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a place called home

 

Messaggi di Maggio 2016

Nuvole

Post n°429 pubblicato il 28 Maggio 2016 da lab79

C'è un cielo color della terra, che rapidamente volge al grigio. E' indubbiamente estate. Si accumulano sospese a mezz'aria nuvole cariche di elettricità, sospingono lievi l'aria che entra dalla porta, portando con sé refrigerio e una sensazione di attesa. Attendo, dunque, il primo vero temporale estivo, il primo che brontoli impaziente la sua voglia di pioverci addosso, per poi farlo quasi gentilmente, con una lentezza saggia, come quella che si riconosce ai vecchi. La strada si acquieta, è sabato sera ma chi è nei dintorni tace, distratto dalla partita alla tv.  Scrivo, intanto, tengo le luci basse per qualche minuto ancora e aspetto le prime gocce di pioggia per correre a chiudere le porte.

Non ho quasi pensieri.

Soltanto l'imperfetta intuizione di quanti temporali abbia visto questo mondo, prima che per l'uomo arrivasse l'alba. Quante nuvole immense si sono affacciate a questo orizzonte, quante piogge hanno slavato i monti, quanta acqua ha bevuto questa terra. Quanto breve è la nostra esistenza in quanto specie, e quanto fragile il miracolo di afferrare il senso della nostra presenza qui, ed ora, per ora e per questo istante.

Quest'istante che è già finito.

Una famigliola di turisti francesi entra dalla porta. Le bambine hanno l'aria monella di chi sa di stare facendo tardi, e di farla franca. Sorridono stanchi, si incamminano verso le loro stanze rimproverando le bambine per il rumore, senza troppa convinzione. Io sorrido, incapace di confessare in altro modo che la loro presenza mi rincuora, e non importa se non ci siamo mai incontrato prima d'ora, se non condiviamo la stessa storia né la stessa idea della storia. Viviamo sotto lo stesso cielo, solitari e chissà per quanto ancora, prima che arrivi la prossima pioggia a slavare questa sponda del cielo e portarci via, nella schiuma del mare.

Risuona il primo tuono.

Cade la prima goccia.

 
 
 

Elogio dell'Ipocrisia

Post n°428 pubblicato il 25 Maggio 2016 da lab79
 

La sincerità è sopravvalutata.

Certo, è necessaria per non rendere la nostra vita (e quella di chi ci circonda) un inganno. Si sta benissimo negli inganni, ben inteso, a patto che funzionino. Ma se proprio vogliamo sentire di aver raggiunto una vita piena, la sincerità è necessaria. Ma fa male, questo credo lo sappiate tutti. E non è detto che sia un male medicinale, che porti poi dei benefici. Non è detto che la sincerità sia un male necessario. Peggio ancora va alla franchezza, sorella meno raffinata della sincerità. La cui differenza sta nei modi, nelle parole scelte e nella noncuranza del dolore degli altri. La differenza sta nella scelta: la sincerità sceglie di dire la verità, con tutta la delicatezza possibile, se possibile. La franchezza sceglie di dire la verità senza giri di parole. Anche quando la verità fa male. Anche quando la verità non è necessaria.

Ma né la sincerità né la franchezza sono per forza pure. Si può essere sinceri per convenienza, perché illuminare la verità con una luce gentile può comunque scatenare una reazione di cui trarre vantaggio. Perché ferire con la brutalità della franchezza può essere una soddisfazione del nostro sadismo.

Forse perché entrambe figlie della verità, e la verità come gli dei è assoluta. Limpida e lucente di se stessa, meravigliosa e terribile come il mare, e come il mare incurante dei nostri destini. La verità, come dicono che dicesse qualcuno, è la fine del mondo.

 

E l'ipocrisia? Oh, certo. La viscida ipocrisia che con voce delicata elargisce menzogne al mondo, in un angolo della stanza col cappuccio tirato sugli occhi. La scaltra ipocrisia, che chissà quali mire nasconde, che chissà a quali troni ambisce. E chissà se invece, di tanto in tanto, regala bugie che addolciscono la verità, e che riscaldano il cuore. E a volte non è nemmeno necessario che siano bugie incartate nella menzogna. Certe volte può persino bastare una bugia nuda, piccola come una caramella e consegnata sulla mano di qualcuno che piange, per svelargli la verità che giace nel fondo del cuore dei bugiardi.

 

 
 
 

Sveglia

Post n°427 pubblicato il 21 Maggio 2016 da lab79

Svegliati.

Anzi no. Non ancora.

Stringi ancora un momento il cuscino mercenario che custodisce i nostri sogni, trattenendoli più del dovuto. Stringilo e spremi i tuoi sogni da lui, che non ne rimanga neanche uno. Portali via. Non lasciarne nemmeno uno, perché più tardi quando sarà giorno mi abbandonerò io alle sue lusinghe, e non vorrò sognarne neanche uno. Lascerò le mie orme sulla spiaggia bianca del sonno incosciente, e camminerò finché dimenticherò come vi sono arrivato a quel vasto mare.

Non svegliarti ancora.

Non fare caso al giorno che spunta ora e che divora le stelle, che scaccia la luna piena dietro le colline moreniche: Luna fuggitiva che prova a salvare dal sole crudele il luminoso Marte di questa notte, la dolce venere che svanisce ora mentre le nuvole riverberano di una luce che non hai visto mai.

Non svegliarti ancora.

Chiudi il mondo fuori dalle imposte, e scivola ancora un poco tra le lenzuola. Che anche la brezza mattutina fa lo stesso tra le nuvole sottili svogliata e insonnolita, prima di diventare vento. Ora il mondo si fa chiaro, ma tu dormi ancora.

Non svegliarti ancora. Anzi, no.

Svegliati ora.

 

 
 
 

Dell'amore

Post n°426 pubblicato il 17 Maggio 2016 da lab79
 

Una delle tante cose di cui si può accusare questo blog, e di conseguenza il suo autore, è di essere eccesivamente sentimentale, fino a sfiorare il sottile confine con il melenso. E' vero, è una critica che accetto. D'altronde, questo quaderno è a questo che serve: a confinare quel lato patetico che a quanto pare fa parte di me, in un luogo definito: il Tartaro del mio cuore.

Eppure, almeno questo me lo concederete: se c'è una parola che di rado ho scritto, quella parola è proprio Amore.

E non è un caso. E' forse una delle poche parole che non amo. La trovo ridondante, barocca. Quasi inutile, ed impronunciabile come una maledizione. Uno scrigno ingannevole, dal contenuto apparentemente dolce ma in realtà mellifluo, e che non fa che attirare le mosche. Ancor peggio va alla declinazione "Ti Amo". Quanto di peggio mi possa capitare di leggere, o di sentir dire: un'espressione capolavoro nella propria vuotezza, probabile contenitore di menzogne. Polpetta avvelenata della lingua, e nei peggiori dei casi, dei sentimenti.

No, non lo amo proprio, l'amore.

Come non amo altrettanto la parola "passione" e  i suoi derivati, specialmente in un contesto sentimentale. Perchè la trovo una parola scontata, venduta come la "Leggerezza" sui formaggi, la "Purezza" dell'acqua, "L'Onestà" dei candidati a una carica pubblica.

Amore e Passione sono, ai miei occhi, solo pubblicità.

E della pubblicità si portano dietro lo stesso sottinteso: "Io ti dico questa cosa, ma non prenderla alla lettera". Perché come la pubblicità, le parole "Ti Amo" richiedono un processo critico, prima di essere accettate. Devo sapere da chi vengono, in quale occasione, con quale scopo. E non pensiate che sia cinismo. Voglio che queste parole vengano pesate quando sono io a pronunciarle, alla stessa maniera in cui si pesano gli ingredienti prima di cucinare la pietanza che ci nutrirà prima che si faccia sera. Perché se l'amore esiste, e risponde al nome con cui lo chiamiamo, non somiglia di certo a un gioiello della corona. Non se ne sta appollaiato sulle torri d'avorio, imperturbabile ed eterno. L'amore cambia, come cambia il profumo della cucina di sera in sera, e il sapore che condividiamo seduti intorno alla stessa tavola, stanchi della vita che abbiamo vissuto per poter arrivare a questo momento. E i sapori ed i profumi non si dicono. Si gustano, e al massimo li si racconta.

Ferro 3 - La casa vuota - (Diretto da Kim Ki Duk, 2004)

 

 

 
 
 

Giochi?

Post n°425 pubblicato il 13 Maggio 2016 da lab79

"Papà! PAPA'!! Vieni!"

Non ha ancora sfumature, la sua voce. Corre a passettini saltellanti dal salotto, chiamandomi a gran voce, senza attendere la mia risposta, né stare a sentire le mie resistenze perché ho le mani occupate. E' tutto imperativi: vieni, alza, voio, dammi. Alle sue richieste si obbedisce. Certo, non è sempre così, spesso ci tocca dire di no. Non puoi mangiare la frutta prima di cena, non puoi guardare la tv quando è ora di fare nanna, non puoi uscire scalzo sul balcone perché piove. E allora a volte sono capricci, a volte pianti. A volte sono proteste silenziose: seduto con il broncio e le braccia incrociate, ti spinge via con le manine se ti avvicini, e ti fa di no con il ditino sentenzioso. Trenta mesi circa, come li contano ancora certe mamme che ho incrociato al parco giochi, e che ogni volta fatico a tradurre in due anni e mezzo. Trenta mesi uno diverso dall'altro, uno più complicato dell'altro. Due anni e mezzo, e il ditino appoggiato al mento mentre cerca di decidere quale film vuole guardare questa sera. No, certo che non sa ancora leggere. Ma sa di certo riconoscerli dalla forma delle lettere che compongono il titolo, suppongo. E sono minuti interminabili, mentre siede sulle mie braccia ed esamina il catalogo intero dei nostri dvd. "Vuoi guardare i Puffi?" "No" "Madagascar?" "No" "Ape Maia?" "No" "Masha e Orso" "No" "Formiche?" (Sarebbe Bug's Life) "No" "Guardiamo Alvin?" suggerisce la mamma, stanca di aspettarci seduta sul divano. "No", risponde lui. "Arancia Meccanica?" suggerisco io, giusto per vedere se cambia opinione."No. Nononononono...." fa lui, e poi finisce col scegliere i Puffi. Guarderà si e no venti minuti, prima di andare a dormire. E intanto facciamo il riassunto delle novità, il suo asilo, il vasino, il fatto che ha cominciato a pronunciare correttamente il suo nome, e che differenza con le femminucce della sua età che sono tre passi avanti, e ormai chiacchierano irrefrenabili, e che ci vuoi fare: noi maschi siamo un po' più tordi.

Lui intanto si strofina gli occhi di nascosto, per non far vedere che è stanco.

Oppure i pomeriggi come oggi, quando fuori il mondo è tutto pioggia e nebbia, e chisseneimporta se è maggio. Ci sono tredici gradi scarsi là fuori, e allora noi ce ne stiamo nella tenda da indiani riempita di peluche: la sua tana dell'orso, come la chiama lui. E giochiamo a giochi misteriosi, che ancora è presto per strutturare in modo complesso le sue fantasie. Illumina gli occhi dei pupazzi con la sua pila, la nasconde e finge di averla persa, si tuffa tra gli animali di pezza e vuole che io venga con lui in quel mondo. Ed io mi chiedo se ricorderà tutto questo, la mia voce che lo rincorre per casa e il rumore della pioggia chiuso fuori dalla finestra. I pomeriggi azzurri nel parco giochi davanti a casa nostra, i lividi alle ginocchia quando cade dal monopatino, il rumore della palla da basket dei ragazzi grandi che giocano partite interminabili in attesa che si faccia estate. Di tutto questo, cosa si porterà con se?

I primi ricordi che ho di me stesso non so nemmeno se mi appartengano. Il primo ricordo è arcano: sono in braccio a mia madre, coperto da un sottile velo di cotone, come si usava una volta per proteggere i bimbi dalla polvere onnipresente, e dal sole inclemente. Nient'altro. Non posso avere più di una paio d'anni, forse proprio l'età di mio figlio. Il secondo è di notte. Guardo nel cielo una luna immensa ed un cielo buio, e chiedo a mia madre dov'è mio padre. "Lontano" mi dice. "Quanto lontano?" chiedo ancora. "La vedi la luna? Il papà si trova in un posto lontano quanto la luna." Ed io, non ancora soddisfatto della risposta, chiedo:"E come farà a trovarci, quando verrà?" E mia madre mi risponde: "Il papà conosce la strada di casa." Non conoscevo ancora mio padre, non sapevo ancora di quanto l'avrei odiato, che un giorno l'avrei lasciato indietro, che a causa sua oppure semplicemente a causa della vita me ne sarei andato. Che non sarei più tornato. Ma questo ricordo non è puro, non è solo mio. Non avevo ancora tre anni, non posso ricordare. Come molti dei ricordi dell'infanzia, anche questo non è che un complesso di sovraimpressioni: i miei ricordi, e i racconti dei ricordi degli altri di quel momento, e forse anche i sogni, e il ricordo delle tante volte che quel ricordo l'ho sognato.

Il terzo ricordo è la sera in cui lui è tornato. Io ne avevo curiosità, e paura. E non osavo avvicinarmi, né allontanarmi da lui. Ed era sera, lui era stanco e ancora euforico di essere a casa. Si appoggiò con noncuranza al tavolo, ed io cercai di imitarlo. Ma troppo piccolo ancora per raggiungere il bordo del tavolo, caddi seduto. Risero tutti quanti, e mio padre forse rincuorato da questo momento, mi prese in braccio. Non ricordo altro.

Saranno così i ricordi di mio figlio?

Ricorderà questi pomeriggio di pioggia in cui siamo stati insieme? Gli resterà il profumo dei peluche lavati da poco, perché la polvere non si accumuli tra le cuciture? Gli resterà la mia voce che lo chiama, le mie braccia che lo sollevano dal lettino quando finisce il riposino pomeridiano? Si ricorderà di me che cedo alle sue richieste di prendere il basso appeso al muro, e di farglielo suonare?

Sognerà un giorno questi giorni che si susseguono, uno diverso dall'altro, uno più complicato dell'altro? Magari senza un ordine apparente, così: come avvenimenti che accadono tutti insieme al di là dell'orizzonte degli eventi, in un sogno che molti chiamano vita, e che in certi momenti sembra non finire mai.

 

 
 
 

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