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Messaggi di Maggio 2020

Io, sacerdote e medico

Post n°3338 pubblicato il 08 Maggio 2020 da namy0000
 

2020, Avvenire 7 maggio

Coronavirus. «Io, sacerdote e medico: così ho curato e amministrato i Sacramenti»

Busto Arsizio: don Fabio Stevenazzi è ritornato in ospedale all'apice dell'emergenza: ho curato gli ammalati e amministrato i Sacramenti ai moribondi

Per molte settimane ha scelto di rispettare il silenzio, «che mi sono imposto da quando ho firmato il contratto con l’ospedale». Ma alla fine, dopo lunghi e difficili giorni di lavoro nella terapia intensiva dell’ospedale di Busto Arsizio (Varese), don Fabio Stevenazzi, il prete dottore, ha molto da raccontare.

A metà marzo ha dimesso per poco (dopo il permesso dell’arcivescovo Mario Delpini) i paramenti sacri in sacrestia, nella parrocchia di Santa Maria Assunta a Gallarate, ed è sceso in prima linea per rispondere all’emergenza Covid-19, tornando a fare il medico, come prima di entrare in seminario. Un’esperienza che prosegue e che ha inciso molto in lui. «Ho scoperto, con stupore, di essere stato prete, facendo il medico, quando in tanti colleghi, anche non credenti, mi hanno preso da parte per farmi confidenze personali, sul senso della vita o sulla fede. Sono state delle vere e proprie "confessioni laiche", che custodisco nel mio cuore con emozione». Non sono mancate le occasioni in cui a don Fabio, i medici si sono rivolti per conoscere il suo parere in decisioni difficili, di natura bioetica.

Davanti agli occhi don Stevenazzi continua ad avere le immagini terribili e le storie dei tantissimi malati, soprattutto nelle prime settimane: «Li ho visti impauriti e sprofondati nella noia di giorni sempre uguali, ritmati solo dagli allarmi delle apparecchiature e dai rumori degli aspiratori. Nel reparto di terapia intensiva non riuscivamo a trasmettere musica perché l’interfono distorce i suoni e perché il soffio dei respiratori soffoca quasi ogni altro rumore. I più giovani e in gamba riuscivano a farsi compagnia con smartphone e tablet, i più anziani al massimo potevano telefonare ogni tanto ai familiari, ma è facile intuire come sia stato penoso per molti di loro. Ogni tanto la vista dell’aggravamento o del decesso del loro compagno di stanza li sconquassava».

Oggi la situazione è un po’ migliorata: «Vedo qualche volto più disteso e sereno, ma anche fra noi medici le domande sono tante e non abbiamo tutte le risposte su come si sta evolvendo la malattia». La fatica fisica è notevole, unita al fatto che, alla fine del turno di lavoro, per don Fabio la vita continua in "clausura stretta", nelle proprie stanze in canonica, senza vedere e incontrare nessuno per non diffondere eventuale contagio. «Celebro l’Eucarestia e prego nel mio salottino, tutto solo come un eremita; nel tempo libero leggo un po’, guardo la tv per liberare la mente, e poi cerco di dormire».

Ogni giorno, don Fabio prova a tenere insieme le due vocazioni di servizio all’uomo, che ha fatto nella sua vita: «Il più delle volte i pazienti non sanno neppure che sono un prete e non possono certo distinguere me dagli altri operatori, avvolti come siamo tutti dallo scafandro. Ho pregato una volta con un degente moribondo che poi ho assolto non so se abbia avuto consapevolezza di me come sacerdote: non poteva sentirmi, assordato dal casco Cpap. Ho anche amministrato il sacramento dell’Unzione, a persone sedate o agonizzanti».

I giorni più bui e strazianti, paradossalmente, sono stati quelli della Settimana Santa, passati tutti in corsia, compreso il giorno della Risurrezione. «La mattina di Pasqua – ha detto – sono passato davanti agli oblò delle camere di degenza con la stola bianca e ho benedetto tutti, distribuendo un’immaginetta con il risorto; penso che sia stato di conforto a molti».

Oggi don Fabio Stevenazzi continua il suo lavoro in ospedale anche se è tornato a occuparsi di qualche aspetto della vita della comunità pastorale di San Cristoforo a Gallarate e nel raccontare la sua esperienza anche agli amici del centro culturale “Tommaso Moro”, sottolinea: «Sono consapevole sempre più che contempliamo Cristo sotto le spoglie del malato sofferente che arranca lungo la corsia, ancora troppo simile a un ripido Calvario».

 
 
 

Una situazione improvvisa

2020, Avvenire 5 maggio.

il coronavirus, che ci ha obbligato a fermarci e a renderci più coscienti di noi stessi per poter ripartire ancora più ricchi di prima”, Alessio Boni, 53 anni, uno dei volti più popolari del teatro e della fiction italiane.

Io vivo una dicotomia profonda. Una situazione idilliaca a casa, con la mia compagna e il mio piccolo: mai nessuno, neanche l’uomo più ricco del mondo, può avere il privilegio di vivere 24 ore su 24 con il proprio bambino. In questi 40 giorni di vita ho imparato anche a riconoscere le variazioni del pianto durante la crescita, un’esperienza straordinaria. E fuori, l’inferno. I miei genitori che sono nella bergamasca stanno bene, ma ho perso zia Laura, che aveva solo 66 anni ed era una potenza. Il virus se l’è portata via e i miei cugini sono devastati. Ho amici medici che mi raccontano la situazione, c’ è ancora gente che muore, la situazione è pesante.

Mi è appena arrivato il ciclostile con le norme ministeriali per il lavoro sul set: sono impossibili da praticare. Se gli attori devono stare a due metri di distanza e non possono esserci assembramenti, occorre cambiare le sceneggiature: come si può fare con le scene di abbracci, baci, conflitti? Personalmente parlando, mi sono saltati 9 mesi di lavoro: 5 mesi di riprese della serie e 4 mesi di tournée del Don Chisciotte, di cui sono regista insieme a Roberto Aldorasi e Marcello Prayer.

Ne ha parlato con il ministro Franceschini ?

A tutti quanti ha fatto molto piacere che il ministro abbia consultato una ventina di artisti (fra cui Paolo Fresu Roberto Bolle, Nicola Piovani, Stefano Accorsi, Vittoria Puccini, Daniele Gatti, Stefano Massini, Emma Dante) per comprendere le problematiche dei vari settori, specialmente dei lavoratori meno fortunati. La cosa positiva è che sta cercando di risistemare una situazione che da anni era èpaludosa. Ha capito che nel nostro settore, che conta 600mila lavoratori, non c’è uno statuto o un sindacato comune. Daniele Rossi Alessandro Quarta, Mario Bunello ed io abbiamo voluto lanciare la petizione “L’arte è vita” per tutelare anche i tanti lavoratori dello spettacolo che non hanno neanche il contratto o che sono sottopagati.

Cosa ne pensa del in streaming, finchè le sale restano chiuse?

Secondo me lo spettacolo deve essere dal vivo, ovviamente seguendo le norme di sicurezza, e basta. Ci sono decine di teatrini meravigliosi, da 300 posti circa, che sono l’ossatura dell’Italia, ma non hanno diritto al Fondo dello Spettacolo e non avendo sovvenzioni, ora crollano. Si po- trebbe vendere un numero limitato di biglietti in platea e i biglietti restanti, relativi alla capienza del teatro, essere venduti per una visione online. Comunque, lo streaming, per farlo bene, costa: occorrono almeno 8 telecamere sul palco, un impianto di acustica perfetto, una consolle di regia, un regista. Solo per partire occorrerebbo 200mila euro di investimento diffiicli da ammortizzare.

E quindi?

Concordo con la proposta fatta al ministro da Monica Guerritore: perché non tornare ai venerdì del teatro in Rai? Gli operatori e gli studi la Rai li ha, servirebbero 6 o 7 giorni di riprese per confezionare un buon prodotto studiato e sceneggiato apposta per la tv. Io un teatro in tv così lo farei.

Questi giorni di chiusura ci hanno insegnato qualcosa?

Che la nostra libertà è un valore enorme. Noi prima la facevamo facile, avevamo tutto, ci lamentavamo per sciocchezze, correvamo forsennatamente. Ma penso ora ai tanti che debbono ripartire e che forse non ce la faranno, come tanti piccoli industriali che conosco, con 14 o 15 operai, che stanno già pensando al peggio oppure artigiani massacrati. Se lo lasci dire da uno che per anni ha lavorato come piastrellista nella piccola azienda di suo padre…Lo Stato deve fare qualcosa.

Lei, comunque, in questi giorni ha fatto il suo, come artista, recitando ogni giorno per 40 giorni, brevi poesie sui social.

Ho voluto chiudere il ciclo domenica con La Felicitàdi Alda Merini: non c’è bisogno di tenere compagnia ora. È l’ora di ripartire dalla speranza. La poesia simboleggia questo periodo di pandemia, dove c’è stato un ritorno all’uomo, alla comprensione profonda di se stesso. Un po’ come l’anno sabbatico degli ebrei, una ricerca umana nello stallo. Di colpo in questa emergenza scopriamo una riserva segreta di fiducia negli altri: non è mai troppo tardi per ricostruire la fiducia. L’aiutarsi a vicenda è insito nell’uomo.

 
 
 

Appello degli accademici

2020, Avvenire 5 maggio.

Appello. Gli accademici: i vaccini contro il Covid-19 siano di dominio pubblico / FIRME

Oltre 120 docenti universitari di tutto il mondo (e un premio Nobel) chiedono che le cure siano esentate da qualsiasi brevetto. Il testo in quattro lingue

Pubblichiamo l'appello partito dalla Francia, che ha raccolto le adesioni di oltre 100 accademici internazionali 

Mentre la pandemia di Covid-19 continua a provocare disastri in tutto il mondo, la ricerca per trovare un vaccino efficace continua, sia nell'industria farmaceutica che nella ricerca pubblica. In effetti, tutti convergono sull'idea che alla fine l'unico modo per sradicare definitivamente la pandemia è arrivare ad un vaccino che può essere somministrato a tutti gli abitanti del Pianeta, urbani o rurali, uomini o donne, che vivono in paesi ricchi o poveri.

L'efficacia di una campagna di vaccinazione si basa sulla sua universalità. I governi dovrebbero renderlo disponibile gratuitamente. Solo le persone che desiderano fornire servizi speciali possono pagare per i servizi e il vaccino.

Per renderlo disponibile a tutti, i vaccini dovrebbero essere liberati da qualsiasi brevetto. Dovrebbe essere di dominio pubblico. Ciò consentirà ai governi, alle fondazioni, alle organizzazioni non-profit, agli individui filantropici e alle imprese sociali (ovvero, le imprese create per risolvere i problemi delle persone senza trarne alcun profitto personale) di farsi avanti per produrre e / o distribuire questo in tutto il mondo.La ricerca di un nuovo vaccino è un processo lungo (il tempo previsto è di circa 18 mesi nel caso dell'attuale pandemia, che sarebbe un record di velocità assoluta).

Questa ricerca è costosa. Molti laboratori di ricerca commerciale che sono impegnati in questa ricerca si aspettano un elevato ritorno sugli investimenti. Dobbiamo elaborare la formula di quale sarebbe il giusto livello di questo rendimento in cambio di rendere la formula di dominio pubblico. La cosa più importante è rendere il risultato una sorta di bene pubblico, rendendolo disponibile per essere prodotto da chiunque sotto stretto controllo normativo internazionale.

Singoli governi, o un gruppo di governi, o fondazioni, singoli filantropi, organizzazioni globali, come l'OMS, con supporto pubblico e privato,possono farsi avanti per finanziarlo.Ma la questione etica di grande importanza che deve essere risolta è la quantità di guadagni attesi che un laboratorio o un inventore dovrebbe avere diritto per un farmaco salvavita necessario per tutte le persone in tutto il mondo.Allo stesso tempo, dovremmo anche considerare quale onore e riconoscimento globale diamo agli inventori e ai laboratori che li rendono di dominio pubblico incondizionatamente senza costi finanziari o a costi. In questo contesto, un precedente può ispirarci.

È la storia del vaccino contro la polio. Negli anni '50, la poliomielite era una terribile malattia, causata anche da un virus, che colpiva i bambini (circa 20.000 casi all'anno),causando una paralisi permanente. Jonas Salk (1914-1995) un biologo americano ha inventato il primo vaccino contro la poliomielite. Per sviluppare questo vaccino, ha ricevuto una sovvenzione da una Fondazione fondata dal presidente Roosevelt con donazioni da milioni di americani. Per il successo ottenuto, ha accreditato la partecipazione di 1,4 milioni di bambini ai quali è stato testato il vaccino.I ricercatori che sviluppano innovazioni terapeutiche come i vaccini hanno bisogno della collaborazione di tutti. Un vaccino può funzionare solo se le inoculazioni vengono eseguite su larga scala.

Salk non ha mai brevettato la sua invenzione. Non ha richiesto royalties da esso. Tutto ciò che gli interessava era diffondere il vaccino il più ampiamente possibile, il più rapidamente possibile.Questo è un buon momento per stabilire una norma per il mondo in modo da non essere accecati dal denaro e dimenticare la vita di miliardi di persone.

 
 
 

Il Caporale Remo Godioli

Post n°3335 pubblicato il 03 Maggio 2020 da namy0000
 

Remo Godioli partì per il servizio militare il 4 febbraio del 1940. Infarcito di retorica fascista, nel suo animo si mescolavano sentimenti contrastanti: la pena di lasciare i suoi cari e la sua città era mitigata dall’orgoglio di servire la Patria.

Il Duce lo aveva detto: c’erano otto milioni di baionette pronte a combattere. L’Italia dominava i mari con le sue modernissime corazzate la “Vittorio Veneto” e la “Littorio” e deteneva l’80% dei primati aerei internazionali.

Il motto era uno solo: Credere! Obbedire! Combattere! Sarebbe stato reltivamente facile riportare Roma a comandare un impero. Fu così che il 13 febbraio del 1940 Remo si imbarcò a Napoli sulla motonave “Sardegna” alla volta di Tripoli. Era destinato al III Reparto Distrettuale – XXI Corpo d’Armata.

Tripoli era una città bellissima, ammaliava con le sue architetture moresche, le larghe strade, i giardini e le aiuole ricche di esotica vegetazione. Le donne erano bellissime, madonne nere coperte da candidi pepli affollavano il centro della città e i negozi sotto i portici di Via Nazionale e di Via Sicilia. Sul cielo di madreperla le palme e i minareti disegnavano arabeschi straordinari, dal mare giungeva una brezza fresca e profumata.

Remo rimase a Tripoli sei mesi.

Poi il 10 giugno 1940 Mussolini dichiarò guerra a Francia ed Inghilterra e si schierò a fianco dell’alleato germanico. Il 22 giugno del 1940 la Francia si arrese; i soldati italiani che si trovavano in Tunisia vennero trasferiti verso il fronte egiziano e passarono quasi tutti da Tripoli.

Remo li vide marciare nel caldo soffocante africano. Le divise erano ancora di pesante panno grigioverde, le fasce alle gambe dovevano essere una tortura con quel clima. Erano uomini emaciati ed avviliti armati ancora con dei vecchi moschetti 91.

Si fece coraggio e, con tutto il rispetto e la cautela possibili, chiese a un ufficiale dove fossero le invincibili armi che avrebbero permesso la vittoria.

Si sentì rispondere che presto sarebbero arrivate truppe fresche, carri armati e cannoni, il trionfo sarebbe stato assoluto. Guardò ancora quei fanti malandati, e dentro di sé incominciò a dubitare, la sua fiducia nel Duce e nel Fascismo si squagliava al sole africano.

Dopo pochi giorni il suo reparto fu trasferito al villaggio Giordani al limitare del deserto tripolino. Lasciata la confortevole città, i militari ebbero a disposizione scarse razioni di viveri, un litro d’acqua a testa, ed una misera tenda per ripararsi dai raggi violenti del sole. In compenso ebbero la compagnia delle pulci della sabbia che causarono a molti la tungiasi, una forma di parassitosi cutanea particolarmente dolorosa. La lotta agli scorpioni li aiutò a passare il tempo nelle lunghe giornate assolate. Dopo tre mesi di questa vita, inspiegabilmente, il reparto fu ricondotto a Tripoli dove il XXI Corpo d’Armata fu imbarcato per essere trasferito a Bengasi. Una sorte diversa fu riservata alle truppe posizionate sul fronte tunisino.

Il comandante della divisione “Sirte”, Generale Babini, in ottemperanza alle disposizioni sul risparmio di carburante, fece sapere al Duce che i suoi uomini sarebbero andati in Cirenaica a piedi. Fu un calvario di mille chilometri nel deserto sirtico.

Il povero Remo capì allora quanto fosse improvvisata la conduzione delle operazioni belliche e quanto fossero assurde le decisioni degli ufficiali superiori.

Il comando del XXI Corpo d‘Armata si ricostituì sulle verdi colline del Gebel cirenaico e il nostro soldatino si godette ancora un po’ di tranquillità. Intanto le truppe italiane avanzavano senza incontrare resistenza fino a Marsa Madruh in territorio egiziano.

All’alba del 9 dicembre 1940 si sparse la voce che era iniziato un attacco su tutto il fronte contro le truppe inglesi. L’attacco era sì iniziato, ma erano le truppe alleate a sfondare facilmente le linee di difesa italiane. il XXI Corpo d’Armata che stava avanzando verso l’Egitto, ripiegò verso Tobruck e si attestò nella piazza-forte della città. I bombardamenti si susseguirono fino all’alba del 21 gennaio 1941. Quello per Remo fu il giorno più terribile, come se la cavò in quell’inferno non seppe spiegarselo. Infine il Generale Pitassi Mannella si arrese e il nostro fu fatto prigioniero con tutti i suoi commilitoni.

L’area intorno a Tobruck era circondata da campi minati, gli inglesi non erano riusciti ad avere notizie sulla loro precisa localizzazione ed allora si avvalse della “collaborazione” dei soldati italiani. Quello che avvenne sconvolse il cuore e la mente di Remo. Lui e i suoi compagni, sotto la minaccia delle armi, furono fatti procedere a raggiera percorrendo a piedi tutta la fascia esterna che circondava la città. Ogni passo poteva essere l’ultimo, i più fortunati uscirono dalla zona minata completamente imbrattati dal sangue degli sciagurati che erano saltati sulle mine. Remo arrivò alla fine stremato, insanguinato, atterrito, ma vivo e tutt’intero. Pensò di essere stato miracolato, si inginocchiò nella sabbia e, non avendo più nemmeno la forza di pregare, pianse.

Il Caporale Godioli Remo rimase prigioniero in Egitto fino al 26 dicembre del 1941, quindi fu trasferito in India ove rimase fino all’8 febbraio del 1944, finì la sua prigionia in Australia il 21 gennaio del 1947. Fu rimpatriato a bordo di un transatlantico inglese, non ricordò mai più se fosse la Queen Mary o la Elisabeth. Sbarcò a Napoli e Via Caracciolo gli parve la strada più bella del mondo.

Remo era mio suocero e tutto questo mi raccontò, ma molto altro avrebbe potuto dire. Tacque. Per una sorta di pudore, non mi disse altro. (Corrado De Paoli, Che vi do!, periodico n. 93, Luglio 2019).

 
 
 

Il prima e il dopo

Post n°3334 pubblicato il 02 Maggio 2020 da namy0000
 

2020, Giornalettismo 1 maggio.

Luca P. guarito dal coronavirus: «Nella mia vita ci sarà sempre una linea tra il prima e il dopo»

Luca P., fondatore dei Sentinelli di Milano, è guarito nei giorni scorsi dal coronavirus. Nelle ultime ore, è stato dichiarato guarito anche il padre dell’attivista milanese e, dunque, può affrontare con più serenità le sfide e le battaglie nelle piazze che lo aspettano nei prossimi mesi. In diretta con Insieme in Rete, per l’appuntamento quotidiano Rassegna(ti) in casa, con Flavio A. e Fabio S., ha parlato del Primo Maggio e dell’emergenza Covid-19.

«C’è bisogno di essere uniti anche tra realtà che sanno trovare la capacità di unirsi – ha detto Luca P. -. Oggi, in una piazza direi che in un momento del genere i lavoratori devono stare molto attenti a quello che succede. Si parla tanto di smart working, in questo momento dovrebbe essere favorito, ma non deve diventare precariato con contratti peggiorativi rispetto a quelli che già hanno. Vanno ripensati i tempi del lavoro, che sono allucinanti. Pensare che tutti debbano andare al lavoro allo stesso orario è impensabile: portare al momento il 100% dei lavoratori in azienda non ha senso, non solo per la sicurezza, ma anche per il sistema produttivo».

Poi, Luca P. ha raccontato la sua esperienza di ricovero per 16 giorni all’ospedale San Carlo: «Anche in Lombardia ci sono diversi livelli di sensibilità – ha detto Luca Paladini -: chi ha avuto un’esperienza come la mia ha una percezione diversa rispetto a chi non ha avuto l’esperienza del ricovero e del contagio. Qui non c’è nessuno che non abbia un parente o un amico che ha affrontato la malattia, che ha affrontato il lutto e cose del genere. Anche io prima di ammalarmi avevo la sensazione che i gradi di separazione dal virus si stavano avvicinando. Fino a quando la tempesta è entrata in casa mia. Nel caso della mia famiglia, è andata in maniera originale: di solito sono i giovani che infettano gli anziani. Invece, mia madre che è una malata oncologica potrebbe aver portato il virus in casa, visto che si recava in ospedale per le cure. Poi, successivamente è passato a me e al mio compagno. Io e mio padre lo abbiamo preso in forma lieve, mia madre è asintomatica ma non può fare chemioterapia perché il virus potrebbe incidere sulle cure. Il mio compagno è positivo da 40 giorni e ha sempre un senso di stanchezza».

«Per mezza giornata ho convissuto con un ragazzo di 41 anni che aveva un quadro clinico più grave del mio. I medici gli hanno fatto firmare un foglio per farlo entrare in terapia intensiva. Il ragazzo mi ha guardato chiedendomi ‘promettimi che ci rivediamo’. In quel momento, rappresentavo il suo appiglio alla vita anche se lo conoscevo da due ore. Giorni dopo ho saputo che lui non ce l’ha fatta: aveva 41 anni, due figlie e non aveva malattie pregresse. Questo segna la linea tra il prima e il dopo: sono esperienze che ti segnano e che ti caratterizzeranno la vita per diverso tempo».

 
 
 

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