei propri cattivi pensieri, quelli che coviamo per tutto l'inverno e che ora salgono inebrianti fin nel cervello, ad incattivire la nostra anima. Chi sono quegli uomini, quelle donne che vivono abbandonati sotto i ponti dei cavalcavia, lungo la linea del treno? Che bruciano avanzi del mondo, che si lavano all'aria aperta, che si vestono di stracci. Chi sono? Zingari, sono. Rom, si fanno chiamare, alcuni. Altri Sinti, oppure Gitani, altri ancora: Khorakhané. Li guardo e confesso a me stesso che a volte mi fanno paura, non li capisco, non li conosco. Vanno e vengono senza meta, e me ne chiedo il perché. Dicono che abbiano vagato un tempo in una terra lontana, grande e terribile come il mare: l'Asia. L'Asia lontana che nei miei sogni di bambino si copriva di polvere, al passaggio di uomini dagli abiti sgargianti e dagli occhi come fessure, a scrutare il vasto orizzonte. Uomini che dormivano nelle tende leggere, oppure sui cavalli, comunque sotto le stelle della tundra. I soldati di Temujin, gli uomini del Gengis Khan. Cosa ci fanno qui, invece, questi uomini da niente, a rovistare tra la spazzatura e i fiori? Già, i fiori. La massicciata si riempie di fiori, quando arriva l'estate. Fiori da niente, erbacce che per una stagione sola si vestono a festa e colorano i margini del mondo di rosso, come se il mondo non potesse tollerare più i colori smorti del ballast, del ferro e del cemento. Papaveri. Il mio treno sferraglia sulla sua via ferrata, mi porta lontano da casa, verso il mio lavoro. Un luogo cui non voglio bene, ma dal quale dipendo, e che dunque, non di rado, odio. Ancora papaveri. Il treno accelera appena e ad ogni scambio sussulta, io sonnecchio e nel dormiveglia frugo tra i miei ricordi, chiedendomi dove ho già visto quei fiori da campo in mezzo alle pietre, dove ne ho già sentito parlare. Mi addormento, ed eccola l'Asia antica dei miei sogni, con i suoi eroi ancestrali e crudeli; Re saccheggiatori, nomadi tagliatori di teste, uomini che dormono nelle tende leggere, oppure sui cavalli, comunque sotto le stelle della tundra. Gli uomini di Temujin. I soldati del Gengis Khan. Ed eccolo il Khan, che sparge semi di papavero sul campo coltivato a morti, dopo la battaglia, a segnare che li vi è stato sparso del sangue, perché non venga dimenticato. Mi sveglio e dal finestrino sporco rivedo questi uomini: bivaccano ai margini del consorzio umano, bruciandone gli avanzi per scaldarsi, e per nutrirsi. Camminano vestiti in stracci, si lavano all'aria aperta senza pudori, e rovistano tra la spazzatura e i fiori. Ed eccolo, lento come in un sogno, un bambino nudo camminare con un fiore di papavero tra le dita, mentre ne sparge i semi tra l'acciaio dei binari e sul mondo, e per un istante, ma per uno soltanto, afferro qual è il senso di tale folle libertà.

 
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