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Messaggi del 28/03/2019

È davvero l'impronta di uno degli ultimi Neanderthal?

Post n°2058 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

21 febbraio 2019

È davvero l'impronta di uno degli ultimi Neanderthal?

Un'impronta fossilizzata risalente a 28.000 anni fa,

scoperta a Gibilterra in un'antica duna di sabbia,

potrebbe essere stata lasciata da uno degli ultimi

neanderthaliani rimasti.

Ma non tutti sono d'accordo con questa interpretazione,

che si inserisce nell'annoso dibattito sull'epoca esatta

in cui si estinsero i nostri arcaici cuginidi

Kate Wong / Scientific American

Neanderthalantropologiapaleontologia

I ricercatori hanno scoperto una serie di impronte

fossilizzate in un'antica duna di sabbia a Gibilterra,

il piccolo territorio britannico sulla punta sud occidentale

della penisola iberica. Una delle impronte, suggeriscono,

potrebbe essere quella di un Neanderthal.

Se hanno ragione, si tratta di un ritrovamento molto

significativo: è noto solo un altro sito di Neanderthal,

in Romania, con una serie di impronte di 62.000 anni fa.

Se, come riferito, l'impronta di Gibilterra fosse molto

più recente, potrebbe essere stata lasciata da uno degli

ultimi Neanderthal a camminare sulla Terra.

Ma altri esperti non sono altrettanto sicuri di questa

interpretazione. La scoperta si inserisce così nella

vecchia diatriba su quando l'Homo sapiens anatomicamente

moderno ha colonizzato l'Europa e quando si è estinto

l'arcaico Neanderthal.

L'analisi delle tracce ha rivelato nella duna cinque tipi

di impronte. Per identificare gli animali che le hanno

lasciate, Fernando Muñiz dell'Università di Siviglia, in

Spagna, e colleghi, ne hanno studiato le dimensioni e

le forme, confrontandole con altre tracce conservate e

correlandole con resti di animali fossilizzati trovati in

altri punti di Gibilterra.

È davvero l'impronta di uno degli ultimi Neanderthal?

Immagine in falsi colori dell'impronta (Cortesia Universdad de Sevilla)

Le tracce sembrano appartenere a vari tipi di mammiferi,

tra cui un elefante, un cervo e un leopardo.

Tuttavia, anche se mal conservata, una delle impronte ha

un aspetto decisamente umano: il calco rivela un piede

destro più largo nella parte anteriore che in quella posteriore

ed ha cinque dita allineate.

E le dimensioni suggeriscono che sia stata lasciata da

un giovane adolescente. Ma a quale specie umana apparteneva?

Le caratteristiche fisiche dell'impronta potevano essere

associate sia ai Neanderthal che agli esseri umani moderni:

impossibile decidere tra i due candidati in base alle

dimensioni e alla forma. Così, i ricercatori hanno guardato

all'età e alla posizione.

Usando una tecnica nota come luminescenza a stimolazione

ottica, che può determinare quando i granelli di sabbia sono

stati esposti alla luce solare per l'ultima volta, il team ha

datato le tracce a circa 28.000 anni fa.

In precedenza, sulla base di resti trovati altrove a Gibilterra,

i ricercatori - compresi alcuni membri del team dell'impronta -

avevano sostenuto che i Neanderthal erano vissuti nella regione

anche in quell'epoca tarda, sopravvivendo migliaia di anni più

a lungo che in qualsiasi altra parte dell'Eurasia. H. sapiens 

finì per soppiantare i Neanderthal e altri esseri umani

arcaici in tutto il mondo, ma la nostra specie sembra aver

raggiunto Gibilterra piuttosto tardi.

Considerando la forma dell'impronta e il fatto che risale

a un'epoca in cui i Neanderthal - ma non gli esseri umani

moderni - vivevano a Gibilterra, a lasciare l'orma fu quindi

probabilmente un Neanderthal, concludono Muniz e i suoi

colleghi, che riferiscono i loro risultati in un

 articolo in stampa su "Quaternary Science Reviews".

La loro tesi ha suscitato reazioni contrastanti da parte

degli esperti non coinvolti nel nuovo studio.

È davvero l'impronta di uno degli ultimi Neanderthal?

L'impronta nel luogo del ritrovamento (Cortesia Universdad de Sevilla)"

Le proporzioni dei piedi [di H. sapiens e Neanderthal] sono

più o meno le stesse, e questo rende davvero difficile capire

dal profilo di un'impronta se a calpestare quelle dune sabbiose

28.000 anni fa sia stato un uomo moderno o un Neanderthal",

osserva Jeremy DeSilva del Dartmouth College, esperto di piedi

umani fossili. Ma data l'età della traccia e dove è stata trovata,

l'ipotesi che sia stato un Neanderthal è "del tutto ragionevole",

dice.

Il paleoantropologo William Harcourt-Smith del Lehman College,

anch'egli specializzato nell'anatomia del piede, è più prudente.

"Per quanto ne sappiamo 28.000 anni fa è proprio l'epoca del

crepuscolo dei Neanderthal", dice.

E benché a Gibilterra non siano stati ancora trovati resti umani

moderni risalenti a quel periodo, questi erano ampiamente

presenti in altre parti d'Europa.

"È possibile che sia stato un Neanderthal a lasciare l'impronta,

ma onestamente, da un punto di vista anatomico, la scarsa

qualità dell'orma rende molto difficile dimostrarlo", dice.

Altri esperti sono restii a far dipendere l'attribuzione

dell'impronta dalla sua datazione. Thomas Higham,

dell'Università di Oxford, e colleghi, hanno datato un certo

numero di siti neanderthaliani e dei primi umani moderni in

tutta Europa. Cercando di determinare l'età dei resti archeologici

dei Neanderthal di Gibilterra, non sono riusciti a replicare le

date ottenute in precedeza per alcuni di quei materiali.

Inoltre, l'epoca dei resti di Neanderthal provenienti dal sud

della Spagna si è rivelata molto più antica di quanto

supposto inizialmente, suggerendo che la sopravvivenza

protratta dei Neanderthal nel sud della penisola iberica

in realtà sia un artefatto del metodo di datazione usato

Secondo il team di Higham, i Neanderthal sarebbero

invece scomparsi circa 39.000 anni fa.

È davvero l'impronta di uno degli ultimi Neanderthal?

Cranio di Neanderthal (a sinistra) a confronto con il

cranio di un essere umano anatomicamente moderno

(Science Photo Library / AGF)A complicare le cose,

nuovi dati suggeriscono che gli esseri umani moderni

potrebbero aver raggiunto la penisola iberica meridionale

prima di quanto si pensava.
In un articolo pubblicato all'inizio di questo mese su "

Nature Ecology and Evolution", Miguel Cortes-Sanchez,

dell'Università di Siviglia, e colleghi, riferiscono le loro

datazioni di un sito a Malaga, la grotta di Bajondillo,

i cui depositi archeologici coprono il periodo di

transizione Neanderthal-umani moderni.
I loro risultati suggeriscono che a Bajondillo l'uomo moderno

abbia sostituito i Neanderthal circa 43.000 anni fa. 

E se gli esseri umani moderni si trovavano nel sud della Spagna

già allora... beh, in linea d'aria Gibilterra è appena aun

centinato di chilometri da Malaga.
Tutto sommato, "sarei molto scettico sul fatto che in

questo caso [la datazione a 28.000 anni fa] dia peso

all'identificazione di un Neanderthal", dice Higham

dell'impronta di Gibilterra.
(L'originale di questo articolo è stato

 pubblicato su "Scientific American" il 15 febbraio 2019.

Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione

autorizzata, tutti i diritti riservati.

 
 
 

Antichi fantasmi umani nel DNA moderno

Post n°2057 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte:Le Scienze

11 febbraio 2019

Con l'aiuto di tecniche di apprendimento profondo,

i paleoantropologi hanno trovato prove di rami perduti

da tempo sul nostro albero genealogico, identificando

alcuni eventi potenziali di incroci e di ibridazioni tra

specie umane estinte e lontani antenati della nostra

speciedi Jordana Capelewicz/QuantaMagazine

L'apprendimento profondo potrebbe aiutare paleontologi

e genetisti a cercare fantasmi?

Quando gli esseri umani moderni migrarono per la prima

volta dall'Africa 70.000 anni fa, almeno due specie affini,

ormai estinte, li stavano già aspettando sul continente

eurasiatico. Erano i Neanderthal e i Denisoviani, esseri

umani arcaici che si sono incrociati con quei primi moderni,

lasciando frammenti del loro DNA nei genomi delle persone

di origine non africana.

Ma ci sono sempre più indizi di una storia ancora più contorta

e colorita: la scorsa estate, per esempio, un gruppo di ricercatori

ha riferito su "Nature" che un frammento osseo trovato in una

grotta siberiana apparteneva alla figlia di una donna Neanderthal

e di un uomo Denisoviano. La scoperta è la prima prova fossile

di un ibrido umano di prima generazione.

Neanderthal al Neanderthal Museum di Mettmann, in Germania.

(© Arco Images / AGF)Purtroppo, è molto raro trovare fossili del

genere (la nostra conoscenza dei Denisoviani, per esempio, si basa

sul DNA estratto da un osso di un dito). Molti altri accoppiamenti

ancestrali avrebbero potuto verificarsi facilmente, compresi quelli

che coinvolgono gruppi ibridi provenienti da incroci precedenti, che

però potrebbero essere praticamente invisibili quando se ne cercano

prove fisiche. Gli indizi della loro esistenza possono invece sopravvivere

nel DNA di alcune persone, ma in questo caso potrebbero essere più

sfuggenti delle tracce genetiche lasciate dai Neanderthal e dai Denisoviani.

I modelli statistici hanno aiutato gli scienziati a dedurre

l'esistenza di un paio di queste popolazioni anche in assenza

di dati fossili: secondo una ricerca pubblicata a fine 2013,

per esempio, modelli di variazione genetica negli esseri umani

antichi e moderni indicano che una popolazione umana sconosciuta

si è incrociata con i Denisoviani (o con i loro antenati).

Ma gli esperti ritengono che questi metodi trascurino

inevitabilmente molte cose.

Chi altri ha contribuito ai genomi di oggi? Che aspetto avevano

queste cosiddette popolazioni fantasma, dove vivevano e con

quale frequenza interagivano e si accoppiavano con altre specie

umane?

In un articolo pubblicato il mese scorso su "Nature Communications",

i ricercatori hanno mostrato il potenziale di tecniche di

apprendimento profondo per aiutare a colmare alcune lacune,

di cui gli esperti potrebbero non essere nemmeno a conoscenza.

Hanno usato l'apprendimento profondo per scandagliare le

prove dell'esistenza di un'altra popolazione fantasma: un antenato

umano sconosciuto in Eurasia, probabilmente un ibrido

Neanderthal-Denisoviani o un parente della linea denisoviana.

Il lavoro suggerisce che in futuro l'intelligenza artificiale potrà

servire in paleontologia non solo per identificare fantasmi

imprevisti, ma anche per scoprire le impronte molto sbiadite

dei processi evolutivi che hanno plasmato chi siamo diventati.

Alla ricerca di esili tracce
I metodi statistici attuali prevedono l'esame di quattro genomi

alla volta per individuarne i tratti comuni.

È un test di somiglianza, ma non necessariamente di antenati reali,

perché ci sono molti modi diversi di interpretare le piccole

quantità di miscela genetica che il test trova.

Per esempio, le analisi potrebbero suggerire che un europeo

moderno, ma non un africano moderno, condivide alcune caratteristiche

con il genoma dei Neanderthal.

Ma ciò non significa necessariamente che quei geni provengano

da incroci tra i Neanderthal e gli antenati degli europei.

Questi ultimi, per esempio, avrebbero potuto invece

incrociarsi con una popolazione diversa, strettamente

legata ai Neanderthal, non con i Neanderthal stessi.

Non lo sappiamo. In assenza di prove fisiche che indichino

quando, dove e come sarebbero vissute quelle antiche ipotetiche

fonti di variazione genetica, è difficile dire quale delle tante

possibili ascendenze sia la più probabile.

La tecnica, ha detto John Hawks, paleoantropologo all'Università

del Wisconsin a Madison, "è potente per la sua semplicità,

ma dal punto di vista della comprensione dell'evoluzione lascia

molti punti irrisolti".

Il nuovo metodo di apprendimento profondo è un tentativo

di fare un passo avanti, cercando di spiegare livelli di flusso genico

che sono troppo piccoli per i normali approcci statistici e offrendo

una gamma molto più vasta e complicata di modelli.

Attraverso l'addestramento, la rete neurale può imparare a

classificare vari modelli nei dati genomici, basandosi sulle storie

demografiche che hanno maggiori probabilità di averli originati,

ma senza che chiarire in che modo ha stabilito quelle connessioni.

Questo uso dell'apprendimento profondo può svelare "fantasmi"

di cui non si sospettava neppure l'esistenza.

Intanto, non c'è motivo di pensare che Neanderthal, Denisoviani

ed esseri umani moderni fossero le uniche tre popolazioni

sulla scena. Secondo Hawks, ce ne potevano benissimo essere

decine.

Jason Lewis, antropologo della Stony Brook University

a New York, condivide questa opinione.

"La nostra immaginazione è stata limitata dalla nostra attenzione

alle persone viventi o ai fossili che abbiamo trovato in Europa,

Africa e Asia occidentale", ha detto.

"Quello che le tecniche di apprendimento profondo possono fare,

in un modo peraltro strano, è riorientare le possibilità.

L'approccio non è più limitato dalla nostra immaginazione".

Il valore reale delle storie simulate
L'apprendimento profondo potrebbe sembrare una soluzione

improbabile ai problemi dei paleontologi, perché normalmente

il metodo richiede enormi quantità di dati per l'addestramento.

Prendete una delle sue applicazioni più comuni, la classificazione

di immagini. Quando gli esperti addestrano un modello a identificare,

per esempio, le immagini dei gatti, hanno migliaia di foto con cui

possono addestrarlo e sanno se funziona perché sanno come dovrebbe

essere un gatto.

Ma la scarsità di dati antropologici e paleontologici rilevanti disponibili

ha forzato i ricercatori che volevano usare l'apprendimento profondo

a fare i furbi, creando loro dei dati. "In un certo senso abbiamo giocato

sporco", ha detto Oscar Lao, ricercatore al National Center of Genomic

Analysis di Barcellona e uno degli autori dello studio.

"Potevamo usare una quantità infinita di dati per addestrare il motore di

apprendimento profondo per il semplice fatto che stavamo usando

simulazioni".

I ricercatori hanno generato decine di migliaia di storie evolutive

simulate, basate su diverse combinazioni di dettagli demografici:

numero di popolazioni umane ancestrali, loro dimensioni, quando

differivano l'una dall'altra, loro tassi di mescolanza e così via.

Da queste storie simulate, gli scienziati hanno generato un gran

numero di genomi simulati per le persone di oggi.

Hanno addestrato il loro algoritmo di apprendimento profondo

con questi genomi, in modo che imparasse quali tipi di modelli

evolutivi hanno maggiori probabilità di produrre determinati

modelli genetici.

gine la scritta "Xe" indica dove dovrebbe essere avvenuto l'incrocio

fra umani moderni e una popolazione "fantasma" secondo la

ricostruzione delle antiche migrazioni fatta dal sistema di intelligenza

artificiale. (Cortesia Mayukh Mondal, Jaume Bertranpetit, Oscar Lao)

Il gruppo ha quindi impostato l'intelligenza artificiale in modo che fosse

libera di dedurre le storie che meglio si adattano ai dati genomici reali.

Alla fine, il sistema ha concluso che all'ascendenza delle persone di

origine asiatica aveva contribuito anche un gruppo umano non identificato

in precedenza. Secondo quei modelli genetici, probabilmente quegli esseri

umani erano una popolazione distinta nata dall'incrocio di Denisoviani e

Neanderthal circa 300.000 anni fa oppure un gruppo che discendeva

dal lignaggio dei Denisoviani subito dopo.

Non è la prima volta che l'apprendimento profondo è stato usato

in questo modo. Una manciata di laboratori ha applicato metodi

simili per affrontare altri filoni delle indagini evolutive.

Un gruppo di ricerca, guidato da Andrew Kern dell'Università

dell'Oregon, ha usato un approccio basato sulla simulazione e sulle

tecniche di apprendimento automatico per cogliere le differenze

nei vari modelli evolutivi delle specie, esseri umani compresi. Kern

e colleghi hanno scoperto che la maggior parte degli adattamenti

favoriti dall'evoluzione non hanno bisogno dell'emergere di nuove

mutazioni benefiche nelle popolazioni, ma dell'espansione di varianti

genetiche già esistenti.

L'applicazione dell'apprendimento profondo "a queste nuove domande

- ha detto Kern - sta dando risultati entusiasmanti".

Dubbi e speranze
Naturalmente, ci vuole molta cautela. Innanzitutto, se la storia

evolutiva umana reale non fosse stata simile ai modelli simulati

su cui sono addestrati questi metodi di apprendimento profondo,

allora i risultati sarebbero errati. Questo è un problema che Kern

e altri hanno cercato di affrontare, ma resta ancora molto da fare

per fornire maggiori garanzie di accuratezza.

"Penso che l'intelligenza artificiale sia sopravvalutata nelle

applicazioni alla genomica", ha detto Joshua Akey, ecologo e biologo

evolutivo della Princeton University. L'apprendimento profondo

è uno strumento nuovo e fantastico, ma è solo un altro metodo.

Non risolverà tutti i misteri e le complessità dell'evoluzione umana".

Alcuni esperti sono ancora più scettici.

"Ritengo che la densità e la qualità dei dati non siano molto adatte

ad analisi che non siano ben ponderate e basate su un'intelligenza

non artificiale", ha scritto in una mail David Pilbeam, paleontologo

della Harvard University e del Peabody Museum.

Tuttavia, secondo altri paleontologi e genetisti, è un buon passo

avanti, qualcosa che potrebbe essere usato per fare previsioni su

possibili future scoperte fossili e su variazioni genetiche attese

che dovrebbero essersi verificate tra gli esseri umani migliaia di

anni fa. "Penso che l'apprendimento profondo darà davvero una

spinta alla genetica di popolazioni", ha detto Lao.

E potrebbe essere così anche per altri campi in cui disponiamo

di dati, ma non conosciamo il processo che li ha prodotti.

Nello stesso periodo in cui Kern e altri genetisti di popolazioni e

biologi evolutivi stavano sviluppando tecniche di intelligenza

artificiale basate sulla simulazione per affrontare le loro domande,

i fisici facevano lo stesso per capire come vagliare l'immensa mole

di dati prodotti dal Large Hadron Collider del CERN di Ginevra e

da altri acceleratori di particelle. Anche la ricerca geologica e i

metodi di previsione dei terremoti hanno iniziato a beneficiare

di questo tipo di approcci di apprendimento profondo.

"Dove porti, non lo so davvero. Vedremo", ha detto Nick

Patterson, biologo computazionale al Broad Institute del

Massachusetts Institute of Technology e della Harvard

University. "Ma è sempre bello considerare nuovi metodi.

Useremo tutto quello che possiamo se sembra essere buono

per rispondere alle domande a cui vogliamo rispondere."

---------------------------
(L'originale di questo articolo è stato 

pubblicato il 7 febbraio 2019 da QuantaMagazine.org,

una pubblicazione editoriale indipendente online promossa

dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione

pubblica della scienza. Traduzione ed editing a cura di

Le Scienze.Riproduzione autorizzata,

tutti i diritti riservati)

 
 
 

Quel segnale di materia oscura che non si riesce a replicare

Post n°2056 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

25 marzo 2019

I ricercatori dell'esperimento DAMA ai Laboratori del Gran

Sasso affermano da tempo di aver rilevato segnali di materia

oscura, la massa mancante del cosmo che scienziati in tutto

il mondo tentano di identificare.

Ma due esperimenti fotocopia di DAMA non sono stati in

grado di replicarne i risultatidi Davide Castelvecchi/Nature

materia oscurafisica delle particellePer più di due decenni, un

solo esperimento al mondo ha costantemente riferito di aver

rilevato un segnale di materia oscura, la massa mancante

dell'universo che i fisici cercano da tempo di identificare.

Ora, due esperimenti progettati per replicare i risultati

usando la stessa tecnologia di rilevazione hanno presentato

i loro primi dati. Una risposta definitiva rimane elusiva:

anche se i dati iniziali di un esperimento sembrano essere

compatibili con i risultati originali, i risultati dell'altro

rivelatore vanno in direzione opposta.

Ma gli scienziati dicono che grazie a questi esperimenti e

ad altri che, secondo i programmi, saranno presto attivi,

na risposta definitiva sulla natura del segnale misterioso è

ora a portata di mano.

Quel segnale di materia oscura che non si riesce a replicare

Il profilo della Via Lattea ripreso dalla Terra. (CC0 Public Domain)

"Non c'è davvero alcuna conclusione da trarre a questo punto,

se non il crescere della suspense", dice Juan Collar, fisico

dell'Università di Chicago, che ha lavorato a diversi esperimenti

sulla materia oscura. "Ma gli strumenti sembrano avere una

sensibilità sufficiente per dare al più presto risultati conclusivi",

afferma Collar.

Interazioni ordinarie
Le osservazioni di come ruotano le galassie e del fondo cosmico

a microonde - il "bagliore residuo" del big bang - suggeriscono

che la maggior parte della materia nell'universo è invisibile.

Questa materia "oscura" mostrerebbe la sua presenza quasi

esclusivamente tramite le interazioni gravitazionali con altri

oggetti, ma una serie di esperimenti ha cercato per decenni

di raccogliere i segni delle sue altre interazioni con la materia

ordinaria.

Dal 1998, il rilevatore sotterraneo DAMA presso il Laboratorio

nazionale del Gran Sasso dell'Istituto nazionale di fisica nucleare

e il suo successore DAMA/LIBRA hanno registrato una variazione

stagionale nei dati. Il rivelatore registra lampi di luce creati quando

le particelle collidono con i nuclei atomici in un cristallo di ioduro

di sodio altamente purificato.

Questi lampi potrebbero essere segnali di materia oscura o di

radiazione di fondo vagante - ma i fisici dell'esperimento affermano

che la variazione stagionale si verifica perché la Terra si muove

attraverso un alone di particelle di materia oscura che circonda

la Via Lattea, determinando uno schema ripetitivo.

Nel marzo 2018, la collaborazione DAMA ha presentato i primi

risultati del rivelatore dopo che è stato aggiornato nel 2010.

La firma della materia oscura sembrava essere ancora lì.

Nel corso degli anni, diversi esperimenti con varie tecniche

hanno prodotto risultati apparentemente in contraddizione

con DAMA. Ma COSINE-100 e ANAIS sono i primi progetti

attivi che mirano a testare le affermazioni di DAMA usando

gli stessi materiali, ed entrambi sono operativi da più di un anno.

ANAIS nel Laboratorio sotterraneo Canfranc nei Pirenei, in

Spagna, ha riferito i suoi primi risultati l'11 marzo.

Sulla base di 18 mesi di dati, i risultati sembrano essere in

disaccordo con quelli di DAMA. I dati di ANAIS mostrano

fluttuazioni, ma non sono le stesse del ciclo annuale di DAMA

, in cui i segnali raggiungono il picco all'inizio di giugno e il

minimo all'inizio di dicembre.

Vicini ma non del tutto
Un altro esperimento che usa ioduro di sodio chiamato

COSINE-100, sotto una montagna in Corea del Sud, ha svelato

un'analisi simile di a quella di ANAIS nel corso di conferenze

di questo mese. Anche questo rivelatore vede una fluttuazione

nei suoi dati. Tuttavia, "la nostra è un po' più vicina a quella

di DAMA", afferma Reina Maruyama, co-coordinatrice di

COSINE-100 e fisica della Yale University. (I risultati sia

di ANAIS sia di COSINE-100 sono ancora preliminari e

non sono stati ancora sottoposti a peer review).

Quel segnale di materia oscura che non si riesce a replicare

Un momento della preparazione del rivelatore DAMA/LIBRA

presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso. (Credit: DAMA-LIBRA

Collaboration/LNGS-INFN)L'analisi di ANAIS non ha "alcun impatto"

sui risultati di DAMA/LIBRA e dei suoi predecessori: i dati sono

già stati confermati in oltre 20 cicli annuali indipendenti, afferma

Rita Bernabei, fisica dell'Università di Roma Tor Vergata che ha

guidato a lungo la collaborazione DAMA.

Anche se un esperimento dovesse trovare prove forti contro il

risultato di DAMA/LIBRA, per molti rivelatori sarebbe utile

continuare a raccogliere dati per diversi anni, dice Collar:

"Quando un esperimento sta vedendo una cosa come questa e un

altro no, ci si chiede se qualcuno ha sbagliato".

I ricercatori concordano sul fatto che saranno necessari anni di

registrazione dei dati da più esperimenti per sistemare veramente

la questione. "Con qualche anno in più di dati, dovrebbero essere

in grado di fare una dichiarazione definitiva", spiega David Spergel,

il cosmologo che per primo nel 1986 ha previsto l'oscillazione

stagionale con due colleghi.

La portavoce di ANAIS Marisa Sarsa, che è anche una fisica

dell'Università di Saragozza, in Spagna, afferma che qualunque

sia l'esito finale, il suo esperimento dovrebbe aiutare a spiegare

che cosa ha causato il segnale stagionale al Gran Sasso.

"Ho il desiderio di capire DAMA/LIBRA - dice - non solo per

escludere il risultato".

(L'originale di questo articolo è stato 

pubblicato su "Nature" il 19 marzo 2019. Traduzione ed editing

a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata,

tutti i diritti riservati)

 
 
 

Nuovi neuroni crescono anche nel cervello adulto

Post n°2055 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

27 marzo 2019

Nuovi neuroni crescono anche nel cervello adulto

Uno studio appena pubblicato aggiunge altre prove alla

nascita di nuovi neuroni nel cervello umano adulto anche

in età avanzata, suggerendo che la perdita di questa capacità

possa essere un indicatore precoce della malattia di

Alzheimerdi Karen Weintraub/Scientific American

neuroscienzememoriadisturbi mentali

Se il centro della memoria del cervello umano potesse far

crescere nuove cellule, sarebbe in grado di aiutare le persone

a riprendersi dalla depressione e dal disturbo da stress

post traumatico (PTSD), ritardare l'insorgenza dell'Alzheimer,

approfondire la nostra comprensione dell'epilessia e offrire

nuove conoscenze sulla memoria e sull'apprendimento.

Altrimenti, beh, è solo un'altra cosa in cui le persone sono

diverse dai roditori e dagli uccelli.

Per decenni, gli scienziati hanno discusso sulla possibilità

della nascita di nuovi neuroni - chiamata neurogenesi -

in un'area del cervello responsabile dell'apprendimento, della

memoria e della regolazione dell'umore.

Un numero crescente di ricerche ha suggerito questa possibilità,

ma poi l'anno scorso 

un articolo su "Nature" aveva sollevato alcuni dubbi.

Nuovi neuroni crescono anche nel cervello adulto

Illustrazione di neuroni interconnessi (Science Photo Library RF/AGF)

Ora, un nuovo studio pubblicato nei giorni scorsi su "Nature Medicine"

, riporta l'equilibrio verso il sì. Alla luce di nuovi dati, "direi che c'è

una prova schiacciante della neurogenesi lungo tutta la vita negli

esseri umani", ha scritto in una e-mail Jonas Frisén, professore del

Karolinska Institute, in Svezia, che firma con altri 

un commento allo studio sull'ultimo numero della stessa rivista.

Non tutti sono rimasti convinti. Arturo Alvarez-Buylla era

l'autore senior dell'articolo di "Nature" dell'anno scorso che ha

messo in dubbio l'esistenza della neurogenesi.

Alvarez-Buylla, professore di neurochirurgia dell'Università

della California a San Francisco, dichiara di dubitare ancora

che dopo l'infanzia nell'ippocampo si sviluppino nuovi neuroni.

"Non penso che questo risolva tutto", dice.

"Ho studiato la neurogenesi adulta per tutta la vita.

Vorrei poter trovare negli esseri umani un posto dove avvenga

in modo convincente".

Alcuni ricercatori hanno pensato per decenni che i circuiti

cerebrali dei primati, esseri umani compresi, sarebbero rimasti

troppo sconvolti dalla crescita di un numero considerevole

di nuovi neuroni. Alvarez-Buylla ritiene che il dibattito

scientifico sull'esistenza della neurogenesi dovrebbe continuare.

"La conoscenza di base è fondamentale.

Il solo sapere se i neuroni adulti vengono sostituiti è un problema

fondamentale e affascinante", ha detto.

Le nuove tecnologie in grado di localizzare le cellule nel c

ervello vivente e misurare l'attività individuale delle cellule,

nessuna delle quali è stata utilizzata nello studio di "Nature

Medicine", potrebbero porre fine a qualsiasi domanda

ancora aperta.

Un certo numero di ricercatori ha elogiato il nuovo studio

come ponderato e condotto in modo attento.

È un "tour de force tecnico" e affronta le questioni sollevate

dall'articolo dell'anno scorso, afferma Michael Bonaguidi,

assistente professore alla Keck School of Medicine della

University of Southern California.

I ricercatori spagnoli hanno testato vari di metodi per

conservare il tessuto cerebrale prelevato da 58 persone appena

decedute, scoprendo che metodi di conservazione diversi

portavano a conclusioni differenti sul possibile sviluppo di

nuovi neuroni nel cervello adulto e in età avanzata.

Il tessuto cerebrale deve iniziare il processo di conservazione

entro poche ore dopo la morte e per preservarlo occorre

utilizzare specifiche sostanze chimiche, altrimenti le proteine

che identificano le cellule appena sviluppate andranno

distrutte, spiega Maria Llorens-Martin, autore senior dell'articolo.

Altri ricercatori hanno perso la presenza di queste cellule,

perché il loro tessuto cerebrale non era conservato

accuratamente, dice Llorens-Martin, neuroscienziato

dell'Università Autonoma di Madrid in Spagna.

Jenny Hsieh, professore all'Università del Texas di San

Antonio che non era coinvolta nella nuova ricerca, ha detto

che lo studio fornisce una lezione a tutti gli scienziati che

si affidano alla generosità delle donazioni cerebrali.

"Se e quando andiamo a osservare qualcosa postmortem

in un essere umano, dobbiamo essere molto attenti a questi

problemi tecnici".

Nuovi neuroni crescono anche nel cervello adulto

Localizzazione nell'ippocampo nel cervello umano

(Science Photo Library RF/AGF)Llorens-Martin ha detto

di aver iniziato a raccogliere e conservare con cura i campioni

di cervello nel 2010, quando si è resa conto che molti cervelli

conservati nelle banche del cervello non erano stati preservati

adeguatamente per quel tipo di ricerca.

Nel loro studio, lei e i suoi colleghi hanno esaminato il cervello

di persone che sono morte con la loro memoria intatta e quello

di persone decedute in diversi stadi della malattia di Alzheimer.

Hanno scoperto che il cervello delle persone con Alzheimer

mostrava pochi o nessun segno di nuovi neuroni nell'ippocampo,

con sempre meno segni via via che le persone erano avanti nella

progressione della malattia.

Questo suggerisce che la perdita di nuovi neuroni - se potesse

essere rilevata nel cervello vivente - sarebbe un indicatore

precoce dell'insorgenza dell'Alzheimer e che promuovere

nuova crescita neuronale potrebbe ritardare o prevenire

la malattia.

Rusty Gage, presidente del Salk Institute for Biological

Studies dove è anche neuroscienziato e docente, afferma

di essere rimasto colpito dall'attenzione ai dettagli dei ricercatori.

"Dal punto di vista metodologico, la ricerca fissa gli standard

per gli studi futuri", dice Gage, che non era coinvolto nella

nuova ricerca, ma nel 1998 era l'autore senior di un articolo

che ha trovato le prime prove della neurogenesi.

Gage dice che questo nuovo studio risponde alle questioni

sollevate dalla ricerca di Alvarez-Buylla.

"Dal mio punto di vista, questo mette a tacere quel contrattempo

che si è verificato", dice. "Questo articolo, in modo molto bello.

.. valuta sistematicamente tutti i problemi universalmente

considerati molto importanti."

La neurogenesi nell'ippocampo è importante, dice Gage, perché

le prove negli animali dimostrano che è essenziale per la separazione

dei pattern, "consentendo a un animale di distinguere tra due

eventi strettamente associati l'uno all'altro".

Negli esseri umani, aggiunge, l'incapacità di distinguere tra due

eventi simili potrebbe spiegare perché i pazienti con sindrome

da stress post traumatico continuano a rivivere le stesse

esperienze, anche se le circostanze sono cambiate.

Inoltre, molti deficit osservati nelle prime fasi del declino cognitivo

sono simili a quelli osservati negli animali la cui neurogenesi

è stata fermata, dice.

In animali sani, la neurogenesi promuove la capacità di recupero

in situazioni stressanti, dice Gage.

Anche i disturbi dell'umore, inclusa la depressione, sono stati collegati

alla neurogenesi.

Nuovi neuroni crescono anche nel cervello adulto

Microfotografia in fluorescenza di neuroni dell'ippocampo

(Science Photo Library RF/AGF)Hsieh afferma che la sua ricerca

sull'epilessia ha scoperto che i neuroni appena formati si

interconnettono in modo scorretto, interrompendo i circuiti

cerebrali e causando convulsioni e potenziali perdite di memoria.

Nei roditori con epilessia, i ricercatori prevengono le convulsioni

se impediscono la crescita anormale di nuovi neuroni, dice Hsieh,

il che le dà speranza che qualcosa di simile possa un giorno aiutare

i pazienti umani. L'epilessia aumenta il rischio di Alzheimer,

depressione e ansia in alcuni casi, dice.

"Quindi, è tutto collegato in qualche modo.

Crediamo che i nuovi neuroni svolgano un ruolo vitale nel

collegare tutti questi pezzi".

Nei topi e nei ratti, i ricercatori possono stimolare la crescita

di nuovi neuroni facendo in modo che i roditori facciano più

esercizio o fornendo loro ambienti più stimolanti dal punto

di vista cognitivo e sociale, dice Llorens-Martin.

"Questo non potrebbe essere applicato a stadi avanzati della

malattia di Alzheimer.

Ma se potessimo agire in fasi precedenti in cui la mobilità

non è ancora compromessa", dice," chissà, forse potremmo

rallentare o prevenire parte della perdita di plasticità del cervello".

(L'originale di questo articolo è stato 

pubblicato su "Scientific American" il 25 marzo 2019. 

Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione

autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 

L'influenza culturale sui suoni delle lingue

Post n°2054 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

14 marzo 2019

L'influenza culturale sui suoni delle lingue


Antichi cambiamenti nella dieta - in particolare la diffusione

dell'agricoltura e di alimenti ben cotti - hanno influito sulla

diffusione nelle lingue di alcuni suoni consonantici, come

quelli delle consonanti "f" e "v"

linguaggioantropologiaI suoni presenti nelle lingue sono

stati in parte plasmati da cambiamenti nella biologia umana

indotti a loro volta da cambiamenti culturali, e in particolare

da modificazioni nella dieta.

E' la la conclusione a cui è giunto un gruppo internazionale

di linguisti e antropologi coordinati da Damian E. Blasi

dell'Università di Zurigo, che firmano un articolo 

pubblicato su "Science".

Secondo la teoria prevalente, le strutture fonatorie che

permettono il linguaggio umano si sarebbero formate in

coincidenza con l'emergere diHomo sapiens,

circa 300.000 anni fa, e sarebbero rimaste immutate da allora.

Questa ricostruzione non spiega però il fatto che i suoni

presenti nelle diverse lingue sono tutt'altro che uniformi.

Alcuni di essi si ritrovano pressoché in tutte le lingue,

come le vocali di base e consonanti come la "m", ma

svariate consonanti - come la "f" e "v" - pur essendo

molto diffuse nelle lingue moderne, lo sono molto meno

in altre lingue, e altre ancora, come i "click"

(ottenuti facendo schioccare la lingua contro il palato) sono

presenti solo in alcune etnie dell'Africa meridionale e orientale.

L'influenza culturale sui suoni delle lingue

L'uso di modelli biomeccanici ha mostrato come la produzione

di suoni come la "f" sia facilitato dall'assetto delle strutture

orofacciali che si sviluppo in seguito all'abitudine di consumare

cibi morbidi (a sinistra) rispetto a quello favorito da cibi più

duri e resistenti. (Cortesia Scott Moisik)Blasi e colleghi hanno

ripreso un'ipotesi avanzata nel 1985 dal linguista Charles F.

Hockett, che aveva osservato come le cosiddette consonanti

labiopalatali - come "f" e "v" - fossero molto più frequenti

nelle lingue di popolazioni che avevano accesso a una dieta

a base di cibi più morbidi.
Attraverso una serie di misurazioni delle strutture mascellari

e mandibolari di crani di varia epoca e origine geografica e di

simulazioni biomeccaniche di diverse strutture orofacciali

umane, i ricercatori hanno ora fornito una conferma di questa

ipotesi, ma individuando un meccanismo di modificazione

delle strutture fonatorie più complesso di quello originariamente

suggerito da Hockett.
Via via che i frutti della caccia e della raccolta riducevano la

loro presenza nella dieta, spiegano i ricercatori, e l'introduzione

della ceramica rendeva possibile cottura accurata dei cibi, la

forza da imprimere con il morso - e quindi la sua importanza

- diminuiva.
Un morso potente però aiuta a mantenere anche da adulti

una posizione sostanzialmente allineata dei denti superiori

e inferiori, quale quella che si presenta nei bambini.

Di fatto, la perdita dell'abitudine a dare morsi potenti per

incidere e strappare gli alimenti determina un leggero

avanzamento dei denti dell'arcata superiore rispetto a quelli

dell'arcata inferiore.

Questo facilita notevolmente l'emissione dei suoni labiopalatali,

che vengono prodotti sfiorando o toccando con il labbro

inferiore i denti superiori, e quindi la loro diffusione in

una lingua. (red)

 
 
 

Sempre più complessa la genetica della schizofrenia

Post n°2053 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Sempre più complessa la genetica della schizofrenia

Uno studio sui genomi di oltre 100.000

soggetti ha individuato ben 413 associazioni

tra varianti geniche e sviluppo della schizofrenia.

La correlazione non riguarda solo varianti

anomale nei geni ma anche nei livelli di espressione

di quei geni in 13 regioni cerebrali, modificando

36 percorsi metabolici in atto nel cervello dal

periodo prenatale fino all'età adulta

disturbi mentaligenetica

Ben 413 associazioni fra variazioni genetiche e

sviluppo della schizofrenia sono state individuate

da uno studio condotto da un amplissimo gruppo

internazionale di ricercatori - a cui hanno

partecipato fra gli altri lo Schizophrenia Working

Group of the Psychiatric Genomics Consortium e

il CommonMind Consortium - che illustrano i loro

risultati su "Nature Genetics" in un articolo a

prima firma Laura M. Huckins della Icahn School

of Medicine at Mount Sinai, a New York.

Sempre più complessa la genetica della schizofrenia

Photo Library / AGFNonostante le intense ricerche

condotte in anni recenti, le basi genetiche della

schizofrenia sono ancora poco conosciute: il numero

di geni coinvolti nella sua genesi è infatti progres-

sivamente cresciuto e si sono accumulate prove

che alla sua insorgenza concorre anche il livello di

espressione espresso da quei geni in diverse aree

cerebrali e in diversi momenti della vita.

Per sbrogliare questa intricata matassa Huckins e

colleghi hanno condotto uno studio che ha messo

in relazione i risultati di ricerche genetiche genome

wide (GWAS) e di ricerche di trascrittomica.

Gli studi GWAS esaminano le differenze in vari punti

di un codice genetico per vedere se una variazione

è più frequente nelle persone con un tratto particolare

(in questo caso la schizofrenia).

Nello studio sono stati esaminati i genomi di oltre

100.000 persone: 40.299 persone con schizofrenia

e e 62.264 controlli sani. Gli studi di trascrittomica

analizzano invece i livelli di migliaia di filamenti di RNA

messaggero di ciascun soggetto, al fine di risalire ai

livelli di espressione dei diversi geni nelle diverse

regioni cerebrali.

Questi studi, che generano una mole immensa di

dati, permettono di ottenere dati significativi solo

grazie al ricorso ad algoritmi di apprendimento

profondo.

L'analisi ha così condotto all'identificazione di 413

associazioni con la schizofrenia, che coinvolgono

256 geni attivi in 13 regioni cerebrali distinte, e una

serie di livelli di espressione anomala di quei geni

che alterano 36 percorsi metabolici all'interno del

cervello.

Un numero particolarmente elevato di varianti

geniche e di livelli di espressione alterati correlati

alla malattia interessano la corteccia prefrontale

dorsolaterale.

I ricercatori hanno anche scoperto che i geni associati

alla schizofrenia sono espressi nel corso di tutto lo

sviluppo, anche se alcuni mostrano anomalie di

espressione prevalentemente durante specifiche

fasi della gravidanza, e altri durante l'adolescenza

o l'età adulta. (red)Tweet

 
 
 

L'ippocampo e le associazioni che aiutano a imparare

Post n°2052 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

07 marzo 2019

L'ippocampo e le associazioni che aiutano a imparare

La regione cerebrale dell'ippocampo,

che sovraintende alla memoria episodica,

conserva una traccia di memoria per

ciascuno dei singoli elementi dell'ambiente

e una traccia distinta per la caratteristica

che li accomuna.

La scoperta potrebbe spiegare come fa

il cervello a formare associazioni tra

oggetti ed eventi, un passaggio fondamentle

per i processi di apprendimento

memorianeuroscienze

Un cane sente il suono di un campanello subito

prima di ricevere il pasto.

Se i due eventi saranno ripetuti insieme per

molte volte, alla fine l'animale inizierà a salivare

tutte le volte che ascolta il suono del campanello.

È lo schema del famoso esperimento del

fisiologo russo Ivan Pavlov sul condizionamento

delle risposte comportamentali, uno dei

fondamenti della moderna psicologia sperimentale.

Ma associare tra loro stimoli diversi non è certo

una prerogativa dei cani; tutti gli animali

stabiliscono continuamente collegamenti

tra gli eventi, in un processo di apprendimento

fondamentale per la sopravvivenza: associano

un colore a un frutto velenoso o un odore

alla presenza di un predatore. 

L'ippocampo e le associazioni che aiutano a imparare

Sezione del cervello umano: è visibile in verde,

la caratteristica forma dell'ippocampo

(Science Photo Library / AGF) I ricercatori dell'Arizona

State University e della Stanford University, che

riferiscono i loro risultati in

 un articolo su "Nature Communications",

hanno ora scoperto uno schema di attivazione

dell'ippocampo - una regione cerebrale

importante per la memoria episodica, cioè legata

all'esperienza di tutti i giorni - che spiegherebbe

come si formano queste associazioni.

L'ipotesi di partenza è che il cervello abbia un

meccanismo di base che consente in qualche

modo di tenere una traccia di memoria sia degli

elementi distinti sia della loro combinazione.

Gli autori hanno sottoposto un gruppo di volontari

ad alcuni test di associazione di stimoli,

analizzandone nel frattempo il cervello con la

risonanza magnetica funzionale (fMRI), che

consente di visualizzare le aree cerebrali attive

mentre un soggetto è impegnato in un compito. 

Esaminando gli schemi di attività del cervello, hanno

messo a confronto l'ippocampo con altre aree

cerebrali che potrebbero contribuire ai processi

di apprendimento, come la corteccia paraippocampale,

 la corteccia peririnale, il solco frontale inferiore e la

corteccia orbitofrontale mediale.

Hanno così scoperto che l'ippocampo era l'unica

area che rappresentava le immagini dello stimolo 

associate tra loro. Per esempio, quando si trattava

di un volto e di una casa, l'ippocampo mostrava

una traccia per il volto, una per la casa e una

terza traccia - distinta dalle prime due - per

l'associazione volto-casa.

Gli autori hanno cercato anche le possibili

connessioni dell'ippocampo con altre regioni

cerebrali durante il test, scoprendo un importante

collegamento con lo striato, che si attiva quando

il soggetto cerca di prevedere gli esiti di una

situazione sulla base dei dati disponibili.

Secondo i ricercatori, questi dati indicano che

l'ippocampo raccoglie informazioni su combinazioni

di caratteristiche di oggetti ed eventi, inviandole

poi allo striato, che le utilizza per i suoi compiti.

"È importante ricordare che il cervello è una

struttura interconnessa, con parti diverse che

lavorano insieme per produrre le nostre

impressionanti capacità mentali", ha spiegato

Samuel McClure, autore senior dell'articolo. (red)

 
 
 

La nuova funzione del sonno

Post n°2051 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Il sonno ha una funzione specifica e importantissima

all'interno di ciascun neurone: permette la riparazione

dei danni al DNA che si accumulano durante la veglia.

La scoperta, ottenuta studiando i cromosomi di un

piccolo pesce, potrebbe spiegare come mai il sonno

è così essenziale per tutti gli organismi con un

sistema nervoso - compresi noi esseri umani

sonnoneuroscienzebiologia

Dai vermi alle meduse, dalle mosche agli esseri umani.

Tutti gli organismi con un sistema nervoso dormono,

compresi noi, che dedichiamo al sonno circa un terzo

della nostra vita.

Ma a cosa serve esattamente un comportamento che

si è conservato così stabilmente nel corso dell'evoluzione,

nonostante abbia alcuni svantaggi, come essere esposti

all'attacco dei predatori?

In un nuovo studio pubblicato su "Nature Communications" 

e condotto su Danio rerio, o pesce zebra, un modello

animale molto usato in biologia, ricercatori dell'Università

Bar-Ilan, in Israele, rivelano ora una funzione essenziale

del sonno, che si svolge al livello dei singoli neuroni.

Utilizzando tecniche di imaging 3D con una risoluzione

di un cromosoma, gli autori sono infatti riusciti a dimostrare

per la prima volta che i neuroni hanno bisogno del sonno

per eseguire la "manutenzione" del DNA che si trova

nel loro nucleo.

Il DNA può essere danneggiato sia da processi chimico

-fisici, come radiazioni e stress ossidativo, sia processi

biologici, come l'attività del neurone stesso.

All'interno di ogni cellula, tuttavia, ci sono sistemi

specificamente dedicati alla correzione di questi danni.

Scoperta una nuova funzione del sonno

Nell'immagine, dinamica dei cromosomi (in verde) in un

singolo neurone  (in rosso, nella casella tratteggiata) di

una larva di pesce zebra (David Zada/ Bar-Ilan University)

Gli autori hanno osservato il movimento del cromosoma -

l'insieme di DNA e proteine visibili in alcune fasi del

nucleo cellulare - all'interno dei nuclei dei neuroni di alcuni

esemplari di Danio rerio mentre i pesci erano svegli o

addormentati.

Hanno così rilevato che i cromosomi sono meno attivi

di giorno, quando il danno al DNA si accumula

costantemente e può raggiungere livelli pericolosi.

Viceversa, sono più attivi di notte, quando il corpo

riposa, e questa maggiore attività si associa a una

maggiore efficienza della riparazione dei danno al DNA.

Il processo di manutenzione del DNA, quindi, durante

la veglia non è abbastanza efficiente e ha bisogno di

un periodo di sonno, durante il quale il cervello riceve

un numero di stimoli limitato. "È un po' come una

strada piena di buche", ha spiegato Lior Appelbaum,

che ha guidato lo studio. "Le strade accumulano 

segni di usura, specialmente durante il giorno nelle

ore di punta, ed è più comodo ed efficiente sistemarle

di notte, quando c'è poco traffico".

Appelbaum chiama l'accumulo di danni al DNA il "

prezzo della veglia", ipotizzando, insieme a David Zada,

primo autore dello studio, che il sonno consolidi e sincronizzi

la manutenzione del nucleo all'interno dei singoli neuroni.

"Nonostante il rischio di una ridotta consapevolezza

ambientale, gli animali devono dormire per permettere

ai loro neuroni di eseguire una manutenzione efficiente

del DNA, e questo è probabilmente il motivo per cui 

il sonno si è evoluto ed è così conservato nel regno

animale ", ha concluso. (red) 

 
 
 

Dal canto dei criceti alle conversazioni umane

Post n°2050 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

01 marzo 2019

Dal canto dei criceti alle conversazioni umane

I roditori della specie Scotinomys teguina 

si esibiscono in caratteristici duetti per il

controllo del territorio, alternandosi nel

canto.

Il comportamento è possibile grazie a

due regioni cerebrali distinte, una

scoperta che potrebbe servire a capire

meccanismi analoghi che regolano le

conversazioni tra esseri umani(red)

linguaggioneuroscienze

I maschi di Scotinomys teguina, una

specie di criceti diffusa in Costarica,

hanno un comportamento singolare.

Quando si affrontano per il controllo

del territorio, due maschi ingaggiano

una sorta di "duetto" cantato che

segue uno schema ritualizzato:

il criceto che viene sfidato reclama la

sua posizione con una vocalizzazione.

Lo sfidante inizia il suo canto solo

dopo che il primo criceto ha finito, e

così via, in rapidissima successione.

Gli studiosi di neuroscienze hanno

cercato di capire in che modo questi

roditori controllano i muscoli che

consentono le vocalizzazioni e come

tengono conto di quando devono emetterle,

in rapida alternanza con l'avversario. 

Uno studio pubblicato su "Science" 

da Michael Long della New York University

ha concluso che i duetti forniscono preziose

indicazioni sulle regioni cerebrali che

sovraintendono agli scambi di vocalizzazioni

in tutti i mammiferi, compresi gli esseri umani.

Dal canto dei criceti alle conversazioni umane

Un esemplare della specie Scotinomys

teguina (Credit: NYU School of Medicine)

 Analizzando i tracciati elettromiografici,

che misurano i segnali elettrici generati

dal cervello per produrre contrazioni

muscolari, i ricercatori hanno scoperto che

per i duetti canori dei criceti erano

necessarie aree cerebrali distinte della

corteccia motoria: una per il controllo

della vocalizzazione e una per sapere

quand'è il proprio turno nelle rapidissime

serie di interruzioni e riprese delle vocaliz-

zazioni.

"Separando i circuiti cerebrali che

controllano la produzione dei suoni da

quelli che ne controllano il ritmo negli

scambi con altri individui, l'evoluzione

ha dotato il cervello di questi roditori

canterini di un raffinato controllo vocale

osservato anche nel frinire dei grilli, nei

duetti degli uccelli, e forse anche nelle

conversazioni umane", ha sottolineato

Arkarup Banerjee, coautore dello studio.

Il collegamento con gli esseri umani è 

ancora speculativo, ma le analogie con

quanto avviene negli animali sono

significative, perché il nostro cervello riesce

a generare risposte verbali istantanee

utilizzando centinaia di muscoli.

Grazie a questo tipo di modelli animali, i

ricercatori sperano di acquisire informazioni

anche per trovare terapie per i deficit del

linguaggio e della fonazione, come quelli

tipici dell'autismo o delle conseguenze

di un ictus, o di quelli carattieristici di altri

disturbi psichici.

 
 
 

Una morale per le macchine

Post n°2049 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Una morale per le macchine

 

L'editoriale del n.171 di Mind, in edicola

il 27 febbraio 2019di Marco Cattaneo

Era il 1950 quando Isaac Asimov pubblicava

una raccolta dei suoi racconti di fantascienza.

La intitolò Io, robot, e nel racconto Essere

razionale comparivano per la prima volta in

forma compiuta le tre leggi della robotica.

Aveva iniziato a elaborarle negli anni

quaranta, e alla fine, nella loro versione

originale, suonavano così:

1) un robot non può recare danno a

un essere umano né può permettere

che, a causa del proprio mancato intervento,

un essere umano subisca un danno;

2) un robot deve obbedire agli ordini

impartiti dagli esseri umani, purché

questi ordini non contravvengano alla

prima legge;

3) un robot deve proteggere la propria

esistenza, purché questa autodifesa

non contrasti con la prima o con la seconda

legge.

Per quanto affascinanti, le tre leggi di

Asimov sono un tantino ingenue, o

perlomeno semplicistiche.

La nostra etica è indubbiamente governata

da principi più complessi e flessibili.

Ma d'altra parte quando Asimov scriveva le

sue leggi l'informatica stava muovendo i

primi passi, i computer erano giganteschi

macchinari che occupavano intere stanze e

l'intelligenza artificiale non era ancora stata

inventata, almeno come espressione.

Fu coniata nel 1956, da John McCarthy, nel

convegno del Dartmouth College che viene

considerato l'atto di fondazione di questa

nuova scienza.

A settant'anni di distanza da quelle primitive

regole, però, è ora di fare sul serio.

Perché - come dice Pedro Domingos, citato

da Stefania De Vito a p. 92 - siamo preoccupati

che i computer possano diventare tanto

intelligenti da conquistare il mondo, «ma il

problema vero è che i computer sono ancora

troppo stupidi, e hanno già conquistato il mondo».

Abbiamo computer dappertutto, e le applica-

zioni di intelligenza artificiale stanno diventando

pervasive. Ma robot e computer prendono le

decisioni sulla base delle informazioni che

apprendono, perciò i dati con cui sono alimentati

sono importanti almeno quanto gli algoritmi.

E i dati che vengono forniti alle macchine

partendo dai grandi numeri della rete e dei

social network risentono degli stessi pregiudizi,

delle stesse distorsioni, degli stessi stereotipi

diffusi tra gli esseri umani.

Lo hanno sperimentato colossi del digitale

come Google e Amazon, rilevando che le

banche dati tendono a sovrarappresentare

individui bianchi e di sesso maschile.

E chi l'avrebbe mai detto...

Quanto sia complicato istruire un computer

a prendere decisioni lo si capisce, per esempio,

quando si pensa all'introduzione sul mercato

delle auto a guida autonoma.

E a quei test in cui si chiede alle persone di

scegliere chi «sacrificare» in caso di incidente i

nevitabile. Tra i molti esperimenti condotti in

questo campo, De Vito ne ricorda uno

illuminante, pubblicato su «Science» nel 2016. 

Ai partecipanti si chiedeva se, in vista di un

incidente imminente, l'auto dovesse proseguire

e investire numerose persone o sterzare,

andando contro un muro e sacrificando il passeggero.

La risposta, nella maggior parte dei casi,

era scontata:

un'auto dovrebbe salvaguardare il maggior

numero di vite umane possibile, e dunque

uccidere il passeggero. Ma c'è un problema.

Probabilmente nessuno acquisterebbe

un'automobile programmata per ucciderlo,

nemmeno sapendo che si tratta di

un'eventualità rarissima.

Nel bene e nel male, la nostra morale si è

evoluta per decine di migliaia di anni con

il mutare del tessuto sociale, e tuttavia

rimane incerta, fluida, contraddittoria.

Quanto siamo sicuri di affidare a una macchina

questioni di vita o di morte? 

 
 
 

Nella mente di un verme per capire i blocchi di memoria

Post n°2048 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

20 febbraio 2019

Nella mente di un verme per capire i blocchi di memoria

Un particolare fenomeno, chiamato

blocco di memoria, che si manifesta

nei processi di apprendimento, non

è dovuto a un problema nel meccanismo

di formazione dei ricordi, quanto piuttosto

a un'incapacità di recuperarli.

Lo ha stabilito un nuovo studio

sperimentale condotto su C. elegans,

un piccolo verme con sole 302 cellule

nervose(red)

memoriaapprendimento

Gli studiosi lo chiamano blocco di memoria,

o blocco di Kamin.

Si verifica quando un animale che ha

già imparato a rispondere a un input

percettivo, per esempio un suono, in

seguito non riesce ad apprendere a

rispondere a un input di tipo diverso,

come un lampo di luce, se questo

viene presentato insieme al primo.

Si tratta di un meccanismo fondamentale

per il processo di apprendimento

dall'esperienza, in cui ha un ruolo

centrale la presenza di un effetto

sorpresa.

Ora uno studio pubblicato sulla rivista "Scientific Reports" 

da Derek van der Kooy e colleghi

dell'Università di Toronto, in Canada,

ha scoperto che questo blocco non è

dovuto a un problema nel meccanismo

di formazione dei ricordi, quanto piuttosto

a un'incapacità di recuperarli.

Il risultato è stato ottenuto studiando 

Caenorhabditis elegans, un piccolo verme

lungo solo un millimetro, che rappresenta

uno degli organismi più utilizzati nei

laboratori di biologia, per la sua semplicità:

il suo sistema nervoso è formato da 302

cellule nervose, la cui posizione è nota con

certezza.

Nella mente di un verme per capire i blocchi di memoria

Per studiare il blocco di memoria in C. elegans,

van der Kooy e colleghi hanno utilizzato due

sostanze: il sale e la benzaldeide, che conferisce

alle mandorle il loro caratteristico sapore.

Normalmente i vermi sono attratti da queste

due sostanze, ma gli autori ne hanno

addestrato alcuni a sviluppare una forte

avversione al sapore del sale o all'odore

della benzaldeide. Hanno poi mostrato che

l'avversione per ciascuna di esse poteva

essere soppressa presentandole insieme

nell'ambiente intorno a verme.

Approfondendo a livello biochimico il processo,

hanno evidenziato che il ricordo dell'avversione

della benzaldeide, per esempio, si era formato,

ma non poteva essere recuperato:

il verme l'aveva dimenticato.

"Questo dato è molto interessante perché

contraddice la classica interpretazione del

blocco, in cui si ritiene che un elemento di

sorpresa sia necessario perché venga

disturbata la seconda associazione", ha

spiegato Daniel Merritt, primo autore

dell'articolo. "I nostri dati mostrano che la

memoria si forma ma è l'espressione di un

comportamento che è soppresso in qualche

modo".

L'effetto del blocco dura circa quattro ore.

Cosa succede nella mente del verme durante

quel tempo?

"Questa è la grande domanda", ha risposto

Merritt, che ora sta lavorando per scoprire parti

del cervello dei vermi che aiutano a integrare le

risposte di apprendimento del sale e della

benzaldeide.

"Essere in grado di descrivere appieno i

cambiamenti molecolari che stanno avvenendo

nella memoria è decisamente affascinante, ma

la memoria umana è troppo effimera e nebulosa

per poter fissare qualcosa", ha concluso il ricercatore.

"Studiandolo nei vermi, stiamo davvero facendo

molti progressi nel capire esattamente cosa sta

succedendo quando i ricordi sono formati e

recuperati, con un approccio molecola per molecola".

 
 
 

Il midollo spinale è più "intelligente" del previsto

Post n°2047 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

12 febbraio 2019

Il midollo spinale è più

Un nuovo studio ha scoperto che il midollo

spinale elabora direttamente i segnali

neurali necessari per controllare il movimento

delle mani. La scoperta smentisce l'idea che

questa parte del sistema nervoso serva quasi

esclusivamente a trasferire i segnali neurali

tra il cervello e la periferia del corpo(red)

neuroscienzefisiologia

Il midollo spinale, la porzione del sistema

nervoso che esce dalla scatola cranica e

corre lungo la colonna vertebrale, è stata

considerata finora poco più di una lunga

"autostrada" di collegamento, incaricata

di trasmettere gli impulsi nervosi che partono

dall'encefalo e arrivano alle zone periferiche

dell'organismo, e viceversa.

Un nuovo studio pubblicato su "Nature Neuroscience"

 ha dimostrato invece che il midollo spinale

ha un ruolo molto più "intelligente", perché

è in grado anche di elaborare e controllare

funzioni motorie complesse, per esempio

come mettere una mano in una certa posizione

nello spazio.

Il midollo spinale è più

Questo tipo di controllo delle mani richiede

la raccolta di stimoli sensoriali che arrivano

da diverse articolazioni, essenzialmente

dal gomito e dal polso, stimoli che finora

si pensava fossero elaborati e convertiti

in comandi motori a livello della corteccia

cerebrale.

Il risultato è emerso da una sperimentazione

di laboratorio in cui alcuni soggetti hanno

indosato un esoscheletro robotico, in grado

di compiere movimenti nelle tre direzioni de

llo spazio. Ai volontari è stato poi chiesto

di mantenere la propria mano in una posizione

dello spazio predefinita.

L'esoscheletro robotico aveva il compito di

spostare il braccio da quella posizione, e

contemporaneamente di far flettere o estendere

la mano e l'avambraccio.

Nel frattempo, gli sperimentatori misuravano il

tempo impiegato dai muscoli del braccio per

rispondere ai movimenti dell'esoscheletro

riportando il braccio nella posizione predefinita.

Dal tempo di latenza dei movimenti e dei

relativi impulsi nervosi, sono riusciti a determinare

quale parte del processo si svolgesse nel

cervello o nel midollo spinale.

"Abbiamo scoperto che le risposte erano così 

rapide che non potevano che essere generate

dai circuiti dello stesso midollo spinale", ha

spiegato Jeff Weiler. "Ciò che si può osservare

è che questi circuiti midollari non si preoccupano

di ciò che si verifica nelle singole articolazioni,

ma solo di dove si trova la mano nello spazio

esterno e generano una risposta che cerca di

riportarla nella posizione iniziale".

La risposta nervosa di questo tipo era già nota,

ed è denominata riflesso di allungamento

(stretch reflex) ma si pensava che fosse molto

limitata in termini di ausilio al movimento.

"Si credeva che questo riflesso spinale agisse

solo per ripristinare la lunghezza del muscolo

nella situazione originale, qualunque cosa fosse

all'origine dell'allungamento", precisa Andrew

Pruszynski, autore senior dello studio.

"Ciò che abbiamo mostrato è che avviene qualcosa

di molto più complesso: un vero e proprio controllo

della mano nello spazio".

"Questo risultato mostra che almeno una funzione

importante viene elaborata a livello del midollo

spinale, e apre quindi la strada a un'intero campo

di nuove ricerche per cercare di capire che cosa

avviene realmente a livello spinale e che cosa

finora ci siamo persi", ha concluso il ricercatore.

 
 
 

Influenza sociale e percezione nell'autismo

Post n°2046 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

04 febbraio 2019

Influenza sociale e percezione nell'autismo

Un nuovo studio ha dimostrato che il

giudizio degli altri influenza le opinioni

e addirittura la percezione di una

persona già a partire dai 12 anni di

età, ma lo stesso non avviene nei

soggetti autistici(red)

autismocomportamentopercezione

Il giudizio degli altri condiziona le

opinioni di una persona, influenzandone

addirittura la percezione, già all'età di 12 anni.

Ma non quando è affetta da un disturbo

dello spettro autistico.

A scoprirlo è stato un nuovo studio

pubblicato sui "Proceedings of the National Academy of Sciences" 

da Kristine Krug dell'Università di Oxford,

nel Regno Unito, e colleghi di altri istituti

australiani e tedeschi.

La ricerca s'inserisce in un ampio ambito

di studi che riguardano l'influenza sociale

nella capacità di giudizio e di scelta dell'individuo,

iniziati con i pionieristici test dello psicologo

statunitense Solomon Asch.

Negli anni cinquanta, Asch  chiese ad alcuni

volontari di dire se un certo stimolo visivo

era comparso o no davanti ai loro occhi.

Dimostrò così che molto spesso i soggetti

tendevano a uniformarsi al giudizio degli altri,

anche se era sbagliato.

E non solo: alcuni di loro, messi di fronte

alle prove del loro errore, erano assolutamente

sicuri di aver percepito lo stimolo come

avevano detto.

Influenza sociale e percezione nell'autismoScience Photo Library / AGFNei decenni successivi

sono stati condotti centinaia di studi sullo

stesso fenomeno, e i loro risultati sono stati

interpretati secondo due filoni diversi.

Il primo è basato nell'ipotesi che il giudizio

degli altri influenzi il processo di elaborazione

delle informazioni ricavate dalla percezione

sensoriale; il secondo sull'idea che l'influenza

riguardi la  percezione stessa, perché per esempio

il soggetto tende a percepire selettivamente

solo gli stimoli che confermano l'opinione

della maggioranza.

In entrambi i casi, comunque, resta da stabilire

a che età si inizia a essere condizionati

dall'opinione degli altri, e in che modo la

tendenza sia presente in un disturbo

neuropsicologico come l'autismo, in cui la

comunicazione sociale è fortemente

compromessa.

Krug e colleghi hanno esaminato i dati

comportamentali di 125 bambini neurotipici

e 30 bambini autistici tra i 6 e i 14 anni,

sottoposti a un test di decisione percettiva

che prevede la discriminazione di figure

tridimensionali in movimento.

Ai soggetti è stato chiesto di partecipare

a una simulazione di volo su un'astronave.

I bambini dovevano prendere decisioni sulla

navigazione giudicando la direzione di

rotazione di alcuni buchi neri.

Prima di ogni decisione, ai bambini veniva

mostrato il video di un "consulente", che

poteva essere un bambino o un adulto.

Sia nel gruppo dei bambini autistici sia in

quello dei bambini neurotipici, in tutte le

fasce d'età, le decisioni sono risultate i

nfluenzate da alcuni elementi sensoriali,

come la percezione della profondità.

Le differenze tra i due gruppi sono emerse

sull'influenza dei consulenti.

Le decisioni dei bambini neurotipici tra i

12 e i 14 anni erano statisticamente spostate

nella direzione dell'opinione del consulente

- a riprova del fatto che l'influenza sociale

del giudizio emerge a quell'età - anche se 

aveva dato un consiglio sbagliato.

Lo stesso fenomeno non è invece emerso

nel gruppo di bambini autistici.

 
 
 

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