Messaggi del 13/03/2015
Di nome Angelo come mio nonno materno, verseggiatore tenace era invece il penultimo del Berni, benché non sempre imbroccasse il metro preciso e la rima giusta. Insistendo per la via del commercio, prese in affitto la rimessa e il carretto di mio padre. Affitto che non pagò mai, perché lo zio Angelo era tanto gioviale quanto sempre squattrinato. Si raccontava come da ragazzo ironizzasse con nonna Francesca: “Non potevi fare un altro figlio? Cosa possiamo dividerci in otto?” Nonna Francesca gli rispose: “Ti auguro di averne uno più di me”. E così fu. Quasi tutte le mogli dei miei zii furono vittima di quello che era l’incubo e il terrore del tempo. Non osavano neanche chiamarla per nome, la tibicì. Lo zio Angelo trovò una moglie ternana, così delicata che la dicevano la signorina. La stessa tosse che aveva stroncato Onelia di Annibale e che minacciava la Cecilia di Alfredo l’avrebbe portata alla tomba. Rimasto con cinque figli, Angelo prese in seconde nozze la florida Livia, dalla quale ebbe altri quattro figli. Così la vendetta di nonna Francesca si adempiva. Come quei miei cugini siano sopravvissuti è un mistero. Lasciarono uno alla volta il paese, verso istituti religiosi, casali, retrobotteghe; e si conquistarono tutti una posizione dignitosa; i ristoranti romani da Alvaro al Circo Massimo e Lucia al Palazzaccio appartengono a due di loro. Il nostro unico sostegno erano i nonni materni, con altre due figlie da maritare e i due maschi al fronte. Ad assisterci, mentre la mamma stava al lavoro, bastava la grande casa che era il paese. Quasi tutte le mattine di buonora la mamma o una delle zie ci accompagnava a "impanare" nell’ovile dove nonno Angelo teneva un centinaio di pecore all’addiaccio: dopo aver fatto il formaggio, nel paiolo ancora caldo di siero con larghi fiocchi di ricotta egli spezzava il pane per noi e per i cani. La scifetta di legno in testa con formaggi e ricotte e il più piccolo di noi in braccio, la donna di turno ci riportava dall’ u jacciu in tempo per la scuola. Nonna Annarella la ricordo sempre con una conca d’acqua al fianco e qualcosa sulla testa, un fascio di legna, una cupella o uno scifo. E quasi sempre ad altercare con qualcuno. |
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