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Sul finire degli anni ’80 tutta la famiglia materna si era riunita a Roma. Franco vi aveva comprato casa. Le figlie di Vanda vi si erano sposate e sistemate per concorso, Ottavia come funzionario direttivo del Ministero della Difesa, Rita come insegnante; e anche Vanda, rimasta vedova di Luciano, lasciò il lavoro e vi acquistò un monolocale per stare vicina alle figlie e ai due nipotini, tornando come noi al paese per qualche fine settimana e nella bella stagione.
Nel 1988 morì il babbo di Antonietta, a me stesso un po’ padre, adorato da tutti i figli e in modo viscerale da Antonietta, che si vanta di somigliargli. Aveva speso le ultime fatiche di bracciante edile trasformandosi in muratore della nostra casa in paese. Il goccetto di vino che si concedeva dopo la fatica gli fu fatale. Giunse, incurabile, la cirrosi epatica, che lentamente lo portò alla fine.
Sul letto di morte, Giusto l’antifascista mi recitò il peana in ottave indirizzato al Duce da nonno Berni. L'avevano costretto a impararlo a scuola.
Nel 1990, mentre dalla scuola elementare veniva cancellata la figura bellissima del maestro o della maestra di classe, sostituiti dai moduli ad esclusivo beneficio, credo, delle esigenze occupazionali, io ce la feci a smettere di fumare. Non vi ero riuscito dopo un urgente ricovero in ospedale con le vertigini, intossicato, sembra, dalla nicotina. Preoccupato per aver trasmesso il vizio alle ragazze, giurai che avrei smesso anch’io, se avessero smesso loro. Sabrina, di lì a poco, se ne uscì con il suo piglio severo:
“Allora, papy, da domani io e te non si fuma più”.
Sì, fu un’impresa eroica. In compenso inserii qualche chilo superfluo tra i connotati della mia terza età.
Nel lavoro mi lasciai tentare dal rientro al Ministero, fruendo della rotazione; mentre Amatucci il galantuomo doveva cedere il passo a una sostituta che era il prototipo del raccomandato avulso dalla capacità e dal merito: fame di potere, sottocultura guappesca, ignoranza del lavoro e quindi diffidenza nei confronti dei collaboratori più capaci.
Nel lasciare il palazzo di Via Pianciani dove, tra provveditorato e sovrintendenza, avevo lavorato sodo per dieci anni, colleghi e collaboratori dell’uno e dell’altro ufficio, ospitati allora nello stesso edificio, mi salutarono con un’ultima festicciola; non un pranzo in un ristorante fuori porta, stavolta, ma un rinfresco nel salone a piano terra. E il regalo di commiato che ricevetti, originalissimo in quell’ambiente, fu una chitarra; una buona chitarra spagnola.
Ma al Ministero, dove mi aspettavo che l’esperienza maturata mi meritasse un’accoglienza a braccia aperte, mi aspettava l’incubo. |
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