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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 21/04/2020

Rimpianto

Post n°3321 pubblicato il 21 Aprile 2020 da namy0000
 

LE CONFIDENZE DI MARIA JOSE’ DI SAVOIA – Il rimpianto della Regina, partigiana mancata. Mentre era in Svizzera, nel 1943, alla consorte di Umberto II, ultimo sovrano d’Italia, fu offerto il comando di una brigata. Lei dovette rifiutare. Il ritorno in Italia, a piedi, nell’aprile 1945. ‹‹Il mio solo rimpianto? Non aver preso parte attiva alla Resistenza. Non avevo paura, sono nata sotto il segno del Leone… Libertà!››. Gli occhi azzurri di Maria José, l’ultima regina d’Italia, si illuminavano per poi spegnersi nella malinconia. Era il 1994 quando chi scrive, Luciano Regolo raccoglieva a Cuernavaca (Messico), dove, all’epoca, viveva. Maria José, scomparsa quasi un ventennio fa, si riferiva alla proposta di assumere il comando di una brigata partigiana che le giunse dopo un infruttuoso tentativo con Umberto, il marito, bloccato dal diniego paterno. Dall’armistizio dell’8 settembre 1943 si trovava in Svizzera, controllata dal Governo elvetico, che voleva mantenere la propria neutralità, ma anche dalle spie nazifasciste, e già dal dicembre seguente si era recata sempre più spesso a Chiasso, incontrando partigiani come Edgardo Sogno e Aldobrando Medici Tornaquinci. Portava loro di nascosto denaro, persino piccoli carichi di armi, sale e generi di prima necessità. Il sistema era semplice, per quanto rocambolesco: lasciava bagagli ai depositi delle stazioni di confine, oppure in località montane intermedie, dove veniva raggiunta dalle ‹‹staffette››.

E proprio dai partigiani, anche di orientamento comunista, come alcuni inviati da Cino Moscatelli, riceve l’invito ad assumere il comando onorario di una o più brigate, per incoraggiare gli animi di molti combattenti a proseguire nella dura lotta. Una notte, nei dintorni di Lugano, raccontava la “regina di maggio”, una staffetta venne addirittura a prelevarla, insistendo a lungo perché tornasse in Italia. Alla fine rifiutò e questo, ripeteva lei, oramai anziana, restava il suo ‹‹unico e più grande rimpianto››. La trattennero il pensiero dei figli ‹‹ancora troppo piccoli per restare orfani›› e gli avvertimenti dei consiglieri come il marchese Resta di Pallavicino: ‹‹Se va in qualunque posto con i badogliani o con altri, i tedeschi lo verranno a sapere e bombarderanno il luogo dove lei si trova. Io mi sentivo responsabile non solo verso i miei figli, ma anche verso tutti gli italiani ai quali un mio gesto impulsivo poteva costare caro››.

Il 29 aprile 1945, occhiali scuri, calzoni alla zuava, scarponi chiodati e zaino da alpinista, Maria José, da sola, si mette in marcia per tornare in Italia. I suoi bambini li lascia a Glion, affidandoli alle cure della contessa Vittoria Scarampi di Viry e di Mario Nardi. Lasciata l’auto a Martigny, dove rimase Resta di Pallavicino, colpito da un attacco di ulcera, proseguì in cammino sulle vette delle Alpi. Dopo tre ore arrivò a Bourg Saint Pierre e fece una sosta dai monaci del Gran San Bernardo. Lì si offrirono di accompagnarla l’abate monsignor Neston Adam e Alberto Deffeyes, che era stato il suo maestro di sci. Passato finalmente il confine, i tre trovarono un’auto ad attenderli, ma anche un inaspettato corteo di giovani partigiani in motociclette che, fucile a tracolla, intonarono Bella ciao e altre canzoni comuniste. Erano i ragazzi ‹‹rossi›› che scortarono Maria José sino ad Aosta (Luciano Regolo, FC n. 16 del 19 aprile 2020).

 
 
 

Perché è il mio dovere

Post n°3320 pubblicato il 21 Aprile 2020 da namy0000
 

Sono la mamma di tre bambini tra gli otto anni e i diciotto mesi. Sono medico anestesista-rianimatore al San Gerardo di Monza e mio marito è infermiere in un reparto di rianimazione al Niguarda di Milano. Di questi tempi la nostra vita, già abitualmente complicata, sta diventando una scalata ripida. Scrivo dopo aver messo a letto i miei cuccioli.

Sono bravi, straordinariamente tolleranti alla situazione. Ormai da settimane non frequentano la scuola, confinati in casa, vivendo lo stress di un momento assurdo che sfugge ad ogni logica e sembrano sereni. Hanno ingaggiato battaglie contro il coronavirus, lo mandano a quel paese e da qualche giorno fanno progetti per il dopo (feste e i picnic, pigiama party). Hanno imparato, anche la più piccina, che quando rientro da lavoro non possono abbracciarmi fino a che non ho fatto la doccia e mi sono cambiata tutti i vestiti e allora… doccia “in mondovisione” e poi “super abbraccio” in accappatoio.

I grandi hanno capito che bisogna stare attenti a non contagiare i nonni. Litigano poco e “rompono poco le scatole” autogestendo il tempo e la noia in maniera più che dignitosa. E allora?

Allora sono 5 settimane che i due grandi dormono insieme, variando il letto, qualche volta nel lettone, ma sempre e solo insieme. E oggi a pranzo Federico, con i suoi quasi 9 anni, mi dice: ‹‹Mamma, tu fai un lavoro pericoloso, devi licenziarti, perché io non voglio che muori. Sai che i medici muoiono?››. E io gli ho detto che sto molto molto attenta. Cos’altro potevo rispondergli? Mi si è spezzato il cuore. E Irene, 5 anni, di fronte alla pubblicità che invita tutti a fare qualcosa, ha commentato sottovoce, tra sé e sé, ‹‹ma voi fate già abbastanza››.

Ho pensato molto a come rispondere, ma sono giunta alla conclusione di non poter spiegare loro che vado a lavorare (come gli infermieri, i commessi, le forze dell’ordine, i farmacisti…) perché è il mio dovere. Perché fa parte del mio ruolo e perché la collettività lo richiede. Ognuno di noi ha dei compiti nella società che permettono che funzioni e vanno rispettati anche in situazioni difficili. Mi dà molto fastidio sentir parlare di eroismo. Perché gli eroi spesso sono tali una volta morti (e non è proprio nei miei pensieri) e perché non è una scelta. È quello che si deve fare. E basta.

Però non credo che i bambini possano o debbano comprendere questi concetti. E quindi abbiamo deciso di non sentire più i bollettini della Protezione civile né i telegiornali quando i bambini sono in ascolto!

E in questo momento, se potessi rispondere direi loro: ‹‹Avete ragione, da domani io resto a casa a condividere la noia insieme a voi, a cercare di inventarci giochi nuovi e a trascorrere pigramente la giornata, magari in pigiama››. Beh, se davvero lo potessi fare, sarei la mamma più felice del mondo! – Erica S. (FC n. 16 del 19 aprile 2020).

 
 
 

Parole sfinite

Post n°3319 pubblicato il 21 Aprile 2020 da namy0000
 

Diario spirituale dell’Arcivescovo di Milano Mario Delpini

Parole. Parole. Parole. I giornalisti chiedono parole. I vicini di casa chiedono parole. Soli in casa si rischia di impazzire se la televisione non fa compagnia, scaricando un’alluvione di immagini, di parole. Il fatto è che le mie parole sono finite o piuttosto sfinite: camminano per le strade deserte della città, ma non arrivano da nessuna parte. S’azzardano a bussare a qualche porta, ma nessuno apre. Sono sospette: non saranno per caso contagiose? Qualche persona di buon cuore, impietosita, le raccoglie e concede un momento di riposo su qualche pagina di giornale. Le mie parole sono sfinite.

Se anche cerco di rianimarle pronunciandole ad alta voce e ripeto: “Dio”, “vita”, “gioia”, “amore”, vagano nell’aria per un po’ e poi ricadono come passeri stanchi del volo. Non arrivano da nessuna parte.

Quindi? Quindi gli sguardi.

Ecco, è tempo di sguardi, sguardi silenziosi, sguardi pazienti. Tenere fisso lo sguardo su Gesù è il programa raccomandato per la Settimana santa. Lo sguardo si concentra sul crocifisso che mi ha parlato “anche l’altra volta”.

Tutti hanno un crocifisso che ha parlato, come ha parlato a Francesco o a don Camillo, per osare un accostamento irriverente. Forse è il crocifisso della chiesa parrocchiale o forse quello che mi ha regalato la nonna alla Prima Comunione. C’è un momento della vita in cui il crocifisso rivela il suo messaggio, necessario, tenero e doloroso. Lo sguardo fisso su Gesù è la scuola che può dare vita nuova, cioè verità credibile, alle parole sfinite, come “Dio”, “Vita”, “Gioia”, “Amore”.

È tempo di sguardi. Sguardi pazienti, rispettosi e benevoli, anche su quelli che vivono in casa. Sguardi che leggono gli stati d’animo meglio che le confidenze, vi trovano ragioni nuove per la stima, il perdono, un giovane amore. Sono pochi quelli che riescono a guardarsi negli occhi per lungo tempo. Ma quando si è costretti in casa c’è anche la possibilità che lo sguardo insista per leggere la verità che c’è nei cuori. Anche le persone, come le parole, sembrano sfinite: potranno ritrovare vigore, letizia, persino bellezza, rivelandosi allo sguardo che le accompagna con rispetto e benevolenza.

Quindi? Quindi prossimi.

Ecco, è tempo di imparare a farsi prossimi. “Prossimi” non vuol dire “vicini”. La vicinanza è ambigua: può essere rassicurante na anche minacciosa, gradita e desiderata, ma anche antipatica e fastidiosa. Costretti in casa a lungo si sperimenta l’ambiguità della vicinanza. Vicini e lontani, questo è tempo per essere prossimi. Prossimi si diventa con la decisione del “predersi cura”. Nella città sospesa abita la moltitudine dei prossimi, quelli che si prendono cura: dappertutto, negli ospedali, per le strade, nei cimiteri, nei supermercati, nell’istantaneo trasmettersi di operazioni di servizi da remoto. Dappertutto. Non so se basterà la moltitudine dei prossimi a rianimare le parole sfinite, ad aggiustare le parole rovinate. Anche in questo tempo ci sono parole che invece di riposare continuano a veicolare insulti, cattiverie, insinuazioni offensive. Non so se basterà la moltitudine dei prossimi. Io però mi iscrivo tra loro.

Quindi? Quindi preghiera.

Ecco, è tempo per imparre a pregare. Dato che le parole sono sfinite e anche finite, finalmente la preghiera diventa, come dovrebbe essere sempre, silenzio, ascolto, nostalgia del celebrare. Finisce nella discarica delle delusioni la lista delle richieste che si presentano come pretese perentorie per dire: ‹‹Guariscimi, guarisci almeno me! Aiutami, aiuta almeno me!››. Resta invece il tempo per consentire allo Spirito santo di dare voce all’unica parola della preghiera: ‹‹Abbà! Padre!››. così, anche le parole sfinite potranno tornare preghiera, quella che si celebra, insieme, nell’assemblea dei fratelli.

 
 
 

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