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Dicono che chi si uccide sia un vigliacco. Lo dicono quelli che continuano a vivere; e i morti non possono smentirli: è facile avere ragione sui morti. Eppure è certo che per continuare a campare non c’è bisogno di un atto di coraggio; basta non far nulla; mentre per suicidarsi ci vuole almeno un atto di volontà. Un atto folle? Chi ti può smentire, se lo definisci così? La verità è che ci vuole coraggio sia per vivere che per morire… Bevici sopra, Biotto!
Con simili pensieri me ne andavo a zonzo sfaccendato, come uno straccio di bandiera perduta sul campo di battaglia. Levarsi dal letto a mezzogiorno e senza un motivo; gironzolare per la piazza fino all’ora di pranzo; una partita a bocce o a carte nel pomeriggio e l’obbligo della serata allegra; sigaretta sempre in bocca, falso chitarrista tra veri e falsi amici, a strimpellare lo strumento per non migliorarmi, esaltato da quattro bicchieri di vino che non riuscivano mai a ubriacarmi; ma mi persuadevano che è inutile migliorarsi, quando non ce n’è motivo, quando nessuno sembra avere bisogno della tua virtù, a cominciare da te stesso. Così, una settimana dopo l’altra, passavano i mesi. Da argomentatore vivace mi andavo trasformando in un apatico ascoltatore senza voglia d’intervenire nei discorsi. Avrei dovuto cambiare aria. Ma come?
Se il partito e il sindacato rifiutavano la mia utilizzazione era, lo sapevo, a causa del mio rifiuto di quel santo patrono che ora sarebbe stato più che mai necessario. Ero io a non cercarmelo, quasi che nel mio orgoglio proletario pretendessi che il mio partito e il mio sindacato ne fossero privi.
Con l’avvicinarsi della primavera diventavano sempre più numerose le macchine dei forestieri che venivano a Monteflavio per una braciolata e ne ripartivano con l’obbligatoria allegria malinconica di gitanti regolarmente ubriachi: la mia prigione era la loro evasione. Che fregatura, la novità soggettiva! Tutto ciò che scopriamo come nuovo è vecchio come la fame.
Mi sentivo di nuovo prigioniero; come al tempo della galera religiosa, ma senza quel fuoco di gioventù che teneva accesa allora, nella costruzione del domani, una sconfinata fiducia nella vita. Adesso ero quasi rassegnato, perseguitato da una poesia funerea che non ho voluto conservare. Forse avevo la stessa capacità critica e sintetica, l’immaginazione e il sentimento che prima mi riconoscevano(“un vulcano” mi definiva il Padre Sciolla); ma anche la sensazione di una lava sepolta sotto la cenere delle illusioni bruciate. E tra riflessioni e sensazioni tornavano a inserirsi in misura sempre più preoccupante le fantasticherie, come una volta. |
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