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Messaggi del 18/02/2020
Post n°2526 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet La guerriera "vichinga" che veniva dalla Polonia I resti di una donna vissuta un migliaio di anni fa e identificata come scandinava in scavi prece- denti, appartengono in realtà a una migrante slava. È stata la sua ascia a rivelarne la provenienza: un'arma che forse non veniva usata in guerra. Una ricostruzione della tomba di Langeland.| Nella tomba che si pensava appartenere a una guerriera vichinga riposerebbe invece, da oltre mille anni, una donna di origine slava, nata in un'area corrispondente all'odierna Polonia e poi emigrata in Danimarca. Lo ha scoperto Leszek Gardeła, archeologo del Dipartimento di Lingue Scandinave dell'Università di Bonn (Germania) analizzando uno scheletro femminile sepolto accanto a un'ascia in un cimitero vichingo sull'isola danese di Langeland, e ritrovato qualche anno fa. Corredo e posizione avevano subito fatto pensare a una vichinga in armi, incarnazione del mito delle Valchirie (le semidee che volano sui cambi di battaglia nella mitologia norrena, e scelgono i guerrieri più valorosi da condurre ad Odino). Nessuno però aveva ancora osservato l'ascia della guerriera, che a un'analisi più attenta si è rivelata proveniente dal Baltico meridionale, in una regione coincidente con la Polonia attuale. Di origine slava è anche la tumulazione scelta, una camera sepolcrale con all'interno un'ulteriore bara. Una moneta araba del decimo secolo inumata con la donna è servita a datare la tomba.
L'analisi dell'ascia sepolta insieme alla donna. | MIRA FRICKE MELTING POT. La scoperta conferma che le popolazioni slave e vichinghe furono a lungo strettamente collegate da combattimenti, scambi migratori e relazioni commerciali, e che la presenza di guerrieri slavi in Danimarca fu - soprattutto in epoca medievale - molto significativa. Ma è anche un'ulteriore prova di quanto lo studio delle donne guerriere in Scandinavia sia un campo complesso e pieno di insidie. STRUMENTO O ACCESSORIO? Non si può dire con certezza se le donne partecipas- sero in modo attivo ai combattimenti, o se la sepoltura con l'ascia non facesse invece parte di rituali funebri condivisi. Di rado le tombe femminili includono lance o frecce, e le asce al loro interno sono spesso immacolate, come se non fossero state usate in battaglia. Allo stesso modo, è sempre possibile che nuovi armi venissero forgiate apposta per i funerali, o che le lame fossero semplicemente ben affilate.
QUESTIONI DI GENERE. Inoltre, molto spesso le ossa sono mal conservate, e l'attribuzione di una tomba a una donna avviene soltanto osservando il suo corredo. Lo stato precario di conservazione dei corpi rende anche difficile capire se i guerrieri al loro interno fossero morti in battaglia. Non è il caso della donna slava, che sulle ossa ben conservate non mostra ferite letali. TRA MITO E REALTÀ. Oltre a tutto questo, l'influenza culturale dei miti può portare a errate interpretazioni: libri e serie TV hanno reso popolare la figura delle Amazzoni nordiche, e questo mito delle vichinghe guerriere non ha necessariamente riscontri archeologici. Con una notevole eccezione - quella di un misterioso combattente sepolto in Svezia accanto a due cavalli sacrificati, uno scudo, una spada, punte di freccia e altre armi: nel 2017, l'analisi del DNA ha rivelato che si trattava di una donna. |
Post n°2525 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
I primi insediamenti in quota della preistoria africana Panorama delle Montagne di Bale, in Etiopia (agefotostock/AGF) I nostri antenati si adattarono a vivere a 4000 metri di altitudine già 45.000 anni fa, nel pieno dell'ultima glaciazione. Lo rivela l'analisi dei sedimenti del sito di Fincha Abera, in Etiopia, indicando notevoli capacità di adattamento all'ambiente I nostri antenati africani si erano stabiliti sulle montagne già nel periodo Paleolitico, circa 45.000 anni fa, nel pieno dell'ultima glaciazione. Lo hanno scoperto Bruno Glaser, della Martin Luther University Halle-Wittenberg di Halle, in Germania, e colleghi di un'ampia collaborazione internazionale, studiando i resti preistorici delle Montagne di Bale, in Etiopia. nuove informazioni sull'inizio degli insediamenti preistorici in quota, in contrasto con le valuta zioni fatte finora, che ritenevano più probabile che gli insediamenti paleolitici fossero concentrati a basse quote. I dati indicano perciò una notevole capacità di adattamento fisico e culturale alle condizioni ambientali avverse. Quella studiata è infatti una regione nel sud dell'Etiopia piuttosto inospitale. Posta a circa 4000 metri di quota, oggi è caratteriz- zata da un'aria molto rarefatta, quindi povera di ossigeno, da precipitazioni frequenti e da un'elevata escursione termica tra giorno e notte. E 45.000 anni fa erano lande fredde e con molti ghiacciai. finora si ipotizzava che gli esseri umani si fossero stabiliti in questa regione afro-alpina solo in un'epoca molto posteriore e per un periodo di tempo limitato", ha spiegato Glaser. diverso. Da anni Glaser e colleghi studiano alcuni affiora- menti rocciosi nel sito di Fincha Habera, sulle Montagne di Bale, da cui hanno estratto diversi reperti archeologici, come manufatti in pietra, frammenti di argilla, e perline di vetro. Analisi più approfondite dei sedimenti con metodi geochimici e glaciologici hanno fornito ora una caratterizzazione completa di resti di materiale biologico e di nutrienti presenti nei suoli, nonché delle possibili condizioni di temperatura, umidità e livello di precipitazioni della zona durante il Paleolitico. Insieme alla datazione al radiocarbonio i dati così raccolti hanno permesso di stimare da quante persone era occupato il sito e per quanto tempo. Ne emerge un modello assai articolato della vita di questi nostri antichi antenati. Il sito di Fincha Habera è stato occupato in un'epoca non ben definita tra 47.000 e 31.000 anni fa. Si trovava al limite di un ghiacciaio: ciò garantiva agli abitanti abbondanza d'acqua, mentre probabil- mente le condizioni a basse quote erano troppo secche per la sopravvivenza. Per quanto riguarda il cibo, sembra invece che il nutrimento principale fosse il ratto-talpa gigante, un roditore di grandi dimensioni molto diffuso nella zona. Semplice da catturare, grazie anche alla facilità di reperire ossidiana per fabbricare utensili e armi in pietra, l'animale forniva il nutrimento necessario in una regione così difficile. infine un secondo insediamento umano iniziato 10.000 anni a.C.: i campioni di suolo contengono per la prima volta escrementi di animali da pascolo, il che indica probabilmente l'avvento di nuovi metodi di sostentamento e sfruttamento del territorio. (red) |
Post n°2524 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
30 luglio 2019Comunicato stampa Fiori tra il cemento: come sono cambiate le piante che crescono nel centro di Bologna Fonte: Università di Bologna Eliotropio purpureo - Heliotropium amplexicaule centovent'anni le specie verdi che vivono dentro la cerchia delle mura sono quasi triplicate, ma sono aumentate soprattutto quelle aliene a discapito di quelle originarie del territorio. A rivelarlo è il confronto tra un catalogo botanico di fine Ottocento e una nuova mappatura fatta da ricercatori dell'Alma Mater Nel 1894 al botanico bolognese Lucio Gabelli venne un'idea: creare un catalogo delle piante che crescono in città. Così iniziò ad attraversare in lungo e in largo il centro storico di Bologna - all'epoca ancora cinto dalle mura medievali - registrando le specie vegetali che incontrava sulla sua strada: quelle che animavano i giardini, quelle che crescevano ai bordi delle carreggiate, quelle che spuntavano tra le crepe dei muri. Ad un certo punto trovò persino un eliotropio purpureo (Heliotropium amplexicaule): un fiore originario del Perù che in qualche modo era riuscito ad arrivare fino al cuore dell'Emilia. dell'Università di Bologna ha deciso di ripetere lo stesso esperimento per capire quanto e come sono cambiate le piante urbane. Ripercorrendo i passi di Gabelli, gli studiosi hanno catalogato tutte le specie che crescono oggi nel centro storico bolognese, tra parchi, viali, marciapiedi, colonne e palazzi. E lungo il loro percorso hanno ritrovato anche l'eliotropio purpureo: da oltre un secolo il fiore peruviano continua a sbocciare, anno dopo anno, nello stesso punto. tra i due cataloghi - quello ottocentesco di Lucio Gabelli e quello contemporaneo dei ricercatori bolognesi - mostra che negli ultimi centovent'anni la flora urbana di Bologna è cambiata radicalmente. "Il riscaldamento del clima, i cambiamenti dell'architettura cittadina e il progressivo intervento dell'uomo sull'ambiente urbano hanno modificato in maniera profonda la biodiversità floristica bolognese", conferma Annalisa Tassoni, docente dell'Università di Bologna che ha coordinato lo studio. "Un cambiamento che ha visto il moltiplicarsi di specie aliene, introdotte soprattutto come piante ornamentali, a scapito di quelle native della zona, che si sono ridotte in modo significativo". Reports, rivista del gruppo Nature - emerge infatti che le specie che abitano il centro storico bolognese sono quasi triplicate, passando dalle 176 di fine Ottocento alle 477 di oggi; allo stesso tempo è però più che raddoppiato il numero di quelle aliene, passando dal 12% al 30% del totale. "Questi vasti cambiamenti sono legati probabilmente alla profonda trasformazione del centro storico di Bologna nell'ultimo secolo: la scomparsa delle aree coltivate e delle mura medievali, la cementifica- zione, le ampie ricostruzioni del secondo dopoguerra", dice ancora la professoressa Tassoni. "Tutti questi eventi hanno portato alla scomparsa delle specie legate all'economia agraria di un tempo, come i cereali e gli alberi da frutto. In compenso l'introduzione su larga scala delle piante ornamentali, nei giardini e sui balconi, ha permesso a moltissime specie non originarie del territorio di diffondersi e radicarsi". "tipicità" per la flora bolognese. L'aumento delle specie aliene non è però necessaria- mente negativo. "Nei centri storici cittadini l'ambiente naturale è spesso quasi del tutto assente", spiega Mirko Salinitro, ricercatore dell'Università di Bologna e primo autore dello studio. "In questi contesti le specie aliene sono a volte le uniche in grado di colonizzare spazi che altrimenti resterebbero vuoti, creando così habitat che possono favorire ad esempio i preziosi insetti impollinatori". A resistere sono insomma le piante - locali o aliene - capaci di sopravvivere in ambienti che, complice anche l'aumento delle temperature, diventano sempre più ostili. Bologna ci si può imbattere in una felce (Dryopteris filix-mas) che spunta dalla colonna di un portico, in macchie di Euphorbia prostrata che si allargano tra le crepe dei marciapiedi, in famiglie di ciombolino comune (Cymbalaria muralis) che si arrampicano sulle pareti dei palazzi o in cespugli di bocca di leone (Anthirrinum majus) che fioriscono tra i mattoni rossi delle mura medievali. E se invece si cerca il luogo che ancora custodisce il più alto livello di biodiversità tra i confini della città storica? La risposta è semplice, confermano i ricercatori: l'Orto botanico dell'Università di Bologna. rivista del gruppo Nature, con il titolo "Impact of climate change and urban development on the flora of a southern European city: analysis of biodiversity change over a 120-year period". Tassoni e Mirko Salinitro del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali e Alessandro Zappi del Dipartimento di Chimica "Giacomo Ciamician", a cui si aggiunge Alessandro Alessandrini dell'Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna |
Post n°2523 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
07 agosto 2019Comunicato stampa In Italia negli ultimi 40 anni l'aria è più pulita Fonte: Cnr/Univ.Studi Milano ©Veronica Manara L'Università degli Studi di Milano e il Consiglio nazionale delle ricerche hanno analizzato per la prima volta la visibilità orizzontale dell'atmosfera, scoprendo che, nelle zone più inquinate del Paese, la frequenza dei giorni con visibilità sopra i 10 o i 20 km è più che raddoppiata negli ultimi 40 anni, grazie soprattutto alle norme emanate per ridurre l'inquinamento. La pubblicazione su "Atmospheric Environment" Negli ultimi quarant'anni l'atmosfera in Italia è diventata più limpida, e l'aria può considerarsi "più pulita": queste le conclusioni a cui sono giunti un gruppo di ricercatori del Dipartimento di scienze e politiche ambientali dell'Università degli Studi di Milano e dell'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac), pubblicate di recente su Atmospheric Environment. utilizzato i dati di una variabile meteorologica che non era mai stata studiata in modo esaustivo in Italia, cioè la visibilità orizzontale in atmosfera, molto condizionata dal livello di inquinamento atmosferico. La visibilità orizzontale è importante in diversi ambiti tra cui quello del traffico aereo, tanto da venire monitorata continuamente da molti decenni in tutte le stazioni del Servizio Meteorologico dell'Aeronautica Militare, dove un operatore addestrato valuta, mediante una serie di riferimenti, quale è la massima distanza alla quale un oggetto risulta visibile. frequenza delle giornate con "atmosfera limpida" (ovvero con visibilità superiore a 10 e a 20 km) in varie aree del territorio italiano nel periodo 1951-2017. Questa frequenza è cambiata fortemente in tutte le aree considerate e i cambiamenti più grandi si sono avuti nelle aree più inquinate del Paese tanto che, in zone come il bacino padano, la frequenza dei giorni con visibilità sopra i 10 o i 20 km è più che raddoppiata negli ultimi 40 anni. pati, le emissioni di sostanze inquinanti sono fortemente cambiate negli ultimi decenni e, a una rapida crescita delle emissioni negli anni '60 e '70, dovuta al tumultuoso sviluppo economico di questo periodo, ha infatti fatto seguito un'altrettanta rapida decrescita dovuta ad una serie di norme emanate per ridurre l 'inquinamento atmosferico nelle nostre città. evidenza in modo molto efficace il grande successo che si è avuto in Italia sul fronte della lotta all'inquinamento atmosferico -, commenta Maurizio Maugeri, docente di Fisica dell'atmosfera all'Università di Milano - Tuttavia, non dobbiamo scordare che si può e si deve fare ancora di più per completare il percorso di risanamento che i dati di visibilità in atmosfera documentano in modo così efficace". è che esse mettono in evidenza in modo molto efficace il legame tra i livelli del particolato atmosferico e la trasparenza dell'atmosfera. "Le emissioni degli inquinanti che concorrono al particolato atmosferico, oltre a danneggiare la nostra salute, vanno infatti ad interagire con la radiazione solare riflettendola verso lo spazio causando un raffreddamento della superficie terrestre provocando, quindi, un effetto opposto a quello dei gas climalteranti, come l'anidride carbonica", aggiunge Veronica Manara del Cnr-Isac. registrato fino agli inizi degli anni '80 ha quindi parzialmente nascosto l'aumento di temperatura causato delle sempre più alte concentrazioni di anidride carbonica. Negli ultimi decenni, invece, grazie alle politiche di contenimento delle emissioni, la progressiva riduzione degli aerosol ha determinato un aumento della radiazione solare che giunge a terra "smascherando" il vero effetto dei gas serra. Infatti, mentre tra gli anni '50 e la fine degli anni '70 la temperatura nel nostro Paese è rimasta pressoché costante, dagli anni '80 ad oggi è cresciuta di quasi mezzo grado ogni decennio. |
Post n°2522 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
24 luglio 2019COMUNICATO STAMPA Le proprietà magnetiche delle foglie e dei licheni per il monitoraggio della qualità dell'aria Le proprietà magnetiche di foglie e licheni forniscono indicazioni sull'accumulo e sulla composizione delle polveri sottili atmosferi- che inquinanti. Con uno studio multidisciplinare, si è eviden- ziata la relazione tra le proprietà magnetiche dei licheni e la concentrazione di metalli pesanti campionati in una zona fortemente antropizzata della periferia est romana Un team di ricercatori dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell'Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Regione Lazio (ARPA Lazio) ha analizzato i licheni campionati a Roma nel 2017 in via di Salone, una zona caratterizzata da molteplici sorgenti di inquinamento atmosferico, tra cui frequenti combustioni abusive all'aperto. La ricerca, pubblicata sulla rivista "Science of the Total Environment" del gruppo Elsevier, ha evidenziato le proprietà dei licheni in qualità di recettori e accumulatori di polveri sottili. Aldo Winkler, "sono costituite da sostanze micrometriche sospese in aria, presenti in atmosfera per cause naturali o antropiche. Di solito, quando si parla di particolato sottile, ci si riferisce al cosiddetto PM10, costituito da particelle dal diametro uguale o inferiore a 10 millesimi di millimetro. Oggi si presta attenzione a polveri di dimensioni ancora minori, il PM2.5, e persino nanometriche, le più pericolose. In questo studio sono stati analizzati licheni autoctoni e trapiantati nella zona studiata interpretandoli - appunto - come recettori e accumulatori di PM". sulla salute e sul benessere della popolazione, negli ultimi anni si sono diffuse metodologie innovative di ricerca e analisi sul PM, tra cui quelle utilizzate in questo studio, che sono complementari all'utilizzo delle centraline. derivante da processi di combustione - per esempio nel caso di emissioni industriali e veicolari - e di abrasione, come per i freni e le rotaie", prosegue l'esperto. "Il biomonitoraggio con metodi magnetici consiste nel considerare foglie e licheni come collettori di particolato atmosferico che ne modifica sensibilmente le proprietà magnetiche, fornendo così una rapida indicazione dell'inquinamento atmosferico da polveri sottili e consentendo la differenziazione tra PM derivante da sorgenti naturali da quello derivante da sorgenti antropiche. Il confronto tra proprietà magnetiche, analisi chimiche e osservazioni al microscopio elettronico" prosegue Aldo Winkler, "ha permesso di delineare, nei licheni campionati, l'importante accumulo di particolati magnetici micrometrici, a livello compositivo simili alla magnetite, legati alla presenza di metalli pesanti quali rame, zinco, nichel, cromo e piombo. Questi risultati ribadiscono l'elevato grado di antropiz- zazione della zona studiata, caratterizzata da molteplici sorgenti di inquinamento", conclude l'esperto. effettuate presso il Laboratorio di Paleomagnetismo dell'INGV, sono rapide e a costi contenuti; in ambito urbano, focalizzando l'interesse sul traffico, le ricerche proseguono in collaborazione con il Dipartimento di Biologia Ambientale dell'Università degli Studi di Roma Sapienza, relazionando le misurazioni magnetiche ai tratti funzionali delle foglie di leccio campionate in aree urbane soggette a intenso traffico veicolare. |
Post n°2521 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Supernova colpì la Terra da 150 anni luce: la conferma 11:34 13 Maggio 2017 Quasi un anno fa un team di esperti aveva prodotto una serie di importanti prove sull'esplosione di una supernova accaduta all'incirca 2,6 milioni di anni fa. Un nuovo recente studio dell'Università del Kansas, ha oggi confermato l'evento, spostandone, però, la datazione. La ricerca, pubblicata sulle pagine dell'Astro- physical Journal, ha preso in esame le conseguenze che questo evento, così potente, avrebbe avuto sulla natura e gli animali sul nostro pianeta. Le prove sono in abbondanza, come spiegano gli esperti, anche se l'impatto dellasupernova sulla Terra non sarebbe stato così disastroso come si potrebbe pensare. La distanza stimata dalla supernova è di 150 anni luce, ben lontana dalla cosiddetta "zona di uccisione" fissata a 25 anni luce di distanza dalla Terra. I raggi cosmici della supernova sarebbero comunque penetrati all'interno dell'atmosfera terrestre con effetti notevoli soprattutto sulla troposfera. Ogni essere vivente sulla Terra subì l'equivalente di numerose radiografie con gravi rischi per la salute e possibili mutazioni genetiche. |
Post n°2520 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte. la NASA NASA: scoperta sensazionale sul Sistema Solare, la conferenza stampa 14:04 11 Aprile 201 Una nuova conferenza stampa della NASA riguarderà il tema degli oceani extraterrestri, i bacini d'acqua che potreb- bero nascondersi in diversi corpi celesti nel Sistema Solare. Nuovi dati sono stati raccolti dall'Agenzia Spaziale, grazie ai telescopio spaziale Hubble, alla sonda Cassini e verranno resi noti il 13 aprile alle 20 ore italiane. Le nuove scoperte, annunciano gli esperti, daranno nuovo impulso all'esplorazione spaziale ed in special modo dei satelliti, dove sarebbero presentioceani di acqua liquida. Ma quali saranno, nello specifico, le scoperte che laNASA renderà pubbliche? Il comunicato è davvero breve, anche se si possono leggere dei chiari riferimenti al tema dell'incontro che, come detto, riguarderà i "mondi oceanici". Nel testo pubblicato, inoltre, si aggiunge come la scoperta appena realizzata incentiverà non poco la ricerca di vita extraterrestre. Un breve accenno è riservato anche all'Europa Clipper Mission, la missione che nel 2020, attraverso un robot, analizzerà le caratteristiche di Europa, la luna di Giove il cui sottosuolo ghiacciato nasconderebbe un vasto bacino di acqua liquida. Insomma non ci resta che aspettare. |
Post n°2519 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 16 gennaio 2020Comunicato stampa Un secondo possibile pianeta attorno alla stella più vicina al Sole Fonte: InafRappresentazione artistica del sistema planetario attorno a Proxima Centauri (Crediti Lorenzo Santinelli) Uno studio pubblicato sulla rivista "Science Advance" di un gruppo internazionale di astronomi, di cui fa parte anche Marco Damasso dell'Istituto Nazionale di Astrofisica, presenta i risultati di nuove osservazioni di Proxima Centauri, la stella più vicina al Sistema solare. Le nuove osservazioni hanno permesso di rivelare la presenza di un possibile pianeta di piccola massa in orbita a una distanza 1.5 volte maggiore di quella che separa la Terra dal Sole. La scoperta è stata possibile grazie ai dati raccolti con spettrografi installati in Cile Nuove osservazioni di Proxima Centauri, la stella più vicina al Sistema solare ad una distanza di 4,2 anni luce, hanno permesso di rivelare la presenza di un possibile pianeta di piccola massa in orbita a una distanza 1.5 volte maggiore di quella che separa la Terra dal Sole. La scoperta, pubblicata oggi sulla rivista Science Advances, è stata realizzata da un team interna- zionale di ricercatori guidati da Mario Damasso, dell'Istituto Nazionale di Astrofisica a Torino, e Fabio Del Sordo, dell'Università di Creta e dell'Istituto di Astrofisica del FORTH, grazie ai dati raccolti con spettrografi installati in Cile. Rispetto ad altri candidati scoperti attorno a stelle più lontane, Proxima c -come è stato battezzato- è un pianeta ideale per essere osservato con tecniche complementari che potranno confermarne l'esistenza nell'immediato futuro. volte meno massiccia del Sole attorno alla quale nel 2016 è stato scoperto Proxima b, un pianeta probabilmente roccioso in orbita nella fascia di abitabilità. Proxima b è stato rivelato analizzando le velocità radiali della stella ottenute da spettri raccolti con gli spettrografi UVES e HARPS installati, rispettivamente, sul Very Large Telescope array a Cerro Paranal e sul telescopio da 3,6m a La Silla, entrambi dello European Southern Observatory in Cile. A seguito di questa scoperta ulteriori osservazioni di Proxima sono state effettuate nel 2017 con HARPS nell'ambito del progetto Red Dots, con l'obiettivo di studiare più approfonditamente il sistema planetario. totale di circa 17 anni di osservazioni, il team coordinato da Damasso e Del Sordo, che include anche altri ricercatori dell'INAF di Torino, ha rivelato la presenza di un segnale con periodo di 5,2 anni compatibile con l'esistenza di un secondo pianeta con massa minima circa 6 volte la massa della Terra e con orbita di 1.5 unità astronomiche di raggio (ovvero circa la distanza media tra Marte e Sole). periodico appare molto convincente, e i dati a nostra disposizione non sembrano indicare una chiara causa fisica alternativa alla presenza di un pianeta, anche se ancora non possiamo completamente escludere altre spiegazioni" commenta Damasso. "È infatti molto difficile rivelare un pianeta con una massa minima relativamente piccola e un periodo orbitale così lungo utilizzando soltanto la tecnica basata sulle velocità radiali" sottolinea Damasso. "Un segnale come quello che abbiamo trovato potrebbe essere dovuto a un ciclo di attività magnetica di Proxima, che può imitare la presenza di un pianeta. Quindi, per confermare la nostra scoperta sono necessarie altre osservazioni nel corso dei prossimi anni". un nuovo tassello che aggiungiamo alla conoscenza del sistema planetario più vicino al nostro". Poi aggiunge: "Il segnale che abbiamo trovato è al limite delle capacità strumentali. Nel nostro studio dimostriamo che i dati astrometrici presi dal satellite Gaia avranno un ruolo determinante per confermare l'esistenza del pianeta. La posizione dell'orbita di Proxima c non è facilmente spiegabile con i modelli di formazione ed evoluzione planetaria attualmente disponibili, e quindi si aprono molte domande su come possa essersi formato poco più di 5 miliardi di anni fa." rivista Science Advances nell'articolo A low-mass planet candidate orbiting Proxima Centauri at a distance of 1.5 au di Mario Damasso, Fabio Del Sordo, Guillem Anglada-Escudé, Paolo Giacobbe, Alessandro Sozzetti, Alessandro Morbidelli, Grzegor Pojmanski, Domenico Barbato, R. Paul Butler, Hugh R. A. Jones, Franz-Josef Hambsch, James S. Jenkins, Maria José Lopez-Gonzalez, Nicolas Morales, Pablo A. Pena Rojas, Cristina Rodriguez-Lopez, Eloy Rodriguez, Pedro Amado, Guillem Anglada, Fabo Feng, Jose F. Gomez |
Post n°2518 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Neuralink: i passi avanti nella connes- sione cervello-computerNeuralink, una delle società di Elon Musk, ha presentato i progressi compiuti nella realizzazione di interfacce uomo-computer che dovrebbero potenziare elettronicamente le facoltà del nostro cervello. Collegare il cervello al computer: sicuri che sia una buona idea?|© MICHEL ROYON / Elon Musk ha mantenuto la promessa e, dopo un paio d'anni di lavoro nel chiuso dei sui labo- ratori, lo scorso martedì ha presentato ai media il primo dispositivo impiantabile nel cervello e, teoricamente, in grado di leggere nel pensiero. Quello mostrato alla California Academy of Science di San Francisco è il primo risultato concreto ottenuto da Neuralink, la start-up fondata nel 2017 dal patron di Tesla e Space X, con l'obiettivo di scongiurare quella che sembra essere la più grande paura di Musk: il possibile sorpasso dell'intelligenza artificiale ai danni di quella umana.
Il robot chirurgo di Musk: può impiantare gli elettrodi sotto la guida di un medico umano| NEURALINK Secondo quanto dichiarato ai media, Neuralink avrebbe messo a punto un'interfaccia in grado di collegare cervello umano e computer così da farli lavorare in simbiosi. Se questo risultato fosse confermato, aprirebbe la strada a un filone bio-tecnologico del tutto nuovo. In uno scenario alla Matrix, l'uomo potrebbe quindi espandere le proprie capacità grazie alla potenza dell'informatica. Potremo quindi imparare a suonare la chitarra come Slash o a giocare a calcio come Cristiano Ronaldo semplicemente "caricando un program- ma" nel nostro cervello? Probabilmente no. Ma potremo curare in maniera molto più efficiente le malattie neurodegenerative e sostituire con i computer parti di cervello, e relativi processi in caso di danni o traumi. L'interfaccia messa a punto da Neuralink è composta da elettrodi sottilissimi, più sottili di un capello, in grado di intercettare l'attività dei neuroni e, in alcuni casi, di sostituirsi ad essi. tecnologia saranno in campo medico: le nuove interfacce potranno, per esempio, essere utilizzate al posto dei tradizionali impianti per la stimolazione cerebrale profonda sui pazienti affetti da morbo di Parkinson. La tecnologia di Neuralink offre infatti la possibilità di iniettare fino a 1.000 volte più elettrodi rispetto ai sistemi disponibili oggi. CHIRURGIA ARTIFICIALE. Durante l'evento lo stesso Musk ha spiegato come Neuralink abbia anche messo a punto un robot chirurgo in grado di effettuare l'innesto degli elettrodi sotto la guida di un medico in carne ed ossa. pazienti umani potrebbero iniziare nel 2020: Musk prevede l'installazione di 4 dispositivi su persone paralizzate a causa di gravi danni alla colonna vertebrale. L'obiettivo è quello di ottenere dati utili per la messa a punto di nuovi protocolli che possano, in futuro, restituire a questi pazienti almeno parte della loro mobilità. testato solo su animali: si credeva solo su topi, ma secondo quanto ammesso dallo stesso Musk durante le domande alla fine della conferenza, Neuralink avrebbe avviato una collaborazione con l'Università della California per sperimentare la propria tecnologia anche sulle scimmie. Musk ipotizza un futuro dove l'impianto di questi dispositivi sarà alla portata di tutti e sicuro come la cura di una carie. Ma siamo proprio sicuri che farci "potenziare" da un computer sia la soluzione per metterci al riparo dalle minacce di una (eventuale) intelligenza artificiale fuori controllo? |
Post n°2517 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'internet Un relitto del Rinascimento giace perfet- tamente conservato sul fondo del Baltico Un mercantile che solcò i mari all'epoca delle caravelle di Colombo mostra ancora ponte, sartie e scialuppa per l'equipaggio nelle posi- zioni originarie. La nave è stata fotografata e filmata da ogni angolazione, ma la sua identità rimane misteriosa. I fondali limacciosi del Mar Baltico hanno cullato per almeno cinque secoli il relitto di una grande nave rinascimentale, andata a picco negli anni in cui Cristoforo Colombo veleggiava sulle sue caravelle. Un gruppo internazionale di archeologi marini è riuscito a fotografare il reperto nel dettaglio, scoprendolo praticamente inalterato dal passare del tempo. Le acque povere di ossigeno di questo mare hanno protetto il legno da animali e batteri che di solito lo colonizzano e lo riducono in polvere. UN'ANOMALIA NELLA SABBIA. I primi sospetti sulla presenza di un relitto erano emersi da una indagine sonar dei fondali da parte dell'Amministrazione marit- tima svedese, nel 2009. A marzo, una spedizione internazionale di scienziati guidati dall'Università di Southampton (Regno Unito) ha calato due robot-archeologi sul posto per effettuare riprese e fotografie ad alta definizione del relitto, che sono state poi usate per ricreare le sue sembianze tridimensionali. I risultati di quell'esplorazione sono appena stati diffusi.
I resti del mercantile rinascimentale dall'alto. Nel 2016 lo stesso gruppo di archeologi aveva scoperto decine di vascelli di epoca bizantina sui fondali del Mar Nero. | DEEP SEA PRODUCTIONS/MMT Profondità e coordinate del relitto non sono state diffuse, per evitare visite sgradite in questa delicata fase di studio. Lo scafo della nave risulta intatto dalla chiglia al ponte; ben conservati anche gli alberi ed alcune sartie (i cavi fissi di rinforzo). Adagiata sul ponte accanto all'albero maestro è stata rinvenuta un'imbarcazione più piccola, che doveva servire all'equipaggio per avvicinarsi a riva. C'È ANCHE L'ANCORA. Sul relitto sono stati trovati anche alcuni attrezzi del mestiere, come una pompa di sentina per rimuovere l'acqua dalla parte più bassa della nave, un argano per raccogliere le corde e un'ancora, che ha permesso di datare il reperto tra la fine del 15esimo e l'inizio del 16esimo secolo. L'analisi del legname dello scafo programmata per i prossimi mesi dovrebbe consentire di datare il materiale con uno scarto massimo di un anno dalla sua acquisizione umana: in pratica, si capirà in che anno la nave fu messa in mare. Il relitto era probabilmente un mercantile, anche se munito di cannoni rotanti - per gli archeologi, una prova delle tensioni marittime dell'epoca. Era lungo 15-18 metri, poco meno della Santa Maria, la nave ammiraglia di Colombo con a bordo 52 uomini. Identità e costruttore della nave del Baltico rimangono ignote: per ora il suo nome è Okänt Skepp, "nave sconosciuta", in svedese. |
Post n°2516 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Spazio: scoperti enormi tunnel su Marte e sulla Luna ASTRONOMIA Angelo Petrone 18:24 27 Settembre 2017 Sia la Luna che Marte sono percorsi da lunghi tunnel di lava. Si tratta del risultato dell'antichissima attività vulcanica che un tempo caratteriz- zava i due corpi celesti e che sulla Terra ha portato a formazioni del tutto simili nelle Hawaii, in Islanda, in Australia, ma anche in Sicilia. La presenza di cunicoli anche su Marte e sulla Luna è nota da tempo e spesso ha generato leggende circa un'origine extra- terrestre. A scoprire queste particolari formazioni è stato un team di ricercatori dell'Università di Padova e di Bologna. Gli esperti hanno analizzato i campioni di lava sulla Terra paragonandoli con quelli provenienti da Marte e dalla Luna basan- dosi sui modelli ad alta risoluzione del terreno dei due corpi celesti. Marte e la Luna I dati mostrano come le condizioni di entrambi i corpi celesti, combinati con la gravità, possano dare vita a lunghi tunnel che su Marte potreb- bero raggiungere la larghezza di 250 metri mentre sulla Luna raggiungerebbero centinaia di chilometri di lunghezza. Ma come nascono i tunnel di lava? La formazione può essere favorita dall'overcrusted ovvero a seguito della presenza di fluido a bassa viscosità. La lava sviluppa una crosta dura che, addensan- dosi, porta alla formazione di un tetto di lava dura al di sopra del flusso di magma. Al termine del fenomeno eruttivo la formazione si svuota lasciando il tunnel libero. Un altro processo porta alla formazioni di tubi "inflated" nel momento in cui la lava si introduce in fessure tra la roccia già esistenti espandendole. Questi ambienti, sono protetti dalla radiazione cosmica e naturalmente dai piccoli meteoriti che possono colpire la superficie rappresentando, quindi, dei possibili habitat per gli esploratori del futuro. |
Post n°2515 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet. Pianeta Nove: una 'Super Terra'? L'ipotesi sull'oggetto più lontano del Sistema Solare ASTRONOMIA Angelo Petrone 7:56 1 Marzo 2019 Il Pianeta X, l'oggetto più distante nel Sistema Solare, potrebbe essere un corpo celeste "roccioso" cinque volte più grande della Terra. Lo studio. Il pianeta più lontano dei Sistema Solare? Potrebbe essere una super Terra. A rilevare un nuovo scenario sul misterioso Pianeta 9 è il California Institute of Technology (Caltech). Secondo gli studiosi l'oggetto più distante dal Solesarebbe un corpo celeste "roccioso" con un diametro pari a 5 volte quello della Terra e distante dal Sole circa 60 miliardi di chilometri. La nuova ipotesi è stata avanzata da Konstantin Batygin e Mike Brown, gli studiosi che nel 2016 avevano reso noto la prima pubblicazione sostenendo la possibilità dell'esistenza di questo possibile oggetto ai confini del Sistema Solare.
Pianeta Nove: una 'Super Terra'? L'ipotesi sull'oggetto più lontano del Sistema Solare Da allora il Pianeta 9 è stato protagonista di diverse ricerche ed ipotesi, la prima, pubblicata sull'Astronomical Journal, aveva stimato una probabilità su cinquecento che l'origine delle "strane" orbite dei pianeti oltre Nettuno sia derivante dalla nostra prospettiva di osservazione dalla Terra rispetto all'influenza gravitazionale di un grande pianeta, il cosiddetto "Pianeta Nove". L'ultimo studio, che sarà pubblicato a breve su Physics Reports, proietta centinaia di modelli su possibili evoluzioni dell'area più esterna del Sistema Solare, compresa la formazione di un pianeta di dimensioni minori rispetto a quanto preventivato in precedenza, collocandolo in una posizione più prossima al Sole. La conformazione dell'oggetto sarebbe, ora, di un pianeta roccioso; ben lontano dal "gigante di ghiaccio" preventivato due anni fa. In ogni caso si tratta di supposizioni. |
Post n°2514 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Spazio: Pianeta 9 è un vagante catturato dal Sistema Solare? ASTRONOMIA Angelo Petrone 17:22 13 Gennaio 2017 Collocato ai margini del Sistema Solare, il cosiddetto Pianeta 9 ha riempito le pagine dei giornali scientifici per mesi. L'enorme corpo celeste si troverebbe ben oltre Plutone e potrebbe essere stato catturato, in un lontano passato, dall'attra- zione gravitazionale. I pianeti vaganti sono oggetti molto comuni nello spazio e caratterizzati da un'orbita non legata ad alcuna stella. Ebbene secondo i ricercatori dell'Asi, il misterioso Pianeta 9 potrebbe essere proprio un oggetto di questo tipo formatosi all'esterno del nostro Sistema Solare, ma "entrato" in un periodo successivo. dal Sistema Solare? A dimostrarlo è una serie di ben 156 simulazioni. Secondo la ricerca quando unpianeta vagante entra in contatto con un sistema solare, nel 60% dei casi ne fuoriesce, magari portandosi con sé un piccolo pianeta, mentre nel restante 40% rimane all'interno, orbitando intorno alla stella. Il Pianeta 9, secondo i ricercatori, potrebbe trovarsi ad una distanza pari a mille volte quella che intercorre tra la Terra ed il Sole: una lontananza notevole, ma che non impedirà agli scienziati di confermarne, o meno, l'esistenza. |
Post n°2513 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Spazio: la super Terra GJ 625 b è potenzialmente abitabile ASTRONOMIA Angelo Petrone 16:09 14 Ottobre 2017 Un nuovo esopianeta, classificabile come "super Terra", è stato scoperto grazie ad una ricerca dell'Instituto de Astrofísica de Canarias. Si tratta di un corpo celeste, potenzialmente abitabile, le cui caratteristiche sono state riportate su un articolo pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics. Orbitante intorno allastella GJ 625, ad una distanza di 21.2 anni luce dal Sole, il corpo celeste ha unamassa pari 2.8 quelle terrestri e si trova ad una distanza di 0.078 unità astronomiche dalla stella, nel pieno dell'area di abitabilità: la fascia nella quale i pianeti possono ancora ospitare acqua allo stato liquido. mente abitabile La scoperta, anticipata già alcuni mesi fa, ha richiesto l'utilizzo dei dati di ben 151 spettri ad alta risoluzione della stella. Si tratta di informazioni raccolte nel giro di tre anni e mezzo grazie allo spettrografo Harps-N, installato sul Telescopio nazionale Galileo. GJ 625 b, questo il nome dato al pianeta, rap- presenta una delle super Terre più interessanti, soprattutto per la sua minima distanza dalSistema Solare. La massa, pari a meno di tre volte quella della Terra, configura questo pianeta come una delle super-Terre meno massicce mai scoperte. La posizione rispetto stella Gliese 625, una nana rossa, rende il pianeta potenzialmente adatto ad ospitare forme di vita, anche se è la presenza di un'atmosfera a determinare l'abitabilità. |
Post n°2512 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
10 dicembre 2019 Fonte: articolo riportato dallInternet Dalla Gallia all'antica Roma, la via del legno Ventiquattro tavole di quercia utilizzate come fondamenta di un portico romano di epoca imperiale rinvenute a Roma durante i lavori per la Metro C, in via Sannio, dietro San Giovanni in Laterano. orientale e risalgono al 40 d.C. Le indagini scientifiche effettuate dall'Istituto per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle ricerche di San Michele all'Adige, vicino a Trento, su committenza della Soprintendenza speciale di Roma, hanno determinato la datazione grazie alla dendrocronologia, la scienza che studia gli anelli di accrescimento degli alberi. Lo studio di Mauro Bernabei e colleghi è stato pubblicato su "PLOS One". quattro metri di lunghezza a dare la risposta: i legni erano destinati a fungere da casseforme di fondazione di un ricco portico di una proprietà appena fuori le mura Aureliane. E nell'Appennino centrale non era probabilmente semplice trovare fusti con tali proprietà. Il trasporto su una percorrenza così lunga sotto- linea ancora l'efficienza della macchina logistica dell'epoca, in grado di far viaggiare anche merce ingombrante dai confini dell'Impero fino al cuore della città eterna. |
Post n°2511 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall?Internet NASA: scoperta sensazionale sul Sistema Solare, la conferenza stampa ASTRONOMIA Angelo Petrone 14:04 11 Aprile 2017 Una nuova conferenza stampa della NASA riguarderà il tema degli oceani extraterrestri, i bacini d'acqua che potrebbero nascondersi in diversi corpi celesti nel Sistema Solare. Nuovi dati sono stati raccolti dall'Agenzia Spaziale, grazie ai telescopio spaziale Hubble, alla sonda Cassini e verranno resi noti il 13 aprile alle 20 ore italiane. Le nuove scoperte, annunciano gli esperti, daranno nuovo impulso all'esplorazione spaziale ed in special modo dei satelliti, dove sarebbero presentioceani di acqua liquida. Ma quali saranno, nello specifico, le scoperte che laNASA renderà pubbliche? Solare, la conferenza stampa Il comunicato è davvero breve, anche se si possono leggere dei chiari riferimenti al tema dell'incontro che, come detto, riguarderà i "mondi oceanici". Nel testo pubblicato, inoltre, si aggiunge come la scoperta appena realizzata incentiverà non poco la ricerca di vita extraterrestre. Un breve accenno è riservato anche all'Europa Clipper Mission, la missione che nel 2020, attraverso un robot, analizzerà le caratteristi- che di Europa, la luna di Giove il cui sottosuolo ghiacciato nasconderebbe un vasto bacino di acqua liquida. Insomma non ci resta che aspettare. |
Post n°2510 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 09 dicembre 2019Comunicato stampa Cosmologia: i buchi neri avrebbero meno massa di quanto ritenuto finora. Trovata una nuova relazione con le galassie ospitanti Fonte: Scuola normale Pisa / Inaf La scoperta degli astronomi Francesco Shankar della Università di Southampton e Viola Allevato della Scuola Normale di Pisa e INAF-Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio di Bologna è stata pubblicata da Nature Astronomy e ha profonde implicazioni sulla nostra compren- sione dell'evoluzione e crescita dei buchi neri super massicci Un team internazionale di astronomi guidato da Francesco Shankar della Università di Southampton, in stretta collaborazione con Viola Allevato, della Scuola Normale Superiore di Pisa e di INAF - Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio di Bologna, ha recente- mente scoperto un nuovo modo di pesare le masse di buchi neri supermassicci, "oggetti" cosmici presenti nel cuore della maggior parte, se non di tutte, le galassie, con una massa superiore di milioni di volte, e a volte miliardi, quella del Sole. Lo studio è stato pubblicato da Nature Astronomy. Una delle proprietà più interessanti dei buchi neri supermassicci è che, pur essendo questi oggetti piccoli rispetto alle galassie che li contengono - come un chicco d'uva rispetto all'intera Terra - la loro massa varia in base alla galassia che li ospita: più grande è la galassia, più grande è il buco nero super- massiccio. Il ché è sorprendente visto che non ci si aspetta che le dimensioni di un chicco d'uva siano influenzate da quelle del pianeta sul quale cresce! una sorta di "co-evoluzione" tra buco nero supermassiccio e galassia che li contiene, che tuttavia rimane ancora sconosciuto. oggetti galattici proposto dal team di scienziati si è basato sullo studio della distribuzione spaziale delle galassie. La misurazione accurata delle masse di buchi neri supermassicci viene infatti solitamente ottenuta misurando la velocità delle stelle o del gas circostanti. Questo è incredibilmente impegnativo e richiede telescopi estremamente sensibili e osservazioni complesse. nuovo. Le galassie e i buchi neri supermassicci al loro centro risiedono in aloni di materia oscura, che costituisce circa il 30% della materia contenuta nell'Universo. Simulazioni numeriche mostrano che la massa di questi aloni correla con la loro distribuzione spaziale: aloni di materia oscura più massivi sono caratterizzati da una distribuzione che si discosta maggiormente da una distribuzione random e sono quindi più raggruppati nello spazio. Questo significa che misurare quanto gli aloni di materia oscura siano raggruppati nell'Universo può essere utilizzato per "pesare" gli aloni. Visto che ci aspettiamo che i buchi neri più massicci siano ospitati da aloni più massicci, allo stesso modo possiamo utilizzare questo metodo per "pesare" i buchi neri supermassicci misurando il loro - e delle galassie che li ospitano - raggruppamento nello spazio. Confrontando le simulazioni con dati recenti sulla distribuzione spaziale delle galassie Il team di scienziati ha mostrato che i buchi neri supermassicci, hanno, in media, meno massa di quanto si pensasse in precedenza. Sono insomma un po' meno "massicci" del previsto. Questo risultato consente di fissare l'efficienza radiativa dei buchi neri supermassicci, cioè la loro efficienza di conversione di massa in energia, a valori del 10-20%, percentuale che suggerisce buchi neri ruotanti su sé stessi con velocità da moderate ad alte. Il fatto che i buchi neri siano meno massicci di quanto si pensasse, implica inoltre un segnale in onde gravitazionali prodotto durante la fusione tra buchi neri più debole e quindi più difficile da misurare per strumenti attualmente disponibili. |
Post n°2509 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet. Integralmente. 15 gennaio 2020 Ecco gli xenobot, i primi robot fatti di cellule viventi Una delle cellule di rana manipolate per ottenere gli xenobot (Douglas Blackiston, Tufts University) Un gruppo di ricercatori statunitensi ha assemblato cellule di embrioni di rana in una struttura in grado di muoversi auto- nomamente, autoripararsi e anche trasportare un piccolo carico. Le applicazioni potrebbero essere numerose, dalla raccolta delle microplastiche alla pulizia dei vasi sanguigni. Non sono animali, anche se sono fatti di cellule estratte da embrioni di rana. E non sono neppure robot in senso stretto, anche se sono stati assemblati in laboratorio. Quelli descritti sui "Proceedings of the National Academy of Sciences" dai ricercatori della Tuft University e dell'Università del Vermont sono xenobot, cioè esseri viventi, lunghi pochi millimetri, che possono muoversi verso un obiettivo, autoripararsi dopo essere stato sezionati e all'occorrenza trasportare un piccolo carico. nuovo, perché finora i tentativi di assemblare organismi artificiali hanno avuto come modello l'anatomia di animali esistenti, mentre in questo caso si tratta per la prima volta di progettare da zero macchine biologiche. Deep Green dell'Università del Vermont, su cui "gira" un algoritmo evolutivo in grado di creare migliaia di candidati modelli di nuove forme di vita. Per raggiungere l'obiettivo assegnato dai ricercatori, per esempio la locomozione in una direzione, il computer aggrega alcune centinaia di cellule simulate in una varietà di forme corporee, rispettando le basi della biofisica e ciò che possono fare le singole cellule. modelli più promettenti sono stati selezionati per i test in vivo. A questo scopo, gli autori hanno raccolto cellule staminali da embrioni di rane africane della specie Xenopus laevis, e le hanno poi separate in singole cellule e "rimontate" al microscopio secondo il progetto elaborato dal computer. in natura, le cellule hanno iniziato a interagire tra loro. Le cellule prelevate dalla cute hanno formato un'architettura più passiva, mentre quelle prelevate dal cuore si sono autoorganizzate in modo da produrre un movimento ordinato in avanti. sapersi muovere in modo coerente, esplorando il proprio ambiente acquatico per giorni o addirittura settimane. Un'altra capacità sorprendente dei nuovi xenobot è che se vengono divisi in due parti, si autoriparano spontaneamente. Infine, sono completamente biodegradabili. di questi robot viventi, precluse alle macchine convenzionali", ha spiegato Michael Levin, direttore del Center for Regenerative and Developmental Biology della Tufts University, coautore dello studio. "Per esempio, possono cercare composti nocivi o contaminanti, raccogliere microplastiche negli oceani, percorrere i vasi sanguigni per ripulirli dalle placche aterosclerotiche". anche l'opportunità di capire di più su come le cellule comunicano e si connettono tra loro, con profonde conseguenze sia per la scienza computazionale sia per la biologia. "Una grande questione in biologia è capire quali sono gli algoritmi in base ai quali si stabilscono forma e funzione dell'organismo", ha aggiunto Levin. "Sappiamo che il genoma codifica per le proteine, ma non sappiamo ancora in che modo questo hardware permette alle cellule di cooperare per produrre anatomie funzionali in condizioni ambientali tra loro molto differenti". zato i nostri xenobot è, dal punto di vista genetico, puro DNA di rana, ma essi sono forme viventi completamente diverse dalle rane dal punto di vista anatomico", ha concluso il ricercatore. "Per questo è lecito chiedersi: che cosa esat- tamente determina l'anatomia che le cellule concorrono a realizzare? E che cos'altro sono in grado di costruire queste cellule?". (red) |
Post n°2508 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: Geo, articolo riportato dall'internet 10 dicembre 2019Comunicato stampa Uno studio rivela la morfologia di un'area vulcanica sottomarina nel Canale di Sicilia Fonte: Ingv©Agf/Copernicus Sentinel data (2018)/ESA Un team di ricerca dell'INGV ha identificato e caratterizzato morfologicamente due campi vulcanici sottomarini situati a poche decine di chilometri dalle coste di Sciacca, nel Canale di Sicilia, con l'obiettivo di migliorare la stima della pericolosità vulcanica. Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista "Frontiers in Earth Science" ha permes- so di migliorare le conoscenze del Graham Volcanic Field, un'area vulcanica attiva finora poco conosciuta situata nel Canale di Sicilia, circa 40-50 chilometri a largo di Sciacca (AG). La ricerca, curata da Danilo Cavallaro e Mauro Coltelli, ricercatori dell'Osservatorio Etneo dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanolo- gia (OE-INGV), ha consentito di indagare un campo vulcanico situato relativamente vicino alla costa e in un braccio di mare molto frequen- tato dal traffico marittimo, con l'obiettivo di contribuire ad affinare la stima della pericolosità vulcanica che impatta sulla costa e sulla sicurezza della navigazione. Danilo Cavallaro, "è incentrata su uno studio morfo-batimetrico di dettaglio del Graham Volcanic Field. Si tratta di un campo vulcanico formato da una decina di piccoli edifici vulcanici, di cui fa parte anche il conetto che rappresenta ciò che resta dell'effimera Isola Ferdinandea, formatasi durante la ben documentata eruzione di tipo surtseyano del 1831". multibeam ad alta risoluzione e video ROV (Remotely Operated Vehicle) grazie ai quali è stato possibile realizzare un'analisi morfo- logica degli elementi vulcanici, erosivi e deposizionali che caratterizzano il campo vulcanico. I conetti giacciono su un fondale la cui profondità varia tra 150 e 250 metri e mostrano altezze variabili tra 100 e 150 metri, arrivando fino -9 metri sotto il livello del mare nel conetto dell'ex Isola Ferdinandea. Sono costituiti da materiale piroclastico poco consolidato, ad eccezione di guglie appuntite presenti sulla sommità di alcuni conetti, costituite da basalti massivi che rappresentano ciò che resta dei condotti d'alimentazione. L'analisi dei parametri morfometrici dei coni, unitamente a quella degli elementi erosivi e deposizionali e messa in relazione con le variazioni del livello marino, ci ha permesso di confinare l'età del vulcanismo cha ha originato il campo vulcanico Graham a circa 20.000 anni fa. edifici vulcanici sottomarini che costituiscono il Graham Volcanic Field", aggiunge il ricercatore Mauro Coltelli, "hanno permesso di avvalorare l'interazione tra tettonica e attività vulcanica nella formazione di questo campo vulcanico, poiché i conetti sono situati lungo allineamenti orientati da Nord-Ovest verso Sud-Est e da Nord a Sud, corrispondenti alle principali direttrici tettoniche del Canale di Sicilia". e caratterizzare morfologicamente anche un altro campo vulcanico, denominato Terribile Volcanic Field, costituito da una trentina di piccoli conetti di età probabilmente maggiore rispetto a quelli del Graham. marini e la forma dei conetti ha confermato la natura del vulcanismo che ha originato i campi vulcanici. Tale vulcanismo rappresenta una peculiarità perché si è impostato in corrispondenza di una fascia trascorrente che interessa una crosta continentale, e quindi in un ambiente geo- dinamico diverso da quelli tipici degli altri campi vulcanici, come ad esempio le zone di subdu- zione o le dorsali oceaniche. individuato numerosi depositi di frana sottomarina e depressioni causate dall'emissione violenta di gas (pockmarks) nei pressi dei due campi vulcanici studiati, suggerendo la presenza di fenomeni di frane sottomarine e diffusi rilasci di gas accumulato nel sottosuolo. |
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