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Ad Antonietta ed anche alle ragazze, quando riuscivo a scambiare qualche parola con loro, evidenziavo come fosse la morale di Mosè a convincere i governi israeliani e americani che la forza è il riconoscimento che Dio riserva a chi è più degno. E dove il più forte è il più degno l’oppresso impossibilitato a combattere secondo le sue “regole” non puoi definirlo che terrorista.
Ma come non pensare, vedendo i ragazzi palestinesi combattere con i sassi i carri armati effigiati con la stella di David, che fossero loro i David del mito contro il Golia ebreo? Antonietta ci sformava, come dicevano le ragazze.
“Io credo che sia sempre la paura a determinare questi atteggiamenti”, le dicevo. “La prepotenza non è che paura”.
“Sono criminali e basta, come una volta i nazisti nei confronti di altri ebrei… E come quel burocrate puzzone che tu sembri voler giustificare”.
Non giustificavo il trattamento che subivo. Cercavo di spiegarmelo.
“E comunque mi sta regalando il modo e il tempo di tornare a poetare”.
Avevo cominciato con la Passione,rielaborandola sotto forma (e là il romanesco calzava) di memorie di Ponzio Pilato. Poi, incoraggiato da Antonio Piromalli e dal suo collega Vincenzo La Bua, che leggevano avidamente quanto andavo scrivendo, ricominciai non più in dialetto dalla Genesi. Mi cimentai quindi con il restauro del Libro di Giobbe, limpida contestazione dell’etica mosaica, di stile platonico, ridotta dalle manipolazioni a una lagna incomprensibile.
Ora che avevo tanto tempo, decisi di metter mano subito a quello che mi prefiguravo come l’hobby da pensionato. E con la convinzione di chi sa di avere nelle viscere un capolavoro da partorire ricominciai a verseggiare sotto un secondo titolo: La Bibbia secondo un pagano.
Andavo e venivo tra casa e Ministero con la borsa, mai usata prima, costretto a portarmi da casa il lavoro e a giustificare con la presenza la retribuzione; e per farmi quei quattro passi a piedi che mi facevano sentire ancora vivo.
Erano stati annientati professionalmente così tutti i vecchi direttivi comunisti (Neri, Pansa, Gallina; e Visone, il conte rosso) che avevo recuperato alla cellula del partito. Né io ne sarei uscito indenne, se non avessi avuto, oltre alla mia poesia, i miei ulivi.
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