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Altro che progressi! Il colpo più duro mi venne inferto proprio quando cominciò l’anno scolastico ed io fui avviato verso l’aula della terza classe. “C’è un errore”, dissi: “Io la terza l’ho fatta e sono stato promosso. Quest’anno devo frequentare la quarta”. “Che ne sai tu, di ciò che è meglio per te?” fu la risposta. Questa volta non tacqui. Ero lì per studiare, non per perdere i miei anni. Ripetere un anno, come i somari, per me significava, vergogna a parte, perdere un anno di vita, oltre che stare un anno di più in quel lager. Era troppo grossa, per ingoiarla senza reagire. E lo dissi costernato alla mamma: lei sapeva che ero bravo; lei mi avrebbe fatto rendere giustizia. Mia madre, invece, che conosceva bene l’invidia e la massima dei paesani, nulla sapeva della perfidia religiosa. E ci credette che, provenendo da una “scuola di paese”, sarebbe stato meglio per me rinsaldare le basi ripetendo l’anno. Pur non comprendendo allora il motivo di quell’infamia, ero messo brutalmente di fronte alle “superiori esigenze” dell’Istituto Religioso e scoprivo la falsità delle persone che ritenevo le più affidabili, perché dedite, come si dice, a Dio e al bene. Mi sentii ferito mortalmente dall’ingiustizia e dal tradimento. Quella suora Agnese, arida, falsa e golosa, fu la prima persona che desiderai non avere mai incontrato. L’indicazione del “bambino di paese” tra le vittime sacrificali era venuta certamente da lei. E le altre? E il prete direttore? Li odiai tutti. Col cuore che mi scoppiava in petto, mi ritrovai in una stanzetta che chiamavano aula, in compagnia di sei o sette coetanei. Non avevamo né un libro né un programma. Ma la classe, come poi avrei capito, erano riusciti a farla. E l’anno successivo mi sarei trovato in una classe vera, di più di venti compagni, non per l’arrivo di nuovi, ma grazie alla bocciatura programmata di altri bambini: il crimine finalizzato alle superiori esigenze dell’istituto era abitudine. Per tutto l’anno non facemmo che scaldare i banchi. La piccola classe fu affidata a una giovane suora, fragilissima, che, avesse o no il diploma di maestra, ci teneva fermi leggendoci a brani un librone che narrava la storia (povera storia!) di una famiglia di martiri cristiani, titolo Da Antiochia a Roma. |
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