Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 17/11/2020

Il settimo giorno

Post n°3451 pubblicato il 17 Novembre 2020 da namy0000
 

Il riposo del sabato e l’anno del giubileo

Il culto nel settimo giorno è il simbolo dell’ingresso, come una primizia, nell’eternità di Dio. Vi partecipa anche il bestiame e, ogni sette anni, la terra stessa, considerata come una creatura vivente.

«Tu ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata». Questa affermazione del Libro della Sapienza (11,24) esprime l’atteggiamento del Creatore nei confronti del creato uscito dalle sue mani. Un filosofo giudaico di Alessandria d’Egitto, Filone, contemporaneo di san Paolo, proponeva in greco un gioco di parole suggestivo che può essere ben compreso anche da chi non conosce quella lingua. Egli diceva che Dio, creando, ha dato origine ai suoi poiémata: questo vocabolo in greco significa «opere», «cose fatte», e tali sono appunto le creature; ma ha anche il significato di «poemi», di carmi.

 

Infatti, abbiamo spesso ribadito durante il nostro viaggio biblico nella Natura che Dio ha offerto un suo messaggio, una sua rivelazione, una sua Bibbia anche nell’universo creato, un «poema» appunto, i cui versi sono le stesse «opere», un testo aperto a tutti coloro che contemplano il mondo. Vogliamo ora proporre una delle tante testimonianze di questa parola divina e, al tempo stesso, dell’Amore che Dio riserva al Creato, come sopra suggeriva il Libro della Sapienza. Partiamo da un elemento noto: la Genesi nel suo capitolo 1 modula la creazione sulla settimana liturgica. È per questo che l’approdo ultimo è al sabato (2,1-4a), il riposo felice, simbolo dell’eternità. La creatura umana, che pure è al vertice del Creato, è plasmata il sesto giorno, un numero che nella Bibbia è segno di imperfezione. Ebbene, l’uomo e la donna, però, possono celebrare nel culto il sabato: è il loro ingresso nell’eternità di Dio attraverso la preghiera e la comunione di fede con il loro Signore, venendo così strappati al limite del tempo dei sei giorni e «assaggiando» una primizia dell’immortalità beata e della risurrezione finale, celebrando qui, sulla Terra, la liturgia festiva.

 

Ora, è importante notare che al sabato partecipa anche il bestiame, come si indica nel Decalogo (Esodo 20,10). C’è però un sabato che coinvolge tutta la Natura: è il cosiddetto «anno sabbatico», che si celebra ogni 7 anni, durante il quale ci sarà «un riposo assoluto anche per la Terra» che non verrà seminata, lasciandola libera di offrire i suoi frutti spontanei (si legga Levitico 25,1-4). La terra viene quindi considerata come una creatura vivente, è una personificazione, ed è per questo che riceve un trattamento di rispetto e di Amore e un riconoscimento della sua dignità, come si fa per una persona umana.

 

Ma c’è di più. Trascorse 7 settimane d’anni, giunti dopo 49 anni al cinquantesimo, si celebrava il giubileo, anno della remissione dei debiti, dell’azzeramento degli squilibri sociali con un ritorno a una comune ideale parità. Esso, però, era anche un anno di «liberazione della terra per tutti i suoi abitanti» (Levitico 25,10); la terra avrebbe riposato insieme con l’umanità, senza subire le forzature del lavoro agricolo, lasciata libera di offrire il prodotto spontaneo dei campi.

 

È significativo questo atto: esso sottolinea la fraternità che deve intercorrere tra gli uomini e la Natura. Entrambi celebrano le ricorrenze religiose, tutti insieme «gridano e cantano di gioia» al loro Creatore (Salmo 65,14). Come esclamava il profeta Isaia: «Esultate, cieli, in onore dell’opera del Signore; giubilate profondità della terra! Gridate di gioia, oh monti, oh selve con tutti i vostri alberi!» (44,23) (Gianfranco Ravasi, FC n. 46 del 15 novembre 2020).

 
 
 

Scarpe distrutte

Post n°3450 pubblicato il 17 Novembre 2020 da namy0000
 

Scarpe distrutte dal cammino e scarpine da bambini. Indumenti. Ma anche tubetti di dentifricio, K-way, auricolari, schede telefoniche, zaini… tutti oggetti di uso personale che, abbandonati lungo i sentieri, raccontano storie di ordinaria migrazione sul confine italo-sloveno. Che parlano di quell’”ultimo tratto” prima della “salvezza”. Che portano con sé, insieme a speranze e storie a lieto fine, anche pesanti zone d’ombra e storie di violazioni di diritti che stonano con la bellezza di Trieste e dell’Italia che qui si affaccia come un respiro profondo dopo una lunga apnea…

A luglio (2020) un’interpellanza parlamentare chiede di chiarire la questione, soprattutto in merito ai possibili respingimenti verso i Paesi confinanti di persone richiedenti protezione internazionale (giuridicamente parlando, infatti, secondo l’analisi fatta dall’Associazione Studi giuridici sull’immigrazione «l’accordo in questione, firmato a Roma il 3 settembre 1996, oltre a essere stato largamente superato dall’evoluzione del diritto dell’Ue intervenuto negli ultimi 20 anni, in ogni caso non si applica ai richiedenti asilo»).

La risposta arriva, secca, in un inciso: «Anche qualora sia manifestata l’intenzione di chiedere protezione internazionale a eccezione delle persone appartenenti alle categorie dei cosiddetti vulnerabili e dei soggetti che risultino registrati nel sistema Eurodac (il database europeo delle impronte digitali per chi chiede asilo politico o soggiorna irregolarmente in territorio Ue ndr)». Le rassicurazioni della Polizia di frontiera che parlano di «massima attenzione alle persone più vulnerabili, ai minori e alle famiglie con bambini e di screening sanitario per tutti i migranti intercettati, per contrastare la diffusione del Covid-19», devono però fare i conti con le sempre più numerose testimonianze di chi, giunto a Trieste dalla rotta balcanica, identificato e fotosegnalato, informato sulla possibilità di chiedere la protezione internazionale grazie alla presenza di un interprete e avendo manifestato l’intenzione di farne richiesta, senza un motivo né un provvedimento scritto, è stato caricato su un furgone e consegnato prima alla polizia slovena, poi a quella croata (in molti casi pure picchiato, torturato e umiliato) e, infine, scaricato in Bosnia. Fuori dalla Ue: “Riammesso”, in termine tecnico.

A fare domande si rischia di restare con un pugno di mosche in mano: la Questura dice che delle riammissioni si occupa la Polizia di frontiera; quest’ultima, che pur le esegue materialmente, dice che «sono cose tecnico-giuridiche, politiche, che è più opportuno chiedere al prefetto». Il prefetto interpellato non risponde…

«Da maggio di quest’anno è come se fossimo stati travolti da un terremoto dovuto a scelte politiche», spiega il presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) «le condizioni di arrivo delle persone in questi mesi sono nettamente peggiorate, segno che è in atto una violenza molto grave a loro carico lungo la rotta balcanica. E su questo esistono dettagliati rapporti di Medici senza frontiere e di RiVolti ai Balcani…È come se esistesse un sodalizio per violare la legge ed espellere le persone fuori dall’Unione europea. Nel silenzio generale…».

Nella penombra autunnale di piazza della Libertà, quella che si apre davanti alla stazione ferroviaria di Trieste, l’associazione Linea d’ombra insieme ai medici di StradaSiCura, continua la propria azione umanitaria chinandosi, letteralmente, su piedi e gambe dei migranti di passaggio, feriti dal lungo viaggio e dalle violenze. Quelli che, di fatto, passano in città quasi come fantasmi per dirigersi altrove. C’è chi ha provato a manifestare, con toni e modi squadristi, il proprio disappunto. Ma la solidarietà, come l’acqua del mare che sciaborda poco lontano, non si ferma (FC n. 46 del 15 novembre 2020).

 
 
 

Il deserto della strada

Post n°3449 pubblicato il 17 Novembre 2020 da namy0000
 

 

2020, Alberto Caprotti, Avvenire 16 novembre.

È dopo le dieci della sera che il deserto della strada diventa la misura dell’angoscia. L’inverno della nostra vita a quell’ora è una finestra che guarda sul vuoto: cerchi qualcosa che possa riempirlo, ma il pensiero è debole di fronte alla potenza di quello che ci sta capitando. Aspettiamo qualcosa senza sapere cosa, impiliamo giorni uno sull’altro in una catasta inutile che sale all’infinito. E nel frattempo, chi più chi meno, abbiamo perso la felicità.

O almeno quello stato d’animo che ci consente di tenere la schiena diritta e lo sguardo avanti, e che nella vita si può avere solo se hai qualcosa di bello da fare, qualcosa da amare, o almeno qualcosa da sperare. Ma quando fare si può poco, e amare diventa un rischio perché mai come ora sai che puoi perdere tutto per sempre, l’unico gancio resta sperare. Chi ha il dono della fede parte enormemente avvantaggiato, ma il resto del mondo arranca, inacidisce, si arrende.

La cronaca, ancora più dei morti, della curva dei contagi e degli ospedali pieni, toglie anche la voglia di un pallido ottimismo: mentre l’Italia annega, qualcuno attacca i ponti con il vinavil, l’ignoranza diventa vanto, il potere premia gli impresentabili, i negazionisti proliferano come le piante velenose. E altri ancora chiedono al governo di fare questo e quello, dimenticandosi che il governo sono loro. È in quel momento che lo sconforto erode la speranza e sfrega il cerino della rabbia. Non ci siamo mai sentiti così soli, e ora anche divisi, ma è in questa solitudine che dobbiamo crearci in proprio le occasioni per reagire con compostezza. Quando esortava a fare tesoro della felicità, lo scrittore americano Kurt Vonnegut non indicava uno stato irraggiungibile, ma qualcosa da cercare nelle proprie tasche.

Magari un istante dopo avere pianto: un’antropologa, impegnata a prendere nota del suo umore quotidiano durante questi giorni color topo, ha raccontato di essere scoppiata in singhiozzi per strada solo perché il fioraio aveva terminato i fiori. Poche ore dopo si è sentita meglio. Ma piangere era necessario, ha detto alla giornalista del 'New York Times' che ha raccolto la sua storia di sconforto: non si trattava dei fiori, ovviamente, ma di ciò che sta accadendo nella sua vita, nella vita di tutti. Siamo in una condizione di sostanziale impotenza, una profonda povertà che soffoca molti slanci. L’inverno d’Italia è un mondo trasformato: dove sono finite le bandiere? E i balconi che cantavano, il senso di solidarietà che in una primavera di lutti e di abbracci virtuali ci aveva traghettato in una realtà parallela di tricolori e illusioni? Tutto sparito, insieme a tanti buoni sentimenti.

Se oggi qualcuno si azzardasse a intonare un coro alla finestra, potrebbe persino correre il rischio di ricevere in faccia da un vicino la pentola sulla quale a maggio si batteva il ritmo dell’Inno di Mameli. Sono finiti i fratelli, è rimasta un’Italia depressa, più orfana di nonni, di lavoro e di prospettive. Cadere nella melma informe di questa peste di ritorno ha incattivito le cicatrici che ci ha lasciato la prima. No, purtroppo non è andato tutto bene, questo ormai è chiaro. L’annunciatissimo 'mondo migliore' è durato giusto il tempo di raccontarcelo.

E la promessa del 'niente sarà più come prima' si è trasformata, per ora, nella certezza del tutto come e peggio di prima. Ammetterlo non è una resa, ma un atto di sincerità. Che ci serve, perché aiuta a lanciare un messaggio, e magari a ricevere una risposta. Anche in un’epoca di pareri passivi, dell’indottrinamento che ci illude di avere la conoscenza di una tragedia più grande di noi, possiamo solo provare ad arginarla ma non abbiamo saputo comprenderla. Ora vorremmo qualcuno che ci dica quando finirà. Non perché sia per forza vero magari, ma perché abbiamo bisogno di un tetto, di un confine da guardare, di un varco da passare. Pensiamola come la semplice attesa di una grazia, che sparge il suo impercettibile profumo in un Paese alla prova.

 
 
 

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