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Quanto ad Ersilia, a decidere che non era per me fu sua madre, che era stata sposata da un uomo molto più anziano di lei in seconde nozze; per cui decise che anch’io, quasi ventisettenne, ero troppo vecchio per la sua Ersilia. Vidi lei titubante. E mi bastò.
Alla discussione della tesi di laurea non fu presente una mia ragazza; presenti alcune filone e, dal paese, solo Franco e i filoni Guido e Bruno, i quali, in una occasione che per tutti era poco più che una cerimonia, pure rimediarono qualche momento di trepidazione.
Non fu don Salerno ma quel baciapile di D’Avak, non ancora rettore magnifico, a voler relazionare la Commissione sulla mia tesi; e la stroncò presentandola come un lavoro di stile “giornalistico”; chiaro e scorrevole, ma poco scientifico nella premessa storica e connotato da una partecipazione troppo “calda”. Mentre il controrelatore, interdetto, faceva scena muta e il presidente Volterra batteva i piedi, io dovetti segnalare al mio relatore la copiosa documentazione, compresa la ponderosa Storia dei Gesuiti, dalla quale avevo tratto le informazioni a lui non gradite, tipo l’impiego in America, da parte dei Gesuiti per convertire gl’Indios, di un esercito di mercenari più costoso di quello del conquistatore De Alvarado.
Mai una volta che non dovessi remare contro corrente.
Festeggiammo la sera stessa a Roma in un “grottino” prenotato dalla bionda e sagace Franca, la cara filona che poi si adoperò perché l’esercente non portasse vivande per un costo superiore alle poche migliaia di lire che avevo racimolato per l’occasione.
Ma la festa finì prestissimo, costretto subito a rintanarmi là dove mia madre mi garantiva una minestra e un lettino, in un paese che mi chiudeva drasticamente ogni altro orizzonte.
Mi trovai quasi d’improvviso privo di un qualsiasi progetto di vita, avvolto dal rigore dell’inverno, disperatamente solo. Seduto per ore davanti al camino, mi domandavo come si può non morire di tristezza nelle case prive di un caminetto, senza le soporifere carezze di un focherello; e mi chiedevo a che servisse quella laurea, occorrendo conoscenze anche per essere accettato gratuitamente come praticante in uno studio legale o in un giornale per il tirocinio obbligatorio, tutti tirocini imposti da leggi di casta, miranti a tenere lontani gli intrusi. Mi sentivo un bel clarinetto privo dell’ancia.
No, la laurea non era la vita. Sembrava anzi che il suo raggiungimento non cambiasse le cose se non in peggio. Ma era pur sempre un’altra affermazione della mia esistenza, un altro bel calcio in culo a quel frocio d’un destino.
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