Messaggi del 08/10/2015
Al paese continuavano a chiamarmi Avvocato con lo stesso tono scherzoso che usavano prima che prendessi la laurea: la massima rosicava i compaesani. Manco fosse servita davvero a qualcosa, quella laurea; pochi avevano dato a mia madre la soddisfazione di gradire i confetti colorati.
E il 1965, che mi vide rinunciare anche al veglione di carnevale, si annunciava come l’anno della disperazione. Sconfortato, solo davanti al camino, in mano la lettera dell’editore che respingeva il mio Giannizzero, piansi, dopo non so quanti anni. Ed ebbi paura di quelle lacrime. Avevo vissuto vicende più tristi e periodi più penosi, ma non così privi di prospettive.
Giorni e giorni tutti uguali, senza alcuna attesa. Non un compagno che mi prospettasse, come don Salerno, la possibilità che della mia laurea e del mio attivismo potessero avvalersi il Partito o il Sindacato. Il responsabile di zona mi disse che mi avrebbe proposto per il servizio di “Vigilanza” ai membri della Direzione del partito. Ma anche da quel lato la risposta definitiva non venne mai. E preferivo così, non per l’umiltà del lavoro di guardaspalle o di autista, ma perché quell’ultimo lumino di speranza non si spegnesse.
E una mattina risvegliarsi con la sorpresa del paese ricoperto da un metro di neve, senza corrente elettrica, isolato dal resto del mondo; alla estremità del mondo, arroccato tra le montagne innevate, benché a soli 50 chilometri da Roma. Bastava una novità così banale a riattivare il flusso della vita dentro le vene. La neve, del resto, non mi è mai dispiaciuta; per quel suo candore che ti fa sembrare il mondo più pulito; o per quel suo rigore che ti lascia poi le mani calde, brucianti di gelo, come il cuore. Camminare per giorni a fatica tra i cumuli di neve ammucchiata dalla tormenta; mettersi a spalare tutti insieme, visto che non ce la fa ad arrivare neppure lo spazzaneve; poi i carabinieri che annunciano la fine del blocco; e la quotidianità che riprende, più brutta di prima, tra la neve sporca che diventa fanghiglia.
Per gli uomini del paese la solita vita di pendolarismo e di stenti: partire all’alba battendo i denti e tornare la sera a notte; ubriacarsi sabato e domenica per dimenticare gli altri giorni della settimana. Per i giovani una sola via d’uscita, l’emigrazione. Per me i soliti pellegrinaggi da casa al bar e nessuna notizia, benché sia arrivata la posta e funzioni di nuovo il telefono; accanto alla pigrizia rassegnata di Franco, licenziatosi dall’azienda di Torre Maura, e tra le geremiadi della mamma. E dire che da piccolo non ricordo di averla mai sentita lamentarsi. |
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