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Dopo le solenni celebrazioni annuali della professione dei vecchi novizi e della vestizione dei nuovi, spariti curiosi e parenti, non avemmo neanche il modo di scambiarci qualche parola con i compagni di probandato che, superato il noviziato, adesso facevano parte dei chierici neoprofessi. Partiti subito anche questi ultimi per lo Studentato Filosofico, noi fummo avvolti dalla coltre del silenzio. Solo due volte al giorno, dopo il pasto di mezzogiorno e dopo il vespro, uscivamo per pochi minuti in cortile, sfogandoci addosso a una grossa palla (non c’era neanche un pallone). Poi un atro silenzio tornava a ingoiare il santuario; ma tre volte al giorno e due volte nella notte si poteva udire dall’esterno un’eco di voci virili che recitavano in latino ecclesiastico i versetti dei salmi, le antifone, i responsori e gl’inni dell’ufficio divise in due cori. Ora dovevamo chiamarci per cognome preceduto da fratello e darci del lei, come segno di rispetto e garanzia di distacco dalle affezioni personali. Sembrava impossibile, tra compagni cresciuti insieme; e ci veniva da ridere, sul principio. Eppure, corretti con incredibile severità, anche Balucchi e Coluccia riuscirono a chiamarmi fratel De Mico. Per un anno gli studi scolastici erano sospesi e la nostra adolescenza sarebbe stata ingabbiata nella ferrea Regola dei Novizi. Un anno tanto inutile quanto durissimo, in regime di clausura. Eppure ci ripenso sorridendo: tutte le esperienze più dure sono trasfigurate, nel ricordo, dalla soddisfazione di esserne usciti. Ora si mangiava; era anzi obbligatorio accompagnare ai pasti un quartuccio di vino, per abituarci a berne poi nel dire messa. Alla cucina, come alla lavanderia, erano qui addette le suore dello stesso Ordine. Poche, in verità. E noi non le vedevamo mai, se non di sfuggita e da lontano. Ci passavano i cibi attraverso la ruota; dall’altra parte i fratelli di turno al servizio del refettorio udivano soltanto la voce sgraziata della più anziana. Ma devo ammettere che faceva una buona polenta e un gradevole budino. Ricordo gli sguardi che lanciavo, ricambiato, alla ragazzotta del paese che veniva ad aiutare le suore a sbucciare le patate e in altre faccende di cucina. Ridicolo, per chi vive una vita normale; richiamo disperato dell’angoscia in colui che della vita percepisce la perdita ineluttabile e progressiva. Non credo che la sindrome del carcerato sia più dolorosa. |
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