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Messaggi del 18/02/2020

Dalla Polonia preistorica.

Post n°2526 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

La guerriera "vichinga" che veniva dalla Polonia

I resti di una donna vissuta un migliaio di anni

fa e identificata come scandinava in scavi prece-

denti, appartengono in realtà a una migrante

slava. È stata la sua ascia a rivelarne la provenienza:

un'arma che forse non veniva usata in guerra.

guerriera-vichingaUna ricostruzione della tomba di Langeland.|

MIROS?AW KU?MA

Nella tomba che si pensava appartenere a una

guerriera vichinga riposerebbe invece, da oltre

mille anni, una donna di origine slava, nata in

un'area corrispondente all'odierna Polonia e poi

emigrata in Danimarca. Lo ha scoperto Leszek

Gardeła, archeologo del Dipartimento di Lingue

Scandinave dell'Università di Bonn (Germania)

analizzando uno scheletro femminile sepolto accanto

a un'ascia in un cimitero vichingo sull'isola danese di

Langeland, e ritrovato qualche anno fa.

Corredo e posizione avevano subito fatto

pensare a una vichinga in armi, incarnazione

del mito delle Valchirie (le semidee che volano

sui cambi di battaglia nella mitologia norrena,

e scelgono i guerrieri più valorosi da condurre

ad Odino).

Nessuno però aveva ancora osservato l'ascia

della guerriera, che a un'analisi più attenta si

è rivelata proveniente dal Baltico meridionale,

in una regione coincidente con la Polonia attuale.

Di origine slava è anche la tumulazione scelta,

una camera sepolcrale con all'interno un'ulteriore

bara.

Una moneta araba del decimo secolo inumata

con la donna è servita a datare la tomba.

 

L'analisi dell'ascia sepolta insieme alla donna. |

MIRA FRICKE

MELTING POT. 

La scoperta conferma che le popolazioni slave

e vichinghe furono a lungo strettamente collegate

da combattimenti, scambi migratori e relazioni

commerciali, e che la presenza di guerrieri slavi

in Danimarca fu - soprattutto in epoca medievale

- molto significativa.

Ma è anche un'ulteriore prova di quanto lo studio

delle donne guerriere in Scandinavia sia un campo

complesso e pieno di insidie.

STRUMENTO O ACCESSORIO?

 Non si può dire con certezza se le donne partecipas-

sero in modo attivo ai combattimenti, o se la

sepoltura con l'ascia non facesse invece parte

di rituali funebri condivisi.

Di rado le tombe femminili includono lance o frecce,

e le asce al loro interno sono spesso immacolate,

come se non fossero state usate in battaglia.

Allo stesso modo, è sempre possibile che nuovi

armi venissero forgiate apposta per i funerali,

o che le lame fossero semplicemente ben affilate.

 

QUESTIONI DI GENERE.

Inoltre, molto spesso le ossa sono mal conservate,

e l'attribuzione di una tomba a una donna avviene

soltanto osservando il suo corredo.

Lo stato precario di conservazione dei corpi rende

anche difficile capire se i guerrieri al loro interno

fossero morti in battaglia.

Non è il caso della donna slava, che sulle ossa ben

conservate non mostra ferite letali.

TRA MITO E REALTÀ.

 Oltre a tutto questo, l'influenza culturale dei miti

può portare a errate interpretazioni: libri e serie

TV hanno reso popolare la figura delle Amazzoni

nordiche, e questo mito delle vichinghe guerriere

non ha necessariamente riscontri archeologici.

Con una notevole eccezione - quella di un

misterioso combattente sepolto in Svezia accanto

a due cavalli sacrificati, uno scudo, una spada,

punte di freccia e altre armi: nel 2017, l'analisi del

DNA ha rivelato che si trattava di una donna.

 
 
 

Gli insediamenti dell'Africa preistorica.

Post n°2525 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

 

I primi insediamenti in quota della preistoria africana

Panorama delle Montagne di Bale, in

Etiopia (agefotostock/AGF) I nostri

antenati si adattarono a vivere a 4000

metri di altitudine già 45.000 anni fa,

nel pieno dell'ultima glaciazione.

Lo rivela l'analisi dei sedimenti del sito di

Fincha Abera, in Etiopia, indicando notevoli

capacità di adattamento all'ambiente

I nostri antenati africani si erano stabiliti

sulle montagne già nel periodo Paleolitico,

circa 45.000 anni fa, nel pieno dell'ultima

glaciazione.

Lo hanno scoperto Bruno Glaser, della

Martin Luther University Halle-Wittenberg

di Halle, in Germania, e colleghi di un'ampia

collaborazione internazionale, studiando

i resti preistorici delle Montagne di Bale,

in Etiopia.

Lo studio, descritto su "Science", fornisce

nuove informazioni sull'inizio degli insediamenti

preistorici in quota, in contrasto con le valuta

zioni fatte finora, che ritenevano più probabile

che gli insediamenti paleolitici fossero concentrati

a basse quote.

I dati indicano perciò una notevole capacità di

adattamento fisico e culturale alle condizioni

ambientali avverse.

Quella studiata è infatti una regione nel sud

dell'Etiopia piuttosto inospitale.

Posta a circa 4000 metri di quota, oggi è caratteriz-

zata da un'aria molto rarefatta, quindi povera di

ossigeno, da precipitazioni frequenti e da un'elevata

escursione termica tra giorno e notte.

E 45.000 anni fa erano lande fredde e con molti

ghiacciai.

"A causa di queste condizioni di vita avverse,

finora si ipotizzava che gli esseri umani si

fossero stabiliti in questa regione afro-alpina

solo in un'epoca molto posteriore e per un

periodo di tempo limitato", ha spiegato Glaser.

Invece il quadro che emerge dalle analisi è

diverso.

Da anni Glaser e colleghi studiano alcuni affiora-

menti rocciosi nel sito di Fincha Habera, sulle

Montagne di Bale, da cui hanno estratto diversi

reperti archeologici, come manufatti in pietra,

frammenti di argilla, e perline di vetro.

Analisi più approfondite dei sedimenti con metodi

geochimici e glaciologici hanno fornito ora una

caratterizzazione completa di resti di materiale

biologico e di nutrienti presenti nei suoli, nonché

delle possibili condizioni di temperatura, umidità

e livello di precipitazioni della zona durante il

Paleolitico.

Insieme alla datazione al radiocarbonio i dati così

raccolti hanno permesso di stimare da quante

persone era occupato il sito e per quanto tempo.

Ne emerge un modello assai articolato della vita

di questi nostri antichi antenati. Il sito di Fincha

Habera è stato occupato in un'epoca non ben

definita tra 47.000 e 31.000 anni fa.

Si trovava al limite di un ghiacciaio: ciò garantiva

agli abitanti abbondanza d'acqua, mentre probabil-

mente le condizioni a basse quote erano troppo

secche per la sopravvivenza.

Per quanto riguarda il cibo, sembra invece che il

nutrimento principale fosse il ratto-talpa gigante,

un roditore di grandi dimensioni molto diffuso nella

zona.

Semplice da catturare, grazie anche alla facilità di

reperire ossidiana per fabbricare utensili e armi

in pietra, l'animale forniva il nutrimento necessario

in una regione così difficile.

I dati raccolti con le analisi del suolo hanno rivelato

infine un secondo insediamento umano iniziato

10.000 anni a.C.: i campioni di suolo contengono

per la prima volta escrementi di animali da

pascolo, il che indica probabilmente l'avvento

di nuovi metodi di sostentamento e sfruttamento

del territorio. (red)

 
 
 

fiori nel cemento

Post n°2524 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

30 luglio 2019Comunicato stampa

Fiori tra il cemento: come sono cambiate

le piante che crescono nel centro di

Bologna

Fonte: Università di Bologna

Eliotropio purpureo - Heliotropium amplexicaule
Foto di Alessandro Alessandrini Negli ultimi

centovent'anni le specie verdi che vivono

dentro la cerchia delle mura sono quasi triplicate,

ma sono aumentate soprattutto quelle aliene a

discapito di quelle originarie del territorio.

A rivelarlo è il confronto tra un catalogo botanico

di fine Ottocento e una nuova mappatura fatta

da ricercatori dell'Alma Mater

Nel 1894 al botanico bolognese Lucio Gabelli

venne un'idea: creare un catalogo delle piante

che crescono in città. Così iniziò ad attraversare

in lungo e in largo il centro storico di Bologna -

all'epoca ancora cinto dalle mura medievali -

registrando le specie vegetali che incontrava sulla

sua strada: quelle che animavano i giardini, quelle

che crescevano ai bordi delle carreggiate, quelle

che spuntavano tra le crepe dei muri.

Ad un certo punto trovò persino un eliotropio

purpureo (Heliotropium amplexicaule): un fiore

originario del Perù che in qualche modo era riuscito

ad arrivare fino al cuore dell'Emilia.
 
Centoventi anni più tardi, un gruppo di ricercatori

dell'Università di Bologna ha deciso di ripetere lo

stesso esperimento per capire quanto e come sono

cambiate le piante urbane. Ripercorrendo i passi di

Gabelli, gli studiosi hanno catalogato tutte le specie

che crescono oggi nel centro storico bolognese, tra

parchi, viali, marciapiedi, colonne e palazzi.

E lungo il loro percorso hanno ritrovato anche

l'eliotropio purpureo: da oltre un secolo il fiore

peruviano continua a sbocciare, anno dopo anno,

nello stesso punto.
 
BIODIVERSITÀ E SPECIE ALIENE
A parte però questo caso straordinario, il confronto

tra i due cataloghi - quello ottocentesco di Lucio

Gabelli e quello contemporaneo dei ricercatori

bolognesi - mostra che negli ultimi centovent'anni

la flora urbana di Bologna è cambiata radicalmente.

"Il riscaldamento del clima, i cambiamenti

dell'architettura cittadina e il progressivo intervento

dell'uomo sull'ambiente urbano hanno modificato

in maniera profonda la biodiversità floristica

bolognese", conferma Annalisa Tassoni, docente

dell'Università di Bologna che ha coordinato lo

studio.

"Un cambiamento che ha visto il moltiplicarsi di

specie aliene, introdotte soprattutto come piante

ornamentali, a scapito di quelle native della zona,

che si sono ridotte in modo significativo".
 
Dai risultati della ricerca - pubblicati su Scientific

Reports, rivista del gruppo Nature - emerge infatti

che le specie che abitano il centro storico bolognese

sono quasi triplicate, passando dalle 176 di fine

Ottocento alle 477 di oggi; allo stesso tempo è però

più che raddoppiato il numero di quelle aliene,

passando dal 12% al 30% del totale.

"Questi vasti cambiamenti sono legati probabilmente

alla profonda trasformazione del centro storico

di Bologna nell'ultimo secolo: la scomparsa delle

aree coltivate e delle mura medievali, la cementifica-

zione, le ampie ricostruzioni del secondo dopoguerra",

dice ancora la professoressa Tassoni.

"Tutti questi eventi hanno portato alla scomparsa

delle specie legate all'economia agraria di un tempo,

come i cereali e gli alberi da frutto.

In compenso l'introduzione su larga scala delle

piante ornamentali, nei giardini e sui balconi, ha

permesso a moltissime specie non originarie del

territorio di diffondersi e radicarsi".
 
CAPACITÀ DI ADATTAMENTO
Più diversità da un lato, quindi, ma dall'altro meno

"tipicità" per la flora bolognese.

L'aumento delle specie aliene non è però necessaria-

mente negativo.

"Nei centri storici cittadini l'ambiente naturale è

spesso quasi del tutto assente", spiega Mirko

Salinitro, ricercatore dell'Università di Bologna e

primo autore dello studio. "In questi contesti le

specie aliene sono a volte le uniche in grado di

colonizzare spazi che altrimenti resterebbero vuoti,

creando così habitat che possono favorire ad

esempio i preziosi insetti impollinatori".

A resistere sono insomma le piante - locali o aliene

- capaci di sopravvivere in ambienti che, complice

anche l'aumento delle temperature, diventano

sempre più ostili.
 
Così, camminando per le strade del centro di

Bologna ci si può imbattere in una felce (Dryopteris

filix-mas) che spunta dalla colonna di un portico,

in macchie di Euphorbia prostrata che si allargano

tra le crepe dei marciapiedi, in famiglie di

ciombolino comune (Cymbalaria muralis) che si

arrampicano sulle pareti dei palazzi o in cespugli

di bocca di leone (Anthirrinum majus) che

fioriscono tra i mattoni rossi delle mura medievali.

E se invece si cerca il luogo che ancora custodisce

il più alto livello di biodiversità tra i confini della

città storica? La risposta è semplice, confermano

i ricercatori: l'Orto botanico dell'Università di

Bologna.
 
I PROTAGONISTI DELLO STUDIO
Lo studio è stato pubblicato su "Scientific Reports",

rivista del gruppo Nature, con il titolo "Impact of

climate change and urban development on the flora

of a southern European city: analysis of biodiversity

change over a 120-year period".
 
Per l'Università di Bologna gli autori sono Annalisa

Tassoni e Mirko Salinitro del Dipartimento di

Scienze biologiche, geologiche e ambientali e

Alessandro Zappi del Dipartimento di Chimica

"Giacomo Ciamician", a cui si aggiunge Alessandro

Alessandrini dell'Istituto per i beni artistici, culturali

e naturali della Regione Emilia-Romagna

 
 
 

La qualità dell'aria in Italia.

Post n°2523 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

07 agosto 2019Comunicato stampa

In Italia negli ultimi 40 anni l'aria è più pulita

Fonte: Cnr/Univ.Studi Milano

©Veronica Manara L'Università degli

Studi di Milano e il Consiglio nazionale

delle ricerche hanno analizzato per la

prima volta la visibilità orizzontale

dell'atmosfera, scoprendo che, nelle zone

più inquinate del Paese, la frequenza dei

giorni con visibilità sopra i 10 o i 20 km è

più che raddoppiata negli ultimi 40 anni,

grazie soprattutto alle norme emanate per

ridurre l'inquinamento. La pubblicazione su

"Atmospheric Environment"

Negli ultimi quarant'anni l'atmosfera in Italia

è diventata più limpida, e l'aria può considerarsi

"più pulita": queste le conclusioni a cui sono

giunti un gruppo di ricercatori del Dipartimento

di scienze e politiche ambientali dell'Università

degli Studi di Milano e dell'Istituto di scienze

dell'atmosfera e del clima del Consiglio nazionale

delle ricerche (Cnr-Isac), pubblicate di recente

su Atmospheric Environment.

I ricercatori della Statale e del Cnr-Isac hanno

utilizzato i dati di una variabile meteorologica

che non era mai stata studiata in modo esaustivo

in Italia, cioè la visibilità orizzontale in atmosfera,

molto condizionata dal livello di inquinamento

atmosferico.

La visibilità orizzontale è importante in diversi

ambiti tra cui quello del traffico aereo, tanto da

venire monitorata continuamente da molti

decenni in tutte le stazioni del Servizio Meteorologico

dell'Aeronautica Militare, dove un operatore

addestrato valuta, mediante una serie di riferimenti,

quale è la massima distanza alla quale un oggetto

risulta visibile.

Nella ricerca viene discussa l'evoluzione della

frequenza delle giornate con "atmosfera limpida"

(ovvero con visibilità superiore a 10 e a 20 km)

in varie aree del territorio italiano nel periodo

1951-2017.

Questa frequenza è cambiata fortemente in

tutte le aree considerate e i cambiamenti più

grandi si sono avuti nelle aree più inquinate

del Paese tanto che, in zone come il bacino

padano, la frequenza dei giorni con visibilità

sopra i 10 o i 20 km è più che raddoppiata

negli ultimi 40 anni.

In Italia, così come negli altri Paesi più svilup-

pati, le emissioni di sostanze inquinanti sono

fortemente cambiate negli ultimi decenni e, a

una rapida crescita delle emissioni negli anni

'60 e '70, dovuta al tumultuoso sviluppo

economico di questo periodo, ha infatti fatto

seguito un'altrettanta rapida decrescita dovuta

ad una serie di norme emanate per ridurre l

'inquinamento atmosferico nelle nostre città.

"Le analisi effettuate hanno quindi messo in

evidenza in modo molto efficace il grande successo

che si è avuto in Italia sul fronte della lotta

all'inquinamento atmosferico -, commenta Maurizio

Maugeri, docente di Fisica dell'atmosfera

all'Università di Milano - Tuttavia, non dobbiamo

scordare che si può e si deve fare ancora di più

per completare il percorso di risanamento che i dati

di visibilità in atmosfera documentano in modo così

efficace".

Un altro aspetto di grande rilevanza delle analisi

è che esse mettono in evidenza in modo molto

efficace il legame tra i livelli del particolato atmosferico

e la trasparenza dell'atmosfera.

"Le emissioni degli inquinanti che concorrono al

particolato atmosferico, oltre a danneggiare la nostra

salute, vanno infatti ad interagire con la radiazione

solare riflettendola verso lo spazio causando un

raffreddamento della superficie terrestre provocando,

quindi, un effetto opposto a quello dei gas climalteranti,

come l'anidride carbonica", aggiunge Veronica

Manara del Cnr-Isac.
L'aumento del contenuto di aerosol in atmosfera

registrato fino agli inizi degli anni '80 ha quindi

parzialmente nascosto l'aumento di temperatura

causato delle sempre più alte concentrazioni di

anidride carbonica.

Negli ultimi decenni, invece, grazie alle politiche di

contenimento delle emissioni, la progressiva riduzione

degli aerosol ha determinato un aumento della

radiazione solare che giunge a terra "smascherando"

il vero effetto dei gas serra. Infatti, mentre tra gli

anni '50 e la fine degli anni '70 la temperatura nel

nostro Paese è rimasta pressoché costante, dagli

anni '80 ad oggi è cresciuta di quasi mezzo grado

ogni decennio.

 
 
 

Cosa sapete sui licheni?

Post n°2522 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

24 luglio 2019COMUNICATO STAMPA

Le proprietà magnetiche delle foglie e dei

licheni per il monitoraggio della qualità

dell'aria

Le proprietà magnetiche di foglie e licheni

forniscono indicazioni sull'accumulo e sulla

composizione delle polveri sottili atmosferi-

che inquinanti.

Con uno studio multidisciplinare, si è eviden-

ziata la relazione tra le proprietà magnetiche

dei licheni e la concentrazione di metalli

pesanti campionati in una zona fortemente

antropizzata della periferia est romana

Un team di ricercatori dell'Istituto Nazionale

di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell'Agenzia

Regionale per la Protezione Ambientale della

Regione Lazio (ARPA Lazio) ha analizzato

i licheni campionati a Roma nel 2017 in via

di Salone, una zona caratterizzata da molteplici

sorgenti di inquinamento atmosferico, tra cui

frequenti combustioni abusive all'aperto.

La ricerca, pubblicata sulla rivista "Science of

the Total Environment" del gruppo Elsevier,

ha evidenziato le proprietà dei licheni in qualità

di recettori e accumulatori di polveri sottili.

"Le polveri sottili", spiega il tecnologo dell'INGV

Aldo Winkler, "sono costituite da sostanze

micrometriche sospese in aria, presenti in

atmosfera per cause naturali o antropiche.

Di solito, quando si parla di particolato sottile,

ci si riferisce al cosiddetto PM10, costituito da

particelle dal diametro uguale o inferiore a

10 millesimi di millimetro.

Oggi si presta attenzione a polveri di dimensioni

ancora minori, il PM2.5, e persino nanometriche,

le più pericolose.

In questo studio sono stati analizzati licheni

autoctoni e trapiantati nella zona studiata

interpretandoli - appunto - come recettori e

accumulatori di PM".

Considerando l'impatto di queste particelle

sulla salute e sul benessere della popolazione,

negli ultimi anni si sono diffuse metodologie

innovative di ricerca e analisi sul PM, tra cui

quelle utilizzate in questo studio, che sono

complementari all'utilizzo delle centraline. 

"Il PM può comprendere una frazione magnetica

derivante da processi di combustione - per esempio

nel caso di emissioni industriali e veicolari - e di

abrasione, come per i freni e le rotaie", prosegue

l'esperto. 

"Il biomonitoraggio con metodi magnetici consiste

nel considerare foglie e licheni come collettori di

particolato atmosferico che ne modifica sensibilmente

le proprietà magnetiche, fornendo così una rapida

indicazione dell'inquinamento atmosferico da

polveri sottili e consentendo la differenziazione tra

PM derivante da sorgenti naturali da quello derivante

da sorgenti antropiche.

Il confronto tra proprietà magnetiche, analisi chimiche

e osservazioni al microscopio elettronico" prosegue

Aldo Winkler, "ha permesso di delineare, nei licheni

campionati, l'importante accumulo di particolati

magnetici micrometrici, a livello compositivo simili alla

magnetite, legati alla presenza di metalli pesanti quali

rame, zinco, nichel, cromo e piombo.

Questi risultati ribadiscono l'elevato grado di antropiz-

zazione della zona studiata, caratterizzata da molteplici

sorgenti di inquinamento", conclude l'esperto.

Le misurazioni di magnetismo ambientale,

effettuate presso il Laboratorio di Paleomagnetismo

dell'INGV, sono rapide e a costi contenuti; in ambito

urbano, focalizzando l'interesse sul traffico, le ricerche

proseguono in collaborazione con il Dipartimento di

Biologia Ambientale dell'­­­­­Università degli Studi di Roma

Sapienza, relazionando le misurazioni magnetiche ai

tratti funzionali delle foglie di leccio campionate in

aree urbane soggette a intenso traffico veicolare.­­

 
 
 

Cosa accadde 3 milioni di anni fa.

Post n°2521 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Supernova colpì la Terra da 150

anni luce: la conferma

ASTRONOMIA Angelo Petrone

 11:34 13 Maggio 2017

Quasi un anno fa un team di esperti aveva

prodotto una serie di importanti prove

sull'esplosione di una supernova accaduta

all'incirca 2,6 milioni di anni fa.

Un nuovo recente studio dell'Università del

Kansas, ha oggi confermato l'evento,

spostandone, però, la datazione.

La ricerca, pubblicata sulle pagine dell'Astro-

physical Journal, ha preso in esame le

conseguenze che questo evento, così potente,

avrebbe avuto sulla natura e gli animali sul

nostro pianeta.

Le prove sono in abbondanza, come spiegano

gli esperti, anche se l'impatto dellasupernova 

sulla Terra non sarebbe stato così disastroso

come si potrebbe pensare.

Supernova colpì la Terra da 150 anni luce: la conferma

La distanza stimata dalla supernova è di

150 anni luce, ben lontana dalla cosiddetta

"zona di uccisione" fissata a 25 anni luce di

distanza dalla Terra. I raggi  cosmici della

 supernova sarebbero comunque penetrati

all'interno dell'atmosfera terrestre con effetti

notevoli soprattutto sulla troposfera.

Ogni essere vivente sulla Terra subì l'equivalente

di numerose radiografie con gravi rischi per la

salute e possibili mutazioni genetiche.

 
 
 

Le ultime news della NASA.

Post n°2520 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte. la NASA

NASA: scoperta sensazionale

sul Sistema Solare, la

conferenza stampa

 Angelo Petrone

 14:04 11 Aprile 201

Una nuova conferenza stampa della NASA riguarderà il

tema degli oceani extraterrestri, i bacini d'acqua che potreb-

bero nascondersi in diversi corpi celesti nel Sistema Solare.

Nuovi dati sono stati raccolti dall'Agenzia Spaziale, grazie

ai telescopio spaziale Hubble, alla sonda Cassini e verranno

resi noti il 13 aprile alle 20 ore italiane.

Le nuove scoperte, annunciano gli esperti, daranno nuovo

impulso all'esplorazione spaziale ed in special modo dei satelliti,

dove sarebbero presentioceani di acqua liquida. 

Ma quali saranno, nello specifico, le scoperte che laNASA 

renderà pubbliche?

Il comunicato è davvero breve, anche se si possono leggere dei

chiari riferimenti al tema dell'incontro che, come detto,

riguarderà i "mondi oceanici". Nel testo pubblicato, inoltre,

si aggiunge come la scoperta appena realizzata incentiverà

non poco la ricerca di vita extraterrestre.

Un breve accenno è riservato anche all'Europa Clipper

Mission, la missione che nel 2020, attraverso un robot,

analizzerà le caratteristiche di Europa, la luna di Giove il cui

sottosuolo ghiacciato nasconderebbe un vasto bacino di acqua

liquida. Insomma non ci resta che aspettare.

 
 
 

Novità dallo spazio...

Post n°2519 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

16 gennaio 2020Comunicato stampa

Un secondo possibile pianeta attorno alla

stella più vicina al Sole

Fonte: InafRappresentazione artistica del sistema planetario

attorno a Proxima Centauri (Crediti Lorenzo

Santinelli) Uno studio pubblicato sulla rivista

"Science Advance" di un gruppo internazionale

di astronomi, di cui fa parte anche Marco Damasso

dell'Istituto Nazionale di Astrofisica, presenta

i risultati di nuove osservazioni di Proxima

Centauri, la stella più vicina al Sistema solare.

Le nuove osservazioni hanno permesso di

rivelare la presenza di un possibile pianeta di

piccola massa in orbita a una distanza 1.5

volte maggiore di quella che separa la Terra

dal Sole.

La scoperta è stata possibile grazie ai dati

raccolti con spettrografi installati in Cile

Nuove osservazioni di Proxima Centauri, la

stella più vicina al Sistema solare ad una

distanza di 4,2 anni luce, hanno permesso di

rivelare la presenza di un possibile pianeta

di piccola massa in orbita a una distanza 1.5

volte maggiore di quella che separa la Terra

dal Sole.

La scoperta, pubblicata oggi sulla rivista Science

Advances, è stata realizzata da un team interna-

zionale di ricercatori guidati da Mario Damasso,

dell'Istituto Nazionale di Astrofisica a Torino, e

Fabio Del Sordo, dell'Università di Creta e

dell'Istituto di Astrofisica del FORTH, grazie ai

dati raccolti con spettrografi installati in Cile.

Rispetto ad altri candidati scoperti attorno a

stelle più lontane, Proxima c -come è stato

battezzato- è un pianeta ideale per essere osservato

con tecniche complementari che potranno confermarne

l'esistenza nell'immediato futuro.

Proxima Centauri è una stella nana rossa circa 8

volte meno massiccia del Sole attorno alla quale

nel 2016 è stato scoperto Proxima b, un pianeta

probabilmente roccioso in orbita nella fascia di

abitabilità. Proxima b è stato rivelato analizzando

le velocità radiali della stella ottenute da spettri

raccolti con gli spettrografi UVES e HARPS installati,

rispettivamente, sul Very Large Telescope array

a Cerro Paranal e sul telescopio da 3,6m a La Silla,

entrambi dello European Southern Observatory

in Cile. A seguito di questa scoperta ulteriori

osservazioni di Proxima sono state effettuate nel

2017 con HARPS nell'ambito del progetto Red Dots,

con l'obiettivo di studiare più approfonditamente

il sistema planetario.

Analizzando anche queste nuove misure, per un

totale di circa 17 anni di osservazioni, il team coordinato

da Damasso e Del Sordo, che include anche altri

ricercatori dell'INAF di Torino, ha rivelato la presenza

di un segnale con periodo di 5,2 anni compatibile con

l'esistenza di un secondo pianeta con massa minima

circa 6 volte la massa della Terra e con orbita di 1.5

unità astronomiche di raggio (ovvero circa la distanza

media tra Marte e Sole).

"Secondo la nostra analisi la presenza del segnale

periodico appare molto convincente, e i dati a nostra

disposizione non sembrano indicare una chiara causa

fisica alternativa alla presenza di un pianeta, anche

se ancora non possiamo completamente escludere

altre spiegazioni" commenta Damasso.

"È   infatti molto difficile rivelare un pianeta con una

massa minima relativamente piccola e un periodo

orbitale così lungo utilizzando soltanto la tecnica

basata sulle velocità radiali" sottolinea Damasso.

"Un segnale come quello che abbiamo trovato potrebbe

essere dovuto a un ciclo di attività magnetica di Proxima,

che può imitare la presenza di un pianeta.

Quindi, per confermare la nostra scoperta sono

necessarie altre osservazioni nel corso dei prossimi

anni".

"E' un risultato affascinante - afferma Del Sordo -

un nuovo tassello che aggiungiamo alla conoscenza

del sistema planetario più vicino al nostro".

Poi aggiunge: "Il segnale che abbiamo trovato è al

limite delle capacità strumentali.

Nel nostro studio dimostriamo che i dati astrometrici

presi dal satellite Gaia avranno un ruolo determinante

per confermare l'esistenza del pianeta.

La posizione dell'orbita di Proxima c non è facilmente

spiegabile con i modelli di formazione ed evoluzione

planetaria attualmente disponibili, e quindi si aprono

molte domande su come possa essersi formato

poco più di 5 miliardi di anni fa."
 
Lo studio è stato pubblicato sul sito web della

rivista Science Advances nell'articolo A low-mass

planet candidate orbiting Proxima Centauri at a

distance of 1.5 au di Mario Damasso, Fabio Del

Sordo, Guillem Anglada-Escudé, Paolo Giacobbe,

Alessandro Sozzetti, Alessandro Morbidelli, Grzegor

Pojmanski, Domenico Barbato, R. Paul Butler, Hugh

R. A. Jones, Franz-Josef Hambsch, James S. Jenkins,

Maria José Lopez-Gonzalez, Nicolas Morales,

Pablo A. Pena Rojas, Cristina Rodriguez-Lopez,

Eloy Rodriguez, Pedro Amado, Guillem Anglada,

Fabo Feng, Jose F. Gomez

 
 
 

Arriva neuralink.

Post n°2518 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Neuralink: i passi avanti nella connes-

sione cervello-computerNeuralink, una

delle società di Elon Musk, ha presentato

i progressi compiuti nella realizzazione di

interfacce uomo-computer che dovrebbero

potenziare elettronicamente le facoltà del

nostro cervello. 

brain_memoryCollegare il cervello al computer: sicuri che

sia una buona idea?|© MICHEL ROYON /

WIKIMEDIA COMMONS

Elon Musk ha mantenuto la promessa e, dopo

un paio d'anni di lavoro nel chiuso dei sui labo-

ratori, lo scorso martedì ha presentato ai media

il primo dispositivo impiantabile nel cervello e,

teoricamente, in grado di leggere nel pensiero.

CHE ACCOPPIATA.

 Quello mostrato alla California Academy of

Science di San Francisco è il primo risultato

concreto ottenuto da Neuralink, la start-up

fondata nel 2017 dal patron di Tesla e

Space X, con l'obiettivo di scongiurare quella

che sembra essere la più grande paura di

Musk: il possibile sorpasso dell'intelligenza

artificiale ai danni di quella umana.

 

Il robot chirurgo di Musk: può impiantare gli

elettrodi sotto la guida di un medico umano|

NEURALINK

Secondo quanto dichiarato ai media, Neuralink

avrebbe messo a punto un'interfaccia in grado

di collegare cervello umano e computer così da

farli lavorare in simbiosi.

Se questo risultato fosse confermato, aprirebbe

la strada a un filone bio-tecnologico del tutto

nuovo.

In uno scenario alla Matrix, l'uomo potrebbe

quindi espandere le proprie capacità grazie

alla potenza dell'informatica.

Potremo quindi imparare a suonare la chitarra

come Slash o a giocare a calcio come Cristiano

Ronaldo semplicemente "caricando un program-

ma" nel nostro cervello? Probabilmente no.

Ma potremo curare in maniera molto più

efficiente le malattie neurodegenerative e

sostituire con i computer parti di cervello, e

relativi processi in caso di danni o traumi.

NEURONI ARTIFICIALI. 

L'interfaccia messa a punto da Neuralink è

composta da elettrodi sottilissimi, più sottili

di un capello, in grado di intercettare l'attività

dei neuroni e, in alcuni casi, di sostituirsi ad essi.

Le prime applicazioni pratiche di questa nuova

tecnologia saranno in campo medico: le

nuove interfacce potranno, per esempio,

essere utilizzate al posto dei tradizionali

impianti per la stimolazione cerebrale profonda

sui pazienti affetti da morbo di Parkinson.

La tecnologia di Neuralink offre infatti la

possibilità di iniettare fino a 1.000 volte più

elettrodi rispetto ai sistemi disponibili oggi.

CHIRURGIA ARTIFICIALE.

 Durante l'evento lo stesso Musk ha spiegato

come Neuralink abbia anche messo a punto

un robot chirurgo in grado di effettuare

l'innesto degli elettrodi sotto la guida di un

medico in carne ed ossa.

Secondo quanto presentato, i primi test su

pazienti umani potrebbero iniziare nel 2020:

Musk prevede l'installazione di 4 dispositivi

su persone paralizzate a causa di gravi

danni alla colonna vertebrale.

L'obiettivo è quello di ottenere dati utili per

la messa a punto di nuovi protocolli che

possano, in futuro, restituire a questi pazienti

almeno parte della loro mobilità.

Fino ad oggi il dispositivo di Neuralink è stato

testato solo su animali: si credeva solo su topi,

ma secondo quanto ammesso dallo stesso

Musk durante le domande alla fine della

conferenza, Neuralink avrebbe avviato una

collaborazione con l'Università della California

per sperimentare la propria tecnologia anche

sulle scimmie.

Musk ipotizza un futuro dove l'impianto di questi

dispositivi sarà alla portata di tutti e sicuro

come la cura di una carie.

Ma siamo proprio sicuri che farci "potenziare"

da un computer sia la soluzione per metterci al

riparo dalle minacce di una (eventuale) intelligenza

artificiale fuori controllo?

 
 
 

Le sorprese degli abissi marini

Post n°2517 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'internet

Un relitto del Rinascimento giace perfet-

tamente conservato sul fondo del Baltico

Un mercantile che solcò i mari all'epoca delle

caravelle di Colombo mostra ancora ponte,

sartie e scialuppa per l'equipaggio nelle posi-

zioni originarie.

La nave è stata fotografata e filmata da ogni

angolazione, ma la sua identità rimane misteriosa.

I fondali limacciosi del Mar Baltico hanno

cullato per almeno cinque secoli il relitto di

una grande nave rinascimentale, andata a

picco negli anni in cui Cristoforo Colombo

veleggiava sulle sue caravelle.

Un gruppo internazionale di archeologi marini

è riuscito a fotografare il reperto nel dettaglio,

scoprendolo praticamente inalterato dal

passare del tempo.

Le acque povere di ossigeno di questo mare

hanno protetto il legno da animali e batteri

che di solito lo colonizzano e lo riducono in

polvere.

UN'ANOMALIA NELLA SABBIA.

 I primi sospetti sulla presenza di un relitto

erano emersi da una indagine sonar dei

fondali da parte dell'Amministrazione marit-

tima svedese, nel 2009.

A marzo, una spedizione internazionale di

scienziati guidati dall'Università di Southampton

(Regno Unito) ha calato due robot-archeologi

sul posto per effettuare riprese e fotografie

ad alta definizione del relitto, che sono state

poi usate per ricreare le sue sembianze

tridimensionali.

I risultati di quell'esplorazione sono appena

stati diffusi.

 

I resti del mercantile rinascimentale dall'alto.

Nel 2016 lo stesso gruppo di archeologi 

aveva scoperto decine di vascelli di epoca

bizantina sui fondali del Mar Nero

| DEEP SEA PRODUCTIONS/MMT

Profondità e coordinate del relitto non sono

state diffuse, per evitare visite sgradite in

questa delicata fase di studio.

Lo scafo della nave risulta intatto dalla chiglia

al ponte; ben conservati anche gli alberi

ed alcune sartie (i cavi fissi di rinforzo).

Adagiata sul ponte accanto all'albero maestro

è stata rinvenuta un'imbarcazione più piccola,

che doveva servire all'equipaggio per avvicinarsi

a riva.

C'È ANCHE L'ANCORA. 

Sul relitto sono stati trovati anche alcuni attrezzi

del mestiere, come una pompa di sentina per

rimuovere l'acqua dalla parte più bassa della

nave, un argano per raccogliere le corde e

un'ancora, che ha permesso di datare il reperto

tra la fine del 15esimo e l'inizio del 16esimo

secolo.

L'analisi del legname dello scafo programmata

per i prossimi mesi dovrebbe consentire di

datare il materiale con uno scarto massimo di

un anno dalla sua acquisizione umana: in

pratica, si capirà in che anno la nave fu messa

in mare.

 Il relitto era probabilmente un mercantile, anche

se munito di cannoni rotanti - per gli archeologi,

una prova delle tensioni marittime dell'epoca.

Era lungo 15-18 metri, poco meno della Santa

Maria, la nave ammiraglia di Colombo con a bordo

52 uomini. Identità e costruttore della nave del

Baltico rimangono ignote: per ora il suo nome è 

Okänt Skepp, "nave sconosciuta", in svedese.

 
 
 

I misteri infiniti dell'Universo

Post n°2516 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Home Astronomia

Spazio: scoperti enormi tunnel su Marte e sulla Luna

ASTRONOMIA Angelo Petrone 18:24 27 Settembre 2017

Sia la Luna che Marte sono percorsi da

lunghi tunnel di lava.

Si tratta del risultato dell'antichissima

attività vulcanica che un tempo caratteriz-

zava i due corpi celesti e che sulla Terra ha

portato a formazioni del tutto simili nelle

Hawaii, in Islanda, in Australia, ma anche in

Sicilia.

La presenza di cunicoli anche su Marte e

sulla Luna è nota da tempo e spesso ha

generato leggende circa un'origine extra-

terrestre. 

A scoprire queste particolari formazioni è

stato un team di ricercatori dell'Università

di Padova e di Bologna.

Gli esperti hanno analizzato i campioni di

lava sulla Terra paragonandoli con quelli

provenienti da Marte e dalla Luna basan-

dosi sui modelli ad alta risoluzione del 

terreno dei due corpi celesti.

Spazio: nuove prove sui tunnel su

Marte e la Luna

I dati mostrano come le condizioni di entrambi

corpi celesti, combinati con la gravità, possano

dare vita a lunghi tunnel che su Marte potreb-

bero raggiungere la larghezza di 250 metri

mentre sulla Luna raggiungerebbero centinaia

di chilometri di lunghezza.

Ma come nascono i tunnel di lava?

La formazione può essere favorita dall'overcrusted

 ovvero a seguito della presenza di fluido a bassa

viscosità.

La lava sviluppa una crosta dura che, addensan-

dosi, porta alla formazione di un tetto di lava

 dura al di sopra del flusso di magma.

Al termine del fenomeno eruttivo la formazione

si svuota lasciando il tunnel libero.

Un altro processo porta alla formazioni di  tubi

"inflated" nel momento in cui la lava si introduce

in fessure tra la roccia già esistenti espandendole.

Questi ambienti, sono protetti dalla radiazione

cosmica e naturalmente dai piccoli meteoriti che

possono colpire la superficie rappresentando,

quindi, dei possibili habitat per gli esploratori

del futuro.

 
 
 

Ancora sul Pianeta 9.

Post n°2515 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet.

Pianeta Nove: una 'Super Terra'? L'ipotesi

sull'oggetto più lontano del Sistema Solare

ASTRONOMIA Angelo Petrone 7:56 1 Marzo 2019

Il Pianeta X, l'oggetto più distante nel

Sistema Solare, potrebbe essere un corpo

celeste "roccioso" cinque volte più grande

della Terra. Lo studio.

Il pianeta più lontano dei Sistema Solare?

Potrebbe essere una super Terra.

A rilevare un nuovo scenario sul misterioso

 Pianeta 9 è il California Institute of Technology

(Caltech).

Secondo gli studiosi l'oggetto più distante dal

Solesarebbe un corpo celeste "roccioso" con

un diametro pari a 5 volte quello della Terra

e distante dal Sole circa 60 miliardi di chilometri.

La nuova ipotesi è stata avanzata da

Konstantin Batygin e Mike Brown, gli studiosi

che nel 2016 avevano reso noto la prima

pubblicazione sostenendo la possibilità

dell'esistenza di questo possibile oggetto ai

confini del Sistema Solare.

 

Pianeta Nove: una 'Super Terra'? L'ipotesi

sull'oggetto più lontano del Sistema Solare

Da allora il Pianeta 9 è stato protagonista

di diverse ricerche ed ipotesi, la 

prima, pubblicata sull'Astronomical Journal,

aveva stimato una probabilità su cinquecento

che l'origine delle "strane" orbite dei pianeti

oltre Nettuno sia derivante dalla nostra

prospettiva di osservazione dalla Terra rispetto

all'influenza gravitazionale di un grande pianeta,

il cosiddetto "Pianeta Nove".

L'ultimo studio, che sarà pubblicato a breve su

Physics Reports, proietta centinaia di modelli

su possibili evoluzioni dell'area più esterna

del Sistema Solare, compresa la formazione

di un pianeta di dimensioni minori rispetto

a quanto preventivato in precedenza,

collocandolo in una posizione più prossima

al Sole.

La conformazione dell'oggetto sarebbe, ora,

di un pianeta roccioso; ben lontano dal

"gigante di ghiaccio" preventivato due anni fa.

In ogni caso si tratta di supposizioni.

 
 
 

E' arrivato Pianeta 9.

Post n°2514 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Spazio: Pianeta 9 è un vagante catturato

dal Sistema Solare?

ASTRONOMIA Angelo Petrone 17:22

13 Gennaio 2017

Collocato ai margini del Sistema Solare,

il cosiddetto Pianeta 9 ha riempito le

pagine dei giornali scientifici per mesi.

L'enorme corpo celeste si troverebbe ben

oltre Plutone e potrebbe essere stato

catturato, in un lontano passato, dall'attra-

zione gravitazionale.

pianeti vaganti sono oggetti molto comuni

nello spazio e caratterizzati da un'orbita non

legata ad alcuna stella.

Ebbene secondo i ricercatori dell'Asi, il

misterioso Pianeta 9 potrebbe essere proprio

un oggetto di questo tipo formatosi all'esterno

del nostro Sistema Solare, ma "entrato" in

un periodo successivo.

pianeta-nove

Spazio: Pianeta 9 è un vagante catturato

dal Sistema Solare?

A dimostrarlo è una serie di ben 156 simulazioni.

Secondo la ricerca quando unpianeta vagante 

entra in contatto con un sistema solare, nel

60% dei casi ne fuoriesce, magari portandosi

con sé un piccolo pianeta, mentre nel restante

40% rimane all'interno, orbitando intorno alla

stella.

Il Pianeta 9, secondo i ricercatori, potrebbe

trovarsi ad una distanza pari a mille volte quella

che intercorre tra la Terra ed il Sole: una lontananza

notevole, ma che non impedirà agli scienziati di

confermarne, o meno, l'esistenza.

 
 
 

Un'altra superTerra

Post n°2513 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Spazio: la super Terra GJ 625 b è

potenzialmente abitabile

ASTRONOMIA Angelo Petrone 16:09

14 Ottobre 2017

Un nuovo esopianeta, classificabile come

"super Terra", è stato scoperto grazie ad

una ricerca dell'Instituto de Astrofísica de

Canarias.

Si tratta di un corpo celeste, potenzialmente

abitabile, le cui caratteristiche sono state

riportate su un articolo pubblicato sulla rivista

Astronomy & Astrophysics.

Orbitante intorno allastella GJ 625, ad una

distanza di 21.2 anni luce dal Sole, il corpo

celeste ha unamassa pari 2.8 quelle terrestri

e si trova ad una distanza di 0.078 unità

astronomiche dalla stella, nel pieno dell'area

di abitabilità: la fascia nella quale i pianeti

possono ancora ospitare acqua allo stato

liquido.

super terra

Spazio: la super Terra GJ 625 b è potenzial-

mente abitabile

La scoperta, anticipata già alcuni mesi fa, ha

richiesto l'utilizzo dei dati di ben 151 spettri ad

alta risoluzione della stella.

Si tratta di informazioni raccolte nel giro di tre

anni e mezzo grazie allo spettrografo Harps-N,

 installato sul Telescopio nazionale Galileo. 

GJ 625 b, questo il nome dato al pianeta, rap-

presenta una delle super Terre più interessanti,

soprattutto per la sua minima distanza dalSistema

Solare. 

La massa, pari a meno di tre volte quella della

Terra, configura questo pianeta come una delle 

super-Terre meno massicce mai scoperte.

La posizione rispetto stella Gliese 625, una

nana rossa, rende il pianeta potenzialmente

adatto ad ospitare forme di vita, anche se è la

presenza di un'atmosfera a determinare

l'abitabilità.

 
 
 

La Via del legno

Post n°2512 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

10 dicembre 2019

Fonte: articolo riportato dallInternet

Dalla Gallia all'antica Roma, la via del legno

Ventiquattro tavole di quercia utilizzate

come fondamenta di un portico romano di

epoca imperiale rinvenute a Roma durante

i lavori per la Metro C, in via Sannio, dietro

San Giovanni in Laterano.

I reperti lignei provengono dalla Francia nord-

orientale e risalgono al 40 d.C.

Le indagini scientifiche effettuate dall'Istituto

per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle

ricerche di San Michele all'Adige, vicino a Trento,

su committenza della Soprintendenza speciale

di Roma, hanno determinato la datazione

grazie alla dendrocronologia, la scienza che

studia gli anelli di accrescimento degli alberi.

Lo studio di Mauro Bernabei e colleghi è stato

 pubblicato su "PLOS One".

Ma perché rivolgersi così lontano? Sono i

quattro metri di lunghezza a dare la risposta:

i legni erano destinati a fungere da casseforme

di fondazione di un ricco portico di una proprietà

appena fuori le mura Aureliane.

E nell'Appennino centrale non era probabilmente

semplice trovare fusti con tali proprietà.

Il trasporto su una percorrenza così lunga sotto-

linea ancora l'efficienza della macchina logistica

dell'epoca, in grado di far viaggiare anche

merce ingombrante dai confini dell'Impero fino

al cuore della città eterna.

 
 
 

L'ultima scoperta sul Sistema Solare.

Post n°2511 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall?Internet

NASA: scoperta sensazionale sul Sistema

Solare, la conferenza stampa

ASTRONOMIA Angelo Petrone 14:04 11

Aprile 2017

Una nuova conferenza stampa della

 NASA riguarderà il tema degli oceani

extraterrestri, i bacini d'acqua che

potrebbero nascondersi in diversi corpi

celesti nel Sistema Solare.

Nuovi dati sono stati raccolti dall'Agenzia

Spaziale, grazie ai telescopio spaziale

Hubble, alla sonda Cassini e verranno resi

noti il 13 aprile alle 20 ore italiane.

Le nuove scoperte, annunciano gli esperti,

daranno nuovo impulso all'esplorazione

spaziale ed in special modo dei satelliti,

dove sarebbero presentioceani di acqua

liquida. Ma quali saranno, nello specifico,

le scoperte che laNASA renderà pubbliche?

NASA: scoperta sensazionale sul Sistema

Solare, la conferenza stampa

Il comunicato è davvero breve, anche se 

si possono leggere dei chiari riferimenti al

tema dell'incontro che, come detto,

riguarderà i "mondi oceanici".

Nel testo pubblicato, inoltre, si aggiunge

come la scoperta appena realizzata incentiverà

non poco la ricerca di vita extraterrestre.

Un breve accenno è riservato anche all'Europa

Clipper Mission, la missione che nel 2020,

attraverso un robot, analizzerà le caratteristi-

che di Europa, la luna di Giove il cui sottosuolo

ghiacciato nasconderebbe un vasto bacino di

acqua liquida. Insomma non ci resta che

aspettare.

 
 
 

Altre notizie sui buchi neri.

Post n°2510 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

09 dicembre 2019Comunicato stampa

Cosmologia: i buchi neri avrebbero meno

massa di quanto ritenuto finora.

Trovata una nuova relazione con le galassie

ospitanti

Fonte: Scuola normale Pisa / Inaf

La scoperta degli astronomi Francesco

Shankar della Università di Southampton

e Viola Allevato della Scuola Normale di

Pisa e INAF-Osservatorio di Astrofisica e

Scienza dello Spazio di Bologna è stata

pubblicata da Nature Astronomy e ha

profonde implicazioni sulla nostra compren-

sione dell'evoluzione e crescita dei buchi

neri super massicci

Un team internazionale di astronomi guidato

da Francesco Shankar della Università di

Southampton, in stretta collaborazione con

Viola Allevato, della Scuola Normale Superiore

di Pisa e di INAF - Osservatorio di Astrofisica

e Scienza dello Spazio di Bologna, ha recente-

mente scoperto un nuovo modo di pesare le

masse di buchi neri supermassicci, "oggetti"

cosmici presenti nel cuore della maggior parte,

se non di tutte, le galassie, con una massa

superiore di milioni di volte, e a volte miliardi,

quella del Sole.

Lo studio è stato pubblicato da Nature

Astronomy.

Una delle proprietà più interessanti dei buchi

neri supermassicci è che, pur essendo questi

oggetti piccoli rispetto alle galassie che li

contengono - come un chicco d'uva rispetto

all'intera Terra - la loro massa varia in base

alla galassia che li ospita: più grande è la

galassia, più grande è il buco nero super-

massiccio.

Il ché è sorprendente visto che non ci si

aspetta che le dimensioni di un chicco

d'uva siano influenzate da quelle del pianeta

sul quale cresce!
Questo suggerisce un qualche legame profondo,

una sorta di "co-evoluzione" tra buco nero

supermassiccio e galassia che li contiene,

che tuttavia rimane ancora sconosciuto.
 
Il nuovo metodo di misurazione di questi

oggetti galattici proposto dal team di scienziati

si è basato sullo studio della distribuzione

spaziale delle galassie.

La misurazione accurata delle masse di buchi

neri supermassicci viene infatti solitamente

ottenuta misurando la velocità delle stelle o

del gas circostanti.

Questo è incredibilmente impegnativo e richiede

telescopi estremamente sensibili e osservazioni

complesse.
 
L'approccio usato in questo lavoro è del tutto

nuovo.

Le galassie e i buchi neri supermassicci al loro

centro risiedono in aloni di materia oscura, che

costituisce circa il 30% della materia contenuta

nell'Universo.

Simulazioni numeriche mostrano che la massa

di questi aloni correla con la loro distribuzione

spaziale: aloni di materia oscura più massivi

sono caratterizzati da una distribuzione che si

discosta maggiormente da una distribuzione

random e sono quindi più raggruppati nello

spazio. Questo significa che misurare quanto

gli aloni di materia oscura siano raggruppati

nell'Universo può essere utilizzato per "pesare"

gli aloni.

Visto che ci aspettiamo che i buchi neri più

massicci siano ospitati da aloni più massicci, allo

stesso modo possiamo utilizzare questo

metodo per "pesare" i buchi neri supermassicci

misurando il loro - e delle galassie che li ospitano

- raggruppamento nello spazio.

Confrontando le simulazioni con dati recenti sulla

distribuzione spaziale delle galassie Il team di

scienziati ha mostrato che i buchi neri supermassicci,

hanno, in media, meno massa di quanto si

pensasse in precedenza.

Sono insomma un po' meno "massicci" del previsto.

Questo risultato consente di fissare l'efficienza

radiativa dei buchi neri supermassicci, cioè la loro

efficienza di conversione di massa in energia, a

valori del 10-20%, percentuale che suggerisce

buchi neri ruotanti su sé stessi con velocità da

moderate ad alte. Il fatto che i buchi neri siano

meno massicci di quanto si pensasse, implica

inoltre un segnale in onde gravitazionali prodotto

durante la fusione tra buchi neri più debole e

quindi più difficile da misurare per strumenti

attualmente disponibili.

 
 
 

Gli xenobot

Post n°2509 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet.

Integralmente.

15 gennaio 2020

Ecco gli xenobot, i primi robot fatti di cellule viventi

Una delle cellule di rana manipolate

per ottenere gli xenobot (Douglas

Blackiston, Tufts University) 

Un gruppo di ricercatori statunitensi ha

assemblato cellule di embrioni di rana in

una struttura in grado di muoversi auto-

nomamente, autoripararsi e anche

trasportare un piccolo carico.

Le applicazioni potrebbero essere numerose,

dalla raccolta delle microplastiche alla

pulizia dei vasi sanguigni.

Non sono animali, anche se sono fatti di

cellule estratte da embrioni di rana.

E non sono neppure robot in senso stretto,

anche se sono stati assemblati in laboratorio.

Quelli descritti sui "Proceedings of the National

Academy of Sciences" dai ricercatori della Tuft

University e dell'Università del Vermont sono

xenobot, cioè esseri viventi, lunghi pochi

millimetri, che possono muoversi verso un

obiettivo, autoripararsi dopo essere stato

sezionati e all'occorrenza trasportare un piccolo

carico.

Il risultato apre un filone di ricerca del tutto

nuovo, perché finora i tentativi di assemblare

organismi artificiali hanno avuto come modello

l'anatomia di animali esistenti, mentre in questo

caso si tratta per la prima volta di progettare

da zero macchine biologiche.

Gli autori hanno usato il cluster di supercomputer

Deep Green dell'Università del Vermont, su cui

"gira" un algoritmo evolutivo in grado di creare

migliaia di candidati modelli di nuove forme di vita.

Per raggiungere l'obiettivo assegnato dai

ricercatori, per esempio la locomozione in una

direzione, il computer aggrega alcune centinaia

di cellule simulate in una varietà di forme

corporee, rispettando le basi della biofisica e ciò

che possono fare le singole cellule.

Dopo centinaia di simulazioni indipendenti, i

modelli più promettenti sono stati selezionati

per i test in vivo.

A questo scopo, gli autori hanno raccolto

cellule staminali da embrioni di rane africane

della specie Xenopus laevis, e le hanno poi

separate in singole cellule e "rimontate" al

microscopio secondo il progetto elaborato

dal computer.

Assemblate in forme anatomiche mai osservate

in natura, le cellule hanno iniziato a interagire

tra loro.

Le cellule prelevate dalla cute hanno formato

un'architettura più passiva, mentre quelle

prelevate dal cuore si sono autoorganizzate

in modo da produrre un movimento ordinato

in avanti.

Il prototipo di xenobot ha dimostrato di

sapersi muovere in modo coerente, esplorando

il proprio ambiente acquatico per giorni o

addirittura settimane.

Un'altra capacità sorprendente dei nuovi xenobot

è che se vengono divisi in due parti, si

autoriparano spontaneamente.

Infine, sono completamente biodegradabili.

"Possiamo immaginare molte applicazioni utili

di questi robot viventi, precluse alle macchine

convenzionali", ha spiegato Michael Levin,

direttore del Center for Regenerative and

Developmental Biology della Tufts University,

coautore dello studio.

"Per esempio, possono cercare composti nocivi o

contaminanti, raccogliere microplastiche negli

oceani, percorrere i vasi sanguigni per ripulirli

dalle placche aterosclerotiche".

Secondo, gli autori, i nuovi xenobot offrono

anche l'opportunità di capire di più su come le

cellule comunicano e si connettono tra loro,

con profonde conseguenze sia per la scienza

computazionale sia per la biologia.

"Una grande questione in biologia è capire quali

sono gli algoritmi in base ai quali si stabilscono

forma e funzione dell'organismo", ha aggiunto

Levin.

"Sappiamo che il genoma codifica per le proteine,

ma non sappiamo ancora in che modo questo

hardware permette alle cellule di cooperare per

produrre anatomie funzionali in condizioni

ambientali tra loro molto differenti".

"Il genoma delle cellule con cui abbiamo realiz-

zato i nostri xenobot è, dal punto di vista genetico,

puro DNA di rana, ma essi sono forme viventi

completamente diverse dalle rane dal punto

di vista anatomico", ha concluso il ricercatore.

"Per questo è lecito chiedersi: che cosa esat-

tamente determina l'anatomia che le cellule

concorrono a realizzare? E che cos'altro sono

in grado di costruire queste cellule?". (red)

 
 
 

La natura vulcanica del Canale di Sicilia.

Post n°2508 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: Geo, articolo riportato dall'internet

10 dicembre 2019Comunicato stampa

Uno studio rivela la morfologia di un'area

vulcanica sottomarina nel Canale di Sicilia

Fonte: Ingv©Agf/Copernicus Sentinel data (2018)/ESA 

Un team di ricerca dell'INGV ha identificato

e caratterizzato morfologicamente due campi

vulcanici sottomarini situati a poche decine

di chilometri dalle coste di Sciacca, nel Canale

di Sicilia, con l'obiettivo di migliorare la stima

della pericolosità vulcanica.

Uno studio recentemente pubblicato sulla

rivista "Frontiers in Earth Science" ha permes-

so di migliorare le conoscenze del Graham

Volcanic Field, un'area vulcanica attiva finora

poco conosciuta situata nel Canale di Sicilia,

circa 40-50 chilometri a largo di Sciacca (AG).

La ricerca, curata da Danilo Cavallaro e Mauro

Coltelli, ricercatori dell'Osservatorio Etneo

dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanolo-

gia (OE-INGV), ha consentito di indagare un

campo vulcanico situato relativamente vicino

alla costa e in un braccio di mare molto frequen-

tato dal traffico marittimo, con l'obiettivo di

contribuire ad affinare la stima della pericolosità

vulcanica che impatta sulla costa e sulla sicurezza

della navigazione.

"La nostra ricerca", spiega il ricercatore

Danilo Cavallaro, "è incentrata su uno studio

morfo-batimetrico di dettaglio del Graham

Volcanic Field. Si tratta di un campo vulcanico

formato da una decina di piccoli edifici vulcanici,

di cui fa parte anche il conetto che rappresenta

ciò che resta dell'effimera Isola Ferdinandea,

formatasi durante la ben documentata eruzione

di tipo surtseyano del 1831".

Lo studio è basato su dati batimetrici

multibeam ad alta risoluzione e video ROV

(Remotely Operated Vehicle) grazie ai quali

è stato possibile realizzare un'analisi morfo-

logica degli elementi vulcanici, erosivi e

deposizionali che caratterizzano il campo

vulcanico.

I conetti giacciono su un fondale la cui

profondità varia tra 150 e 250 metri e mostrano

altezze variabili tra 100 e 150 metri, arrivando

fino -9 metri sotto il livello del mare nel conetto

dell'ex Isola Ferdinandea.

Sono costituiti da materiale piroclastico poco

consolidato, ad eccezione di guglie appuntite

presenti sulla sommità di alcuni conetti,

costituite da basalti massivi che rappresentano

ciò che resta dei condotti d'alimentazione.

L'analisi dei parametri morfometrici dei coni,

unitamente a quella degli elementi erosivi e

deposizionali e messa in relazione con le

variazioni del livello marino, ci ha permesso di

confinare l'età del vulcanismo cha ha originato

il campo vulcanico Graham a circa 20.000

anni fa.

"La distribuzione spaziale e la forma degli

edifici vulcanici sottomarini che costituiscono

il Graham Volcanic Field", aggiunge il ricercatore

Mauro Coltelli, "hanno permesso di avvalorare

l'interazione tra tettonica e attività vulcanica

nella formazione di questo campo vulcanico,

poiché i conetti sono situati lungo allineamenti

orientati da Nord-Ovest verso Sud-Est e da

Nord a Sud, corrispondenti alle principali direttrici

tettoniche del Canale di Sicilia".

La ricerca ha inoltre permesso di identificare

e caratterizzare morfologicamente anche un

altro campo vulcanico, denominato Terribile

Volcanic Field, costituito da una trentina di

piccoli conetti di età probabilmente maggiore

rispetto a quelli del Graham.
La correlazione tra i processi vulcanici sotto-

marini e la forma dei conetti ha confermato la

natura del vulcanismo che ha originato i campi

vulcanici.

Tale vulcanismo rappresenta una peculiarità

perché si è impostato in corrispondenza di

una fascia trascorrente che interessa una crosta

continentale, e quindi in un ambiente geo-

dinamico diverso da quelli tipici degli altri campi

vulcanici, come ad esempio le zone di subdu-

zione o le dorsali oceaniche.

Inoltre, lo studio morfo-batimetrico ha

individuato numerosi depositi di frana sottomarina

e depressioni causate dall'emissione violenta

di gas (pockmarks) nei pressi dei due campi

vulcanici studiati, suggerendo la presenza di

fenomeni di frane sottomarine e diffusi rilasci

di gas accumulato nel sottosuolo.

 
 
 

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