Messaggi del 15/06/2015
6. IL NOVIZIO Quattro case, un santuario e l’annesso convento. Era Somasca, la casa madre dell’Ordine, adagiata sotto il Pizzo, per l’erta scoscesa che sale dall’ultimo lembo di “quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno”. Ai piedi dell’erta Vercurago e poco più in alto, oltre la scala santa che portava san Gerolamo al suo eremo, i ruderi di quello che sarebbe stato il Castello dell’Innominato manzoniano. Era la sede del nostro noviziato, l’anno di clausura programmato per saggiare la nostra idoneità alla vita religiosa. Là ci ritrovammo con i postulanti provenienti dalle altre due province italiane dell’Ordine, la ligure-pedemontana e la lombardo-veneta. Una trentina in tutto. Aristodemo era tornato alla sua Anguillara. Oltre ai tre “pessimisti” residui (Enrico, Vittorio ed io), dalla Provincia romana vi approdavano altri cinque. Quattro i nostri compagni dalla prima media: il ciociaro Pacioni di Pofi, riflessivo e delicato a dispetto della sua origine; l’irpino Pettoruto di Caianello Vairano, un muletto tenace e un po’ testardo; il molisano Zappone di Cerce Maggiore, tanto robusto quanto socievole e sincero, assolutamente acritico; e l’umbro Balucchi, intelligente e riservato, quello che si dice un bravo ragazzo, di Giove di Valtopina… “Dove perenne del Topin la voce / s’ode il rumoreggiar che tanto vale”. Erano i versi che, con tanto di anacoluto, dedicavamo ai nostri fantastici paesi lontani. Esiste poi una specie particolare di persone, che nel sistema giudiziario sono i Pentiti, nella Chiesa i Convertiti. Essi vivono giusto il tempo necessario a dimostrare l’esistenza della Grazia. Convertito e aggregato nell’ultimo anno al nostro gruppo era l’ottavo; una vocazione tardiva, un indecifrabile militare che intendeva forse risolvere con la vocazione qualche problema personale; non ricordo il nome, perché lo chiamavamo il Sergente. Ci avrebbe lasciato all’inizio del noviziato, ignoto il motivo della partenza come quello dell’arrivo. Considerato che ci attendevano giorni di rigoroso ritiro, prima della vestizione, convinsi due piemontesi, Figone e Fiore, a scalare il Pizzo, in quel primo ed unico pomeriggio di libertà. Riassaporammo così il negato abbraccio delle montagne. Non era la Grigna, là vicina; ma fu un’impresa più temeraria, perché prendendo di petto la parete che non conoscevamo, senza altro aiuto che le nostre mani, ci trovammo a un punto che non potevamo né salire né riscendere. Ce la cavammo grazie a un fico selvatico e a tanta fortuna. |
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