Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Novembre 2020

Governare è tutt'altro

2020, Scarp de’ tenis agosto-settembre.

In Italia lo Stato sembra aver perso sovranità su vaste aree del territorio nazionale: ghetti urbani dove tutto può accadere. Il futuro d’Italia si gioca a Scampia, Ostia, Corviale, Pioltello, allo Zen, nei Caruggi, e alla Diga di Genova, al Moi di Torino, nelle case popolari controllate dal racket, nei quartieri che attendono infrastrutture.

Goffredo Buccini racconta, nel libro Ghetti (Solferino Editore), la sua discesa nel lato oscuro del Paese: un viaggio che indaga sulle conseguenze dei roghi tossici per la salute, sui bambini mandati ad appiccare gli incendi, perché non perseguibili, sui 600.000 migranti invisibili sfuggiti al circuito d’accoglienza e sfruttati nel lavoro nero, sui nostri connazionali impoveriti, 15.000.000 di periferici.

Goffredo Buccini ha raccontato gli italiani invisibili e impoveriti, quelli adatti per essere materia prima, ghiottissima, per gli appetiti sovranisti o propagandistici del politicante italiano. Indaga la trincea dove si gioca una nuova guerra civile: quartieri in cui la povertà è diventata prima degrado e, poi, odio contro il nemico: il perfetto capro espiatorio di una classe politica inconcludente, quando non corrotta. Nei ghetti, le istituzioni hanno lasciato il controllo del territorio alla malavita organizzata che si spartisce il bottino, come le iene con le carcasse degli animali.

«Il vuoto politico è figlio di un vuoto di rappresentanza, il problema attiene a tutte le democrazie occidentali venute dal secolo scorso. La gente ha capito che sta votando per persone che non hanno vero potere decisionale sui temi chiave della loro vita: welfare, bilancio, fisco, persino sicurezza sono sempre più partite che si giocano altrove, in un contesto internazionale, a tavoli dove spesso i giocatori che contano non sono eletti da nessuno. Oscuramente, i cittadini lo percepiscono, fomentati anche dai sovranisti che tirano verso un modello autoritario e autodistruttivo. La crisi durerà finché le democrazie liberali (per le quali faccio il tifo) non avranno preso nuove misure a questa realtà mondializzata. È una crisi sistemica, ma spero solo una crisi di crescita».

«È in contesti del genere, dove i diritti non esistono più e vige la legge del più forte che funziona assai bene la pratica del capro espiatorio: la colpa del disastro è sempre di qualcun altro. Un estraneo, uno che non ci appartiene per cultura, religione, colore della pelle. Le forze illiberali giocano molto su questo meccanismo, noi contro loro, suscitando la falsa idea che, una volta eliminati loro, noi non avremo più problemi. Questa crisi, umana, sociale, sistemica, non inventa nulla di nuovo rispetto agli errori della storia, speriamo solo che non ne ripeta gli orrori».

«Non esistono soluzioni diversificate, serve una visione del problema e, magari, del mondo che ci aspetta».

«Se non ricostruiamo, prima ancora che paesi e borghi, vite e senso di comunità, le contrapposizioni tra i più svantaggiati aumenteranno. È a rischio la coesione sociale. Ma bisogna mettere a sistema i bisogni diversi, non contrapporli. In questo senso suggerisco di guardare alla formidabile esperienza dei Comuni della Rete Welcome messa in piedi dalla Caritas: anziani, italiani poveri, disabili, migranti, non più interessi contrapposti ma rete di solidarietà e condivisione».

«Protestare è una cosa, governare è tutt’altro. Si rischia il velleitarismo e il caos, oltre a palesi picchi di narcisismo già assai visibili in alcuni leader. La disastrosa parabola del Movimento Cinque Stelle mi pare possa essere un buon monito per tutti».

 
 
 

Essere preti è una cosa molto bella

Post n°3465 pubblicato il 30 Novembre 2020 da namy0000
 

Diventato famoso dopo una discussione con Fedez (un famoso cantautore) riguardo al testo di una sua canzone, il giovane sacerdote varesino don Alberto Ravagnani, 26 anni, è diventato una celebrità. «Serve una svolta missionaria della Chiesa in occidente e questa passa inevitabilmente attraverso i social, perché influenzano la vita di milioni di persone».

Il conta-follower è schizzato in un pomeriggio di giugno 2020, quando dal già ottimo livello di 30.000 seguaci, è arrivato a 60.000 in 24 ore. Tutto merito di una piccola e costruttiva polemica con Fedez: a don Alberto quella rima “meglio bimbe di Conte che bimbi dei preti” proprio non è andata giù; e allora ha deciso di taggare il rapper nelle sue stories e dire la sua. Il cantante ha risposto e ne è nato uno scambio di battute che ha reso un piccolo sacerdote di Busto Arsizio una star.

 

«In poche ore sono arrivate interviste, chiamate, e perfino l’incarico di girare alcuni video per la Cei», spiega. Il seguito di Fedez ha contribuito, ma il successo è tutto di don Alberto. Per i suoi ragazzi il don, per i suoi follower @albertorava, soprattutto se si tratta di TikTok: camicia e colletto d’ordinanza, ciuffo inappuntabile, video brevi, musica e balletti per spiegare cose facili che riguardano la fede, ma anche un po’ la sua vita. «Ma se ti innamori e non hai più voglia di fare il prete?» si chiede in un video, mentre in sottofondo passa una delle canzoncine più famose del mondo, e risponde: «L’amore è una scelta e io ho fatto la mia per sempre».

 

Su Instagram ha spopolato il cambio d’abito con suo fratello, a cui ha prestato il clergyman, per indossare la camicia a quadrettoni e i jeans. Un linguaggio che calza perfettamente, insomma, con le piattaforme utilizzate, anche tra coreografie e gag simpatiche. E infatti la sua fanbase è affiatatissima: è sul loro supporto che don Alberto ha potuto contare quando ha sfidato Fedez.

 

«Mi piaceva un casino la canzone originaria, quella di Dargen D’Amico, remixata da Fedez – spiega don Alberto – ma ho pensato che quelle parole sarebbero state ascoltate da migliaia di persone in radio o magari perfino in oratorio. E che, per denunciare il dramma della pedofilia, avrebbero squalificato tutta la Chiesa, che è molto di più. Mi faceva ancora più rabbia che la frase sarebbe stata ascoltata anche da chi usava la canzone come sottofondo delle storie di Instagram. Allora ho pensato di provare a dire qualcosa pubblicamente».

 

Come è nata la passione per i sociale?

Tutto è stato ispirato dalla quarantena. Io, prima di allora, ero un signor nessuno, un normale prete di oratorio. Poi ho pensato che per mantenere una vicinanza con i miei ragazzi, avrei dovuto inventarmi qualcosa. Ho girato e montato un video su YouTube dal titolo molto semplice A cosa serve pregare. Ed è diventato virale.

 

Ma un video può davvero avvicinare le persone alla fede?

Di questo sono certo perché ho raccolto i frutti. Da quando pubblico ho messaggi di persone che mi dicono: «Grazie perché con quello che fai, mi hai cambiato la vita».

 

Che cosa non ti piace del mondo di internet?

La contrapposizione, la polemica politica. Penso che il mio compito sia quello di portare un messaggio con toni pacati.

 

Sembra quasi che tu abbia una laurea in comunicazione, perché sai adattare perfettamente il contenuto al tipo di social che usi, possibile che sia tutto improvvisato?

Non ho studiato comunicazione e non uso strategie, sono me stesso. Rifletto solo sul tipo di messaggio da mandare per adattarlo al contenitore: su TikTok, ad esempio, funzionano canzoncine e balletti. In fondo, i social sono piazze con regole di comunicazione: non mi sognerei mai di usare lo stesso tono di un’omelia. Io voglio fare il prete, anche su internet: il Vangelo è un annuncio, che deve essere capito. Se vai in missione all’estero, prima impari la lingua del posto e poi predichi.

 

Sei un prete giovanissimo e già con le idee chiare, ricordi il momento della vocazione?

Sono cresciuto in una famiglia cattolica, ma non molto praticante. Tra la terza e la quarta superiore, ho fatto una vacanza con alcuni amici dell’oratorio e dal ragazzo timidissimo, quasi bloccato, che ero, sono diventato molto più consapevole. In quel momento ho capito che era passato Dio-Amore nella mia vita: qualcosa era cambiato. Ho cominciato a farmi delle domande, ma Dio-Amore era ancora una presenza informe. A un certo punto, mi sono posto un quesito: «E se facessi il prete, da grande?». E lì mi sono fregato. Poco prima mi ero innamorato di una mia compagna di classe, ma la preghiera spontanea mi lasciava affascinato. A 17 anni sono entrato in seminario, e il 9 giugno 2018 sono stato ordinato.

 

Che cosa dicono i tuoi superiori del tuo talento per i social?

Credo che siano contenti: la Chiesa di Milano condivide i miei video, e anche la Cei me ne ha chiesti alcuni. La mia vocazione però resta la pastorale giovanile.

 

La comunicazione della Chiesa dovrebbe adeguarsi?

La Chiesa è rimasta indietro rispetto ai tempi. Papa Francesco invece è più avanti di tutti, perché con le sue parole arriva ovunque. E io sono d’accordo con lui: serve una svolta missionaria (lo aveva già intuito madre Teresa di Calcutta ndr) della Chiesa in Occidente e questa passa inevitabilmente attraverso i social, perché influenzano la vita di milioni di persone. Quando ho incrociato i Ferragnez ho capito che c’è un’economia che si muove dietro alle loro figure. E ho pensato che se vogliamo parlare di Dio dobbiamo usare con i giovani un linguaggio che loro capiscono. Il che non significa mondanizzarsi.

 

Come nasce un tuo video?

Mi faccio un’idea dell’argomento che dovrei trattare anche parlando con i miei ragazzi, e poi un piccolo schema. Da quando ho molti più follower però, ho capito che dovrò mettere molto più a fuoco quello che faccio perché non ho la stessa libertà di prima.

 

Sei contento della tua vita, don?

Sono contentissimo. Essere preti è una cosa molto bella e io sono molto felice. A volte incontro i miei compagni di classe: tutti nati nel 1993 e mi rendo conto che tra loro sono l’unico ormai sistemato.

 

Hai un sogno?

Il mio in parte l’ho realizzato, ma vorrei ogni giorno realizzare il sogno di Dio-Amore.

 
 
 

In scena figure femminili

Post n°3464 pubblicato il 29 Novembre 2020 da namy0000
 

2020, Avvenire 27 novembre.

A 62 anni, Maria Isabella Cociani (questo il suo nome all'anagrafe), ex ragazza di Discoring è diventata un'apprezzata interprete di cinema e di teatro, oltre che autrice di libri e moglie felice (è sposata con Rodolfo Martinelli Carraresi, con il quale condivide anche un sodalizio artistico) e madre di due ragazzi, Antonio e Maria Cristina.

Come rifluisce questa sua difesa della donna nella professione di autrice e di attrice?

Spesso nei miei spettacoli porto in scena figure femminili forti, determinate, che hanno lasciato tracce tangibili nella storia. Si prenda ad esempio Galla Placidia, o la Regina delle Rose, Giovanna, figlia di Vittorio Emanuele III che andò in sposa al Re di Bulgaria e condivise con il marito le vicissitudini della difesa del suo popolo dal nazismo prima e dal nascente comunismo poi. Sono figure del passato che uso per parlare del presente, della necessità che abbiamo oggi di un rapporto nuovo, pulito, disintossicato tra gli uomini e le donne. E soprattutto per dire che le donne hanno tanto da offrire a una società più giusta e più umana.

Va in questo senso anche il suo più recente spettacolo intitolato Penthesilea?

Sì perché la Regina delle Amazzoni, nella mia versione, è una donna che dichiara guerra non agli uomini, ma solo alla parte peggiore di loro: l'essere guerrafondai e appunto violenti. Lo spettacolo diventa così una denuncia del machismo insito anche nella nostra società, per aprirsi alla costruzione dell'armonia tra il maschile e il femminile. Anche da questo dipende il nostro futuro, la capacità di trovare insieme - con rispetto reciproco e con amore - la risposta alle questioni più urgenti della nostra epoca, dalla povertà ai cambiamenti climatici, alla stessa pandemia.

Il teatro, però, proprio a causa della pandemia, oggi è fermo. Come sta vivendo questo momento?

Il mondo dello spettacolo dal vivo è stato messo a dura prova dal Covid. Ma occorre guardare avanti con speranza e progettare nuovi percorsi. Con mio marito ho organizzato Il T.E.I.M.T, che sta per Thematic Exhibition Independent Movie Theatre, cioè il primo Festival dedicato al movie theatre, la cui II edizione si svolgerà dal 2 al 10 dicembre in streaming sulla piattaforma INDIECINEMA (www.indiecinema.it). Saranno proposti numerosi spettacoli di autori contemporanei, accanto ad alcuni classici come Moby Dick, Novecento di Baricco e Aspettando Godot. Il movie theatre è una nuova frontiera. Non toglie niente alla fascinazione del palcoscenico, perché tutto viene registrato in teatro, ma al tempo stesso vi aggiunge l'arte della ripresa, che non è certo statica, coinvolgendo inoltre bravi e giovani filmaker, affinché facciano esperienza. Anche il pubblico può partecipare, guardando da casa con una modalità che ben si adatta alla disponibilità di tempo di ognuno.

 
 
 

Per costruire il futuro

Post n°3463 pubblicato il 27 Novembre 2020 da namy0000
 

2020, Michele Falabretti, responsabile del Servizio nazionale di pastorale giovanile della Cei, FC n. 48 del 29 novembre.

Quell’indispensabile alleanza tra generazioni per costruire il futuro

«Il Signore non ci vuole parcheggiati ai lati della vita, ma in corsa verso traguardi alti», dice papa Francesco, dando forza a concetti a lui cari.

Ogni volta che si ascolta un discorso di papa Francesco ai giovani, c’è sempre un passaggio che porta a dire: me lo devo rileggere. Il suo modo di esprimersi è composto. Non sta di fronte al microfono come un consumato attore o politico imbonitore. Succede allora che nella pacatezza del suo discorrere ci siano frasi di grande forza esplosiva, come se confidasse nel fatto che per ottenere qualcosa di forte ci si debba affidare a chi ha la forza nell’età e negli slanci che essa porta con sé.

A Rio de Janeiro (nel 2013, praticamente all’esordio) chiese la «rivoluzione dolce del Vangelo»; a Cracovia nel 2016 fece saltare gli schemi dando il mandato di «alzarsi dal divano», durante il Sinodo del 2018 chiese di «gridare, altrimenti parleranno le pietre» e nello stesso anno, al Circo Massimo, invitò i giovani italiani a non avere paura di correre anche se qualche volta gli adulti restano indietro. Il 22 novembre, al passaggio della Croce della Gmg, ha chiesto di non rinunciare ai grandi sogni e di non accontentarsi del dovuto. Soltanto il giorno prima, ai giovani riuniti in video chat, ha chiesto di impegnarsi in economia, in politica, nella società, avviando processi, tracciando percorsi, allargando orizzonti, creando appartenenze. È solo un incompleto sommario degli ultimi anni.

Il Papa ha definito questo un cambiamento d’epoca, ma capisce prima di altri il freno delle nostalgie. Nei giovani ha individuato qualcuno con cui stringere alleanza confidando in un patto fra generazioni. All’inizio sembrava una confidenza autobiografica, ma un po’ alla volta è emersa la sua fiducia nell’alleanza fra giovani e anziani perché lo slancio incosciente degli uni trovasse un riscontro nella libertà interiore e nella saggezza degli altri.

In essa il Papa non cerca di “istruire” i giovani, non li catechizza. Li sferza, li sfida, li responsabilizza cercando di impegnarli su quei temi che qualche luminare ecclesiastico finisce sempre per definire “sociali”, come se la fraternità e il credere insieme non fossero parte dello stesso Vangelo.

Trentacinque anni fa Giovanni Paolo II avviò l’esperienza delle Gmg sapendo che al di là del Muro, che divideva non solo l’Europa ma il mondo intero, c’erano generazioni di giovani cresciuti nell’ateismo di stato: per questo sentiva il bisogno di riabbracciarli e di tornare a raccontare loro della forza redentrice di Cristo. Oggi lo scenario è completamente nuovo e papa Francesco sa che il Vangelo, per avere qualche chance nel mondo contemporaneo, prima che di essere spiegato ha bisogno di essere mostrato, e riconosce ai giovani la forza e la sensibilità necessarie perché questo accada. Sta chiedendo che siano loro a sostenerlo: ce la farà?

 
 
 

Potere ai giovani

2020, HuffPost 25 novembre.

Loccioni, potere ai giovaniEccellenza italiana, leader mondiale nella misura e nell’automazione per il controllo qualità e la sostenibilità, l'impresa ha creato un modello vincente: "Vendiamo conoscenza"

Loccioni, eccellenza italiana leader mondiale nella misura e nell’automazione per il controllo qualità e la sostenibilità, ama definirsi “impresa” e bandisce parole come “fabbrica” o “azienda”. Fondata nel 1968 da Enrico e Graziella Loccioni, l’impresa marchigiana sviluppa sistemi personalizzati sulle esigenze del cliente, integrando competenze come la robotica, la sensoristica e la scienza dei dati. Come racconta ad Huffpost il figlio di Enrico Loccioni, Claudio, “da noi non esistono dipendenti ma collaboratori e intra-prenditori”.

“Si parte da un presupposto semplice”, spiega “L’attività si basa su due grandi cardini: il cliente e chi offre la soluzione. Si parte dalla tensione che ha sempre mosso il mondo, la domanda e l’offerta, ed è su questo meccanismo che noi abbiamo costruito un tipo di impresa particolare, perché prima di vendere beni, vendiamo conoscenza”.

Un’impresa che promuove logiche inclusive e mette al centro la persona. “Mentre l’industria manifatturiera ragiona sui macchinari, per cui gli investimenti sono sulle nuove linee di produzione e sulle macchine, nel nostro modello di impresa della conoscenza, gli investimenti si fanno tutti sulle persone”.

Questa concezione accompagna l’impresa Loccioni sin dall’inizio della sua storia e si è tradotta in una presenza attiva nel territorio e nella formazione dei giovani, attraverso scuole e istituzioni. “Gli investimenti sulle persone avvengono in modi diversi: alcuni li fanno attraverso semplici assunzioni, altri, come piace fare a noi, li fanno cercando di radicarsi bene sul territorio. Noi siamo nell’entroterra marchigiano, un territorio che non è un luogo di passaggio, quindi la nostra sfida, nel gioco della domanda e dell’offerta, è garantire che ci siano persone che nel futuro possano portare avanti questo tipo di attività”.

Il rapporto con i giovani e investire nella loro formazione è uno degli asset strategici di Loccioni. “A volte i progetti etici, se nascono dalla necessità, come nel nostro caso, diventano progetti di successo”, racconta Claudio Loccioni. “All’inizio noi non ci potevamo permettere dei collaboratori esperti quindi compensavamo con l’energia dei giovani, col tempo però il loro coinvolgimento è diventato un metodo vincente. Senza risorse giovani non riusciremmo a dare ai nostri clienti quello che ci chiedono”.

I clienti e partner di Loccioni sono i leader mondiali nei loro mercati dall’ Automotive, all’Elettrodomestico, dall’Ambiente al Medicale, dall’Energia all’Aeronautica, tra i principali: Daimler, Ferrari, Ford, Bosch, Whirlpool, Airbus, RFI, Enel, Eni, Eon, Pfizer, General Electric.

“Il cliente si rivolge a noi per risolvere un problema costoso e fastidioso che ha bisogno di una soluzione tecnologica”, anche Loccioni quindi lavora con le macchine ma “il punto è che dietro le macchine abbiamo persone che sviluppano soluzioni diverse per condizioni diverse”, spiega. “E ci siamo accorti che più le persone sono giovani, più sono incoscienti, e più sono incoscienti e più innovano. E i giovani chiamano altri giovani: adesso l’età media in Loccioni è di 32 anni”.

 

“Nell’ambito che si chiama Alternanza Scuola Lavoro, che a noi invece piace chiamare Convergenza Scuola Lavoro, ogni ragazzo lavora a un proprio progetto” racconta Maria Paola Palermi, Responsabile Comunicazione Loccioni. “I ragazzi non se lo aspettano, sono abituati alla cultura dell’esecuzione, a eseguire ciò che gli viene detto di fare. Noi invece, già da quando hanno sedici anni, cerchiamo di stimolare la cultura dell’intraprendenza, per cui loro stessi sono protagonisti del loro progetto”.

Questo è quello che Loccioni trasmette in media ogni anno a 70 ragazzi che partecipano al progetto “Vivaio”, selezionato dal Miur fra i 16 Campioni dell’Alternanza 2018. 

Il Vivaio è l’insieme degli studenti in contatto con Loccioni che rappresentano il futuro dell’impresa e oggi conta oltre 300 persone di diverso grado di istruzione, dal terzo anno delle scuole superiori fino ai dottorandi di ricerca, accompagnati in un progressivo inserimento nel mondo del lavoro.

“Il passaggio dalla scuola o università al mondo del lavoro non è mai facile”, spiega Claudio Loccioni. “I nostri progetti partono dalle scuole elementari vicine a noi. Ai bambini si mostra che c’è un futuro e un mondo ad aspettarli. Tra scuole medie e superiori si fanno poi le prime azioni di convergenza, conoscendo i ragazzi ospitandoli nella struttura durante visite guidate. L’obiettivo è sempre quello di offrire possibilità nel territorio e far sì che le persone rimangano”.

 
 
 

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