Creato da mcalise il 13/05/2013

Civis

Discussione sulla democrazia, cittadinanza e partecipazione

 

 

No, cara Europa no, così non va!

Post n°93 pubblicato il 22 Febbraio 2016 da mcalise
 

Forse gli ultimi avvenimenti dovrebbero ulteriormente sollecitare una riflessione su una Europa a più velocità.

Un accordo sembra aver chiuso la vicenda Brexit. La cautela è necessaria, infatti esso diverrà effettivo solo se i britannici confermeranno la permanenza nella Unione Europea nel referendum previsto per il 23 giugno.

È prevalente la convinzione che l’uscita del Regno Unito sarebbe un danno per tutti. Per la UE la perdita di un partner, peraltro economicamente e politicamente rilevante, sarebbe un grave precedente. D’altra parte l’economia britannica vedrebbe penalizzate le sue esportazioni e vivrebbe un lungo periodo di incertezza, sgradita ai mercati finanziari, dovendo sostituire gli accordi europei con tanti singoli trattati bilaterali.

La soluzione concordata si può così riassumere: il Regno Unito si svincola dalla partecipazione a un’Unione “sempre più stretta”, dalla moneta unica e dal dovere di estendere i benefici del welfare ai migranti per i prossimi sette anni.

Questa vicenda, comunque si concluda, sferra un colpo al processo di unificazione europea che ha già avuto numerose battute di arresto ma che, finora, nessuno aveva apertamente accantonato. Lo ha fatto il Regno Unito ottenendo di poter avere un rapporto personalizzato che rinnega principi fondamentali come l’obiettivo di una integrazione sempre più stretta e l’idea stessa di cittadinanza europea. Ma se l’uscita del Regno Unito dalla UE sarebbe un precedente grave lo è altrettanto l’idea di un Europa “à la carte” dove qualsiasi membro, specialmente se influente, possa mettere in discussione i trattati ed i principi su cui si fondano.

L’ideale di un’Europa unita si è piuttosto appannato e tuttavia rappresenta, oggi più che mai, un traguardo necessario.

I padri fondatori Schuman, Adenauer, De Gasperi, quando le tremende ferite della seconda guerra mondiale erano ancora visibili, l’hanno voluta come area di pace e di benessere. Oggi lo scenario è cambiato e a quelle motivazioni se ne aggiungono nuove. Quando l’Europa unita ha fatto i primi passi, negli anni ’50, gli abitanti della terra erano 2,5 miliardi, oggi sono triplicati; paesi, un tempo emergenti, sono divenuti potenze mondiali, peraltro, molto competitive a livello economico. Non più di 3-4 paesi, da soli, possono operare in questo scenario, in un pianeta divenuto stretto sia per l’incremento demografico sia per la tecnologia che ha reso le comunicazioni istantanee. Per i paesi della vecchia Europa l’unione è una necessità e, per essere efficace, deve essere non solo economica ma anche politica.

Ma quest’idea non è sufficientemente sentita e bisogna interrogarsi sul perché. Forse è stato consentito l’ingresso di alcuni Paesi senza che avessero condiviso, fino in fondo, i principi dell’Unione. Come se l’allargamento fosse stato, di per se, un obiettivo. È ovvio vedere le opportunità economiche che l’Unione offre, ma esse non possono rappresentare l’unica motivazione. Penso, ad esempio, all’Ungheria che, unilateralmente, ha innalzato barriere per bloccare il flusso d’immigranti che, peraltro ,certo non aspiravano a stabilirsi in quel paese.

Forse occorre ripensare al processo di unificazione. Potrebbe essere utile un Europa a più velocità, che non escluda nessuno ma che abbia un nucleo (sei paesi?) che proceda nel percorso di maggiore integrazione, chi vuole potrà aderirvi anche momenti successivi. Insomma quella che è stata anche definita l’Europa dei due cerchi concentrici.

Forse è l’unica strada, realisticamente, percorribile per scongiurare un lento e progressivo logoramento dell’Unione e dei valori sui quali è nata.

Non sarà semplice, speriamo che ci siano leaders capaci di superare l’odierno impasse. Purtroppo, all’orizzonte, non si intravedono novelli Schuman, Adenauer, De Gasperi.

 
 
 

Napoli – Salerno. Scontro di campanili; pardon, di porti.

Post n°92 pubblicato il 12 Febbraio 2016 da mcalise
 

L’intenzione del Governo di riorganizzare le Autorità portuali prevede, per la Campania, l’accorpamento dei porti di Napoli e Salerno sotto un'unica Autorità. Subito è scattata la protesta, Salerno è tappezzata di manifesti che invitano a mobilitarsi contro lo “scippo”.

Ora, senza entrare nel merito specifico, occorre notare come si ripeta la vecchia, purtuttavia sempre viva, logica della difesa del proprio campanile, a prescindere. Occorre ricordare un vecchio ed emblematico detto salernitano “Si Saliern' tenesse 'o puort', Napule foss' mort'” (se Salerno avesse il porto, Napoli sarebbe morta). Ovviamente Vincenzo De Luca che, come è stato giustamente detto, sembra non voglia dismettere i panni di sindaco di Salerno per indossare quelli di Presidente della Campania; ha fatto sua la difesa dell’autonomia del porto salernitano.

I cittadini, mi riferisco a quelli non accecati dal campanilismo, che vogliono realmente comprendere i termini reali della questione stentano a raccapezzarsi. Tuttavia il comune buon senso dovrebbe far propendere per il principio “l’unione fa la forza”; ma questo principio, storicamente, ha difficoltà ad affermarsi al sud. Ci trasciniamo, acriticamente, con questa visione corta, sia in senso spaziale che temporale; eppure i risultati sono sotto i nostri occhi: non c’è statistica (economica, sociale, culturale) che non denunci il ritardo del meridione. Gli unici beneficiari di tutto ciò sono i notabili politici ed i loro portaborse.

Eppure vi sono le potenzialità per avviare un decisivo sviluppo socio-economico dei nostri territori. Esistono opportunità per risolvere i nostri problemi che non sono colte a causa dei nostri stessi problemi; un circolo vizioso che occorre spezzare. Certo non è facile giacché il problema è innanzitutto culturale: i nostri problemi dobbiamo risolverli, innanzitutto, noi. Certo è indispensabile l’intervento del Governo e dell’Europa ma a fronte di una mutata credibilità di uomini e progetti. Numerose sono le vicende che hanno intaccato la nostra credibilità: penso al cattivo o mancato uso dei fondi europei, agli sprechi e ai disservizi della sanità. Penso al modo pervicace con cui i politici locali, a differenza dei loro colleghi del centro-nord  ignorano colpevolmente le opportunità che possano limitare il loro potere come, ad esempio, la fusione dei comuni (v. “Una prova dell’inadeguatezza dei politici meridionali: la Fusione dei Comuni”)

Progetti necessariamente ambiziosi e credibili, che uniscano le istituzioni ed i cittadini anziché dividerli. Quando il possibile complesso è accantonato per il praticabile immediato ad avvantaggiarsi sono coloro che cercano il consenso elettorale ed a perdere sono i cittadini, specialmente i giovani.

 

 
 
 

L’immigrazione clandestina, il Governo invia “messaggi”

Post n°91 pubblicato il 10 Gennaio 2016 da mcalise
 

Negli ultimi giorni si è sviluppato un dibattito sul reato di immigrazione clandestina. Il Governo, su impulso del guardasigilli Orlando sembrava deciso ad abolirlo con il parere positivo del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Roberti che ha sottolineato come il reato di clandestinità non solo non ha agito da deterrente, ma ha addirittura ostacolato le indagini a vantaggio dei trafficanti.

Ma il Governo, pressato dal ministro Alfano, ha bloccato tutto; quest’ultimo ha  sostenuto che la depenalizzazione del reato "Trasmetterebbe all'opinione pubblica un messaggio negativo per la percezione di sicurezza in un momento particolarissimo per l'Italia e l'Ue”.

Occorre dire che il reato in questione, introdotto nel 2009, ha dimostrato, come era previsto da molti, la sua inefficacia come deterrente con una sanzione pecuniaria, di fatto, inapplicabile a chi fugge, spesso naufrago, da guerra e miseria. Anche l’Associazione nazionale magistrati lo ha bocciato e il suo Presidente, Sabelli, lo definisce un reato inutile che ingolfa i tribunali con migliaia di cause e costi enormi per lo Stato.

Insomma, qualsiasi posizione si abbia sull’immigrazione, è difficile non concordare che mantenere tale reato è inutile e, addirittura, controproducente.

Ora fa impressione che il Governo ne blocchi l’abolizione non per una valutazione di merito ma per una questione psicologica, per il messaggio che trasmetterebbe all’opinione pubblica appena informata dei tragici incidenti di Colonia. Evidentemente è lecito che un governo, nel varare i suoi provvedimenti, valuti anche il loro impatto emotivo ma può esso diventare determinante?

Ancora. Quando si potranno adottare provvedimenti razionali in un clima disteso, visto che sia il terrorismo internazionale sia l’immigrazione non sono fenomeni contingenti?

Un Governo più che ai messaggi non dovrebbe preoccuparsi dei provvedimenti che emana spiegandoli opportunamente all’opinione pubblica?

Il Presidente del Consiglio Renzi non aveva sostenuto che il terrorismo non avrebbe cambiato le nostre abitudini?

Ecco, fermare l’iter dell’abolizione del reato di clandestinità sembra più un gesto di debolezza che di buon senso. Lo stato d’animo popolare, l’emotività, seppur giustificata, non è una buona consigliera e un governo che se ne fa condizionare non dà buona prova di se.

Solo pochi mesi fa la Cancelliera Merkel ha deciso di accogliere i rifugiati siriani quando altri paesi innalzavano muri, ha rischiato l’impopolarità. Ma con la sua autorevolezza ha spiegato e convinto i tedeschi che era una iniziativa giusta e utile per il paese.

Ecco, forse, quello che preoccupa l’opinione pubblica sono gli annunci e contro-annunci, i sospetti di manovre elettoralistiche o di scambi politici, l’impressione di procedere a tentoni.

Insomma, sembra incredibile, il Presidente Renzi così solerte con i suoi tweets non riesce a comunicare la necessità di un provvedimento così motivato e, peraltro, sostenuto da molti nel Governo e nel suo partito.

 
 
 

Mediterraneo. Per il Mezzogiorno c’è una ragione di più

Post n°90 pubblicato il 08 Dicembre 2015 da mcalise
 

Si apre, il 10 c.m., la Conferenza “Med – Mediterranean Dialogues” con l’obiettivo dichiarato di fissare una agenda positiva che ponga le premesse per mettere ordine nell’area. Quattro sono i temi principali: prosperità condivisa, sicurezza condivisa, migrazioni, media cultura & società.

È utile qui ricordare la complessità dei problemi da affrontare, le opportunità e, infine , il ruolo dell’Italia.

La Conferenza dovrà discutere problemi vecchi e nuovi. Prima di tutto il terrorismo che tenta di imporsi come stato e l’emigrazione che da emergenza si è trasformata in problema di lungo periodo.

A mio avviso occorre anche riflettere sul ruolo della Turchia, un partner importante ma problematico per vari motivi: penso a Cipro e ai rapporti con la Grecia, al mancato rispetto dei diritti civili, alla negazione del genocidio armeno, al problema curdo e infine, all’”incidente” avuto con la Russia di Putin.

Inoltre l’attualità non deve far dimenticare che è fondamentale risolvere la questione palestinese.

Tuttavia non devono passare in secondo piano le nuove e positive opportunità che si stanno presentando: il raddoppio del Canale di Suez rilancia la centralità del Mediterraneo che si rafforzerà ulteriormente con la nuova “via della seta”. Un progetto ambizioso con cui la Cina, con invidiabile lungimiranza, intende realizzare due corridoi, uno terrestre ed uno marittimo, che la colleghi all’area euro-mediterranea. Infine fa ben sperare la vivacità economica del continente africano che, secondo il Fondo Monetario Internazionale, avrà tassi di crescita del 5,1 nel 2016 e del 5,3 tra 2017 e 2020.

C’è una storia recente da cui trarre insegnamento: è l’esperienza deludente del “processo di Barcellona” (1995). Esso aveva l’obiettivo condivisibile e ambizioso, forse troppo, di armonizzare, la dimensione politica (sicurezza e stabilità), con quella economica (accordi e zone di libero scambio) e sociale (cultura, conoscenza, sviluppo dei diritti civili e politici) fra i paesi UE e i paesi terzi del Mediterraneo.

Per quest’ultimo. tornando ad oggi, sembra che vi sia un rinnovato interesse. Il Governo italiano intende riportarlo ai primi posti della sua agenda, vi è la volontà di avere un ruolo importante nella soluzione delle varie crisi, dando priorità a quella della dirimpettaia Libia che sarà oggetto di una conferenza internazionale specifica che si terrà a Roma il prossimo 13 dicembre.

I rapporti con i paesi della sponda sud del mediterraneo sono buoni; in essi sono impegnate varie aziende italiane con Eni ed Enel in prima fila. È evidente che tutto ciò deve avvenire in un quadro di sicurezza e collaborazione e, a tal fine, la cultura è fondamentale; quindi sono da incrementare tutti gli scambi e tutte le attività ad essa legate.

I settori potenzialmente interessati sono diversi: industria, commercio, cultura, ambiente, salute. Penso, per fare solo alcuni esempi: allo sviluppo della portualità, del trasporto intermodale; all’alimentazione e a tutto ciò che comporta (agricoltura, allevamento, pesca, industria alimentare, ricerca); alla ricchezza di siti archeologici dell’area che richiedono interventi specialistici e multidisciplinari e possono divenire, dove già non lo sono, forti attrattori turistici a beneficio delle popolazioni locali; al ruolo delle Università; potrei continuare.

A proposito del nostro ruolo, Fernand Braudel nel suo saggio “Mediterraneo”, agli inizi degli anni ottanta, scriveva: “Qui [nel Mediterraneo] l'Italia trova il senso del proprio destino: è l'asse mediano del mare, e si è sempre sdoppiata, molto più di quanto non si dica di solito, tra un'Italia volta a Ponente e un'altra che guarda a Levante. Non vi ha forse attinto per molto tempo le proprie ricchezze? Naturale è quindi per lei la possibilità, e naturale il sogno, di dominare il mare in tutta la sua estensione.”

L’Italia, per storia, cultura e posizione geografica, può e deve avere un ruolo importante. E sarebbe illusorio e sbagliato non giocarlo nella e con l’Unione Europea dove il nostro Paese deve assolvere a una funzione di stimolo e di (ri)equilibrio fra l’Europa continentale e quella mediterranea. Ciò non deve escludere quei rapporti bilaterali che rientrino nell’orizzonte strategico di Italia-Europa-Mediterraneo. In questo contesto il ruolo del meridione, nel “sistema Italia” e senza alcuna sterile contrapposizione nord-sud, potrà essere fondamentale. Oggi c’è una ragione di più perché il Mezzogiorno costituisca il punto di partenza per il rilancio dell’intero Paese. È una responsabilità nazionale ma, alla classe dirigente meridionale, tocca avere un ruolo attivo e propositivo, deve essere consapevole che occorre abbandonare vecchie logiche miopi. Solo guardando ad un orizzonte europeo e mediterraneo sarà possibile assicurare concretamente, all’intero Paese, un avvenire di benessere.

 

 
 
 

Che rabbia la Campania dei fiori nel deserto!

L’articolo di Stefano Vergine “Fiori nel deserto” (L’Espresso del 10-12-2015) fa il punto sulla situazione economica della Campania. In esso sono evidenziati due aspetti: il risveglio di una flebile ripresa e la vivacità di alcune lodevoli iniziative imprenditoriali.

Quest’ultime destano un filo di speranza subito però soffocato dalla rabbia. Cerco di spiegarmi.

Nella graduatoria del Pil pro capite del 2014 fra le Regioni italiane, la Campania risulta al terzultimo posto con un valore che è circa la metà di quello dell’Emilia-Romagna. Le previsioni 2016 prevedono una crescita del Pil dello 0,3% contro la stima del 1,3 di quello nazionale.

Pur con questi dati emergono, nell’articolo citato, accenni di ottimismo che non mi sembrano giustificati. È vero che un segno più è meglio di un segno meno ma risulta una crescita debole che, peraltro, conferma il crescente divario nord-sud. La leggera ripresa, trainata dall’esportazioni, sembra dovuta a fattori esogeni e non certo ad attive politiche di sviluppo.

L’autore sostiene che la situazione potrebbe migliorare e arriva a chiedersi (una speranza?) se la guerra all’IS porterà nuove commesse al polo aeronautico campano e alla Fincantieri di Castellamare di Stabia. Credo si debbano cogliere altre opportunità piuttosto che quelle offerte dalla guerra che, auspicabilmente, sono effimere.

Si segnalano, fortunatamente, imprenditori capaci che, specialmente nel settore alimentare, vedono crescere fatturato ed esportazioni.

Ed infine, non per importanza, ci sono energie nuove, esempi di creatività che, in un contesto difficile cercano di emergere. Il rapporto Infocamere registra 214 imprese innovative nel 1° trimestre 2015 in Campania di cui 109 nella sola provincia di Napoli.

Insomma, è questo il commento amaro: nulla di veramente nuovo. Emerge una Campania a due facce: una attiva e l’altra in “letargo”, per usare la parola del Censis.

Quella attiva vede migliaia di persone “tirare la carretta” e, onestamente, darsi da fare; emergono giovani capaci e creativi che hanno voglia di intraprendere. Ma che pena pensare che per qualcuno che riesce ad emergere, tanti devono abbandonare sopraffatti dall’ambiente “ostile”. Come tradizione, le eccellenze rimangono lodevoli eccezioni che non riescono a divenire “sistema”.

Poi c’è l’altra faccia quella di un ceto medio autoreferenziale dedito ai propri affari e alle proprie professioni che limita il proprio impegno civile agli eventi salottieri. Ancora, una politica che sopravvive nello status quo per incapacità o interesse o per entrambe le cose.

Insomma la speranza, che non deve morire, e contrastata dalla rabbia nel vedere tante risorse umane sprecate, mortificate.

Insomma occorrerebbe, a mio avviso, una visione, un progetto che coniughi Meridione, Europa e Mediterraneo. Invece le Regioni meridionali procedono in ordine sparso, il masterplan di Renzi non sembra avere quel carattere innovativo ed aggiuntivo che occorrerebbe.

Insomma affinché i “fiori nel deserto” diventino una serra la strada da percorrere è ancora lunga.

 
 
 

Terrorismo: nessuno può tacere!

Post n°88 pubblicato il 20 Novembre 2015 da mcalise
 

Credo che sia uno di quei momenti in cui ciascuno di noi deve dare testimonianza della propria partecipazione umana e civile. Così come cittadino, semplicemente, vorrei esprimere la mia opinione su quest’ondata di attacchi terroristici attuati da fanatici sedicenti islamici.

Il primo pensiero è per le vittime, lo sgomento dinanzi a tanta barbarie è grande. Inoltre molti di noi, in queste tragiche ore, hanno pensato ai figli, ai parenti e agli amici, sparsi per l’Europa: a Parigi, a Londra, a Barcellona, a Roma, … . Liberi di circolare e vivere liberamente in qualsiasi paese dell’Unione; questa è una delle tante conquiste da difendere da chi vorrebbe costringerci a modificare la nostra vita, i nostri costumi e a chiuderci nelle nostre case.

Occorre superare lo sgomento e chiederci: cosa fare? Consapevoli che dalla risposta dipende l’avvenire e la quotidianità di tutti noi.

Come europei dovremmo pretendere con forza che l’Europa agisca unita, cosa che non è. L’unità, di fronte alla minaccia terroristica, non ha alternative e dipende, soprattutto, dal senso di responsabilità dei governanti. Non si può, unilateralmente, dichiarare guerra, alzare muri e poi, chiedere la solidarietà dei partners. Si decide e si agisce insieme. L’Europa deve avere una politica estera comune, oggi più che mai, particolarmente attenta ai Paesi arabi. Una politica che sia “premiante” nei confronti dei paesi moderati e che isoli i paesi che in modo occulto o palese favoriscono in qualsiasi modo i terroristi. Non sono più tollerabili egoismi, meschinità e interessi di bottega.

Come italiani dobbiamo essere consapevoli che contro questo terrorismo nessun paese europeo può combattere da solo. Dobbiamo rivendicare con forza la nostra civiltà e i nostri costumi; senza alzare barriere. Dobbiamo, con spirito aperto, proporci per quanto abbiamo di buono e prendere quanto di buono gli altri possono darci. Spesso critico nei confronti del Presidente del Consiglio Renzi, oggi dico che, in questo frangente, ha assunto una posizione saggia. Nessun isterismo, nessun colpo di testa, nessun passo in dietro nel campo dei diritti e nessun stravolgimento delle nostre vite. Tuttavia, dopo le dichiarazioni, il Governo deve, energicamente, sollecitare gli alleati nel senso suddetto. Constato che sul piano della sicurezza interna ci si stia muovendo in modo opportuno e ho l’impressione, positiva, che la nostra intelligence funzioni.

Ai mussulmani bisogna parlare con chiarezza. Sappiamo che sono anch’essi vittime, tuttavia devono impegnarsi maggiormente. Non basta sostenere la loro estraneità al terrorismo, non basta sostenere che il Corano condanna la violenza. Bisogna convincere coloro che vivono fra noi, nelle democrazie europee, ad assumere un impegno attivo, a formulare una condanna pubblica e netta.

Il Papa ci esorta a non chiudere le porte; un invita al dialogo e alla riflessione; l’Occidente non è senza colpe.

Purtroppo, superati i momenti emotivi, noto una scarsa mobilitazione; ma il mio è un punto di vista parziale e periferico. Sarà perché, ma personalmente non la considero una giustificazione, molti legano terrorismo e immigrazione. Vorrei che di tutto ciò non si parlasse solo in televisione o su i social networks. Maggiormente su quest’ultimi risaltano le opinioni urlate, le ricette semplicistiche, gli atteggiamenti meschinamente egoistici o, addirittura, razzistici.

Occorrerebbe che localmente i sindaci, le sedi periferiche dei partiti e sindacati, le parrocchie, le associazioni fossero promotrici di riunioni per dibattere il tema. Non si può essere neutrali, timidi: nessuno può tacere.

 
 
 

De Luca contro la barbarie e l’inciviltà, e non è Maurizio Crozza!

Post n°87 pubblicato il 19 Novembre 2015 da mcalise
 

I fatti sono ormai noti. I consiglieri del Movimento cinque stelle hanno tentato di bloccare i lavori del Consiglio Regionale del 16-11-2015. Chiedevano che il Presidente De Luca riferisse in aula sulle ultime vicende giudiziarie che lo riguardano. In tal modo hanno ostacolato una adeguata commemorazione dei gravissimi attentati di Parigi e la discussione della legge “Riordino del Servizio idrico integrato ed istituzione dell’Ente idrico Campano”. Al Movimento cinque stelle si rimprovera, nella sostanza, il mancato rispetto delle Istituzioni e di ostacolare i lavori del Consiglio.

Il rispetto e la funzionalità delle Istituzioni è cosa serissima e non credo sia solo nelle mani

del M5S il cui comportamento, nell’occasione, è certamente da biasimare. Infatti nella citata seduta del Consiglio, in un clima di estrema confusione, è stata approvata l’importante legge sull’acqua. Ciò è avvenuto senza una adeguata discussione, senza alcun confronto; l’assemblea si è limitata ad una avvilente funzione notarile. La Presidente, Rosa D’Amelio, avrebbe dovuto essere la prima garante delle funzioni e del prestigio del Consiglio; così non è stato. Ormai numerosi segnali rivelano quanto gli organismi assembleari siano ritenuti un “chiacchierificio” che intralcia “chi decide” e “in consiglio non ha tempo da perdere”. Risulta così offuscata l’immagine dell’Assemblea privata di una delle sue funzioni principali: discutere realmente le proposte di legge per migliorarle valutando le modifiche richieste per poi decidere a maggioranza. Un Consiglio gestito in tal modo provoca un senso di impotenza in alcuni suoi membri di minoranza spingendoli ad atteggiamenti impropri e contribuendo ulteriormente all’appannamento della sua immagine.

Il Presidente De Luca, nel consueto appuntamento settimanale con Radio Kiss Kiss Napoli, commentando quanto accaduto, ha bollato di squadrismo i grillini e ha attribuito loro atteggiamenti ispirati «alla barbarie e all’inciviltà».

Perché la civiltà in Campania, direbbe un bravo comico, l’ha portata lui!

Ma anche la Presidenza della Regione è un’Istituzione da rispettare ed il primo a doverlo fare è il Presidente in carica. De Luca, investito da un mandato popolare, subordina tutto ai suoi obiettivi: regole, leggi, istituzioni. Attacca, con linguaggio arrogante e irridente, tutti coloro che osano criticarlo: i giornalisti sono sfessati, i colleghi di partito imbecilli, le opposizioni chiacchierone. Rispetto all’alternativa “governo delle leggi o governo degli uomini” egli ha una terza via: il suo governo. C’è da essere preoccupati per il futuro prossimo e non solo. Mi chiedo quali nuove leve di amministratori e di politici si formeranno nella cerchia di De Luca.

Penso che i cittadini avvertano quanto la democrazia sia in una crisi di cui non vediamo lo sbocco. Nel frattempo, almeno, sarebbero auspicabili linguaggi e comportamenti più responsabili. Per questo Maurizio Crozza, quando evidenzia magistralmente la particolarità di De Luca, mi strappa appena un sorriso amaro. E non è colpa del bravo comico.

 
 
 

Renzi governi il partito se è capace!

Post n°86 pubblicato il 16 Novembre 2015 da mcalise
 

Lo ha rifatto. Renzi commentando le ultime vicende giudiziarie di De Luca gli ha intimato “Governi se ne è capace!” così come aveva fatto con l’ ex-sindaco di Roma Marino.

Commette, così facendo, due errori. Il primo, di comunicazione; attesta la sua giovanile tracotanza, pensa di poter dare pagelle misurando l’attività altrui non si sa in quale arco temporale e in base a quali parametri. Il secondo errore è ancor più grave perché politico. Infatti il Segretario del PD sembra dimenticare che si tratta di esponenti del suo partito e, pertanto, ha garantito lui, già dal momento della candidatura, la loro capacità a governare. Non si tratta di eletti in paesini sperduti la qualità dei quali può sfuggire, ma non dovrebbe, al controllo, alla valutazione dei vertici del partito; parliamo dell’ex-sindaco della Capitale e di un Presidente di Regione.

È evidente che Renzi ha, a dir poco, trascurato la gestione del partito che è divenuto un organismo secondario e funzionale alla Presidenza del Consiglio. Il dibatto interno è stato ridotto ad uno scontro fra “impegnati” e “frenatori”; la minoranza interna, bollata come disfattista, è stata chiamata ad esprimersi sui provvedimenti già pubblicizzati con una sorta di prendere o lasciare, con qualche marginale contentino. Credo che il PD debba affrontare prioritariamente due problemi: rafforzare la figura del Segretario del partito e regolamentare diversamente le primarie.

Potrebbe realizzare il primo punto, rendendo incompatibile il ruolo di Segretario con la candidatura e quindi la carica di Presidente del Consiglio; in questo modo si rafforzerebbe il partito con un Segretario a tempo pieno. Un punto che sembra di difficile attuazione nell’attuale situazione.

Secondo punto. Nuove regole per le primarie dovrebbero stabilire puntualmente sia i requisiti minimi di candidabilità sia criteri più stringenti per l’accesso al voto. Primarie meglio regolate contribuirebbero, fra l’altro, ad alleviare lo spinoso problema del mancato controllo della periferia. Infatti quest’ultima è affidata a notabili locali che hanno le mani libere con un solo imperativo: raccogliere voti! Il che, evidentemente, è utile e poco importa se questi voti fanno capo ad un individuo e non al partito. Un atteggiamento dal respiro corto per due motivi. Primo, se muore il notabile (politicamente) perde il partito nel territorio. Secondo, pone il partito in condizioni di debolezza nei confronti dei maggiorenti locali provocando situazioni, a dir poco, imbarazzanti. È noto che molti circoli periferici sono scontenti; solo gli episodi maggiori, riguardanti le grandi città e le Regioni, compaiono sulle cronache nazionali.

Per quanto si possa essere critici sull’attività del Governo credo che sia incontestabile che Renzi ha operato più incisivamente come Presidente del Consiglio che come Segretario del PD.

Un leader, in tutti i tipi di organizzazione, si misura anche dalla capacità di tenere unita la squadra anche gestendo opportunamente le divergenze inevitabili in un grande partito. Renzi ha ottime possibilità di divenire un leader ma deve, con umiltà, lavorare su se stesso e sull’organizzazione interna. È necessario, anche per il bene del Paese, che governi il partito se è capace!

 
 
 

Le macroregioni non riducono la frammentazione territoriale

Post n°85 pubblicato il 29 Ottobre 2015 da mcalise
 

Si ritorna a parlare di macroregioni. Al Senato, nella seduta del 8-10-2015, il senatore Ranucci (PD) ha rilanciato la proposta di ridurre a 12 il numero delle Regioni suscitando critiche anche all’interno dello stesso PD. È stato rilevato che è ancora in corso l’iter della riforma costituzionale sull'assetto regionale e, ancor prima dell’approvazione si vorrebbe modificarla.

La proposta del senatore Ranucci comporterebbe, dal punto di vista costituzionale, la modifica dell’articolo 131 che elenca le attuali 20 regioni italiane, la riduzione del loro numero è motivata con i risparmi di spesa, una maggiore efficienza e lotta al malaffare.

Ora tale riduzione, da sola, non penso possa incidere sul malaffare che è capace di adattarsi a situazioni diverse; non conduce ad una maggiore efficienza che è più condizionata da altri fattori come, ad esempio, una chiara ripartizione dei compiti Stato/Regioni.

Rimane la riduzione di spesa che non può essere motivo di una modifica Costituzionale, di una così radicale variazione dei confini regionali. Infatti molti ritengono necessaria una riorganizzazione territoriale ma essa non può basarsi su un principio di mero risparmio economico, dovrebbe, invece, creare i presupposti per un maggiore e duraturo sviluppo dei territori interessati. Occorrerebbe partire dalla base: dai Comuni. L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli affermava “8000 Comuni in Italia sono troppi. Oltre a una riduzione della spesa bisogna pensare anche a una riduzione dei Comuni”. Come dargli torto, ma la motivazione economica non è sufficiente. Un ente locale con poche migliaia di abitanti non ha quella capacità politica/decisionale necessaria per soddisfare le esigenze dei propri cittadini e per interagire con autorevolezza con enti di livello pari o superiore.

Dovrebbe far riflettere il numero medio degli abitanti dei comuni italiani che è di soli 7.555. Se escludiamo dal computo le città metropolitane la media scende a 5.300!

Ora è evidente che questa frammentazione territoriale non è sostenibile sia in termini economici che di efficienza funzionale. La vicesegretaria del Pd Serracchiani, criticando la proposta sostiene “[…] siamo definiti il Paese degli 8 mila campanili. Piuttosto riaggreghiamo i Comuni piccoli, sotto i 10 mila abitanti”.

Allora perché il Governo e il partito di maggioranza non sono impegnati in questa direzione! Gli strumenti esistono: il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (DLgs n.267/2000)  da un lato impone che non si possano costituire comuni con meno di 10.000 abitanti, dall’altro fornisce, con la fusione, gli strumenti per la riduzione degli stessi.

La frammentazione non si riduce con le macroregioni la cui idea mi sembra un esercizio di ingegneria istituzionale. Esso testimonia, purtroppo, come si preferisca legiferare piuttosto che governare applicando, e facendo applicare, le leggi esistenti.

Per quanto riguarda il Mezzogiorno la proposta ha quei requisiti di eccezionalità che ricorda la lunga storia di interventi e leggi speciali, che non ne hanno rimosso i problemi.

Il Governo dovrebbe impegnarsi affinché si proceda al riassetto territoriale utilizzando le leggi esistenti. Si tratta di rimuovere ostacoli, a volte pretestuosi, superare resistenze, a volte, interessate. Occorrono politiche attive per, innanzitutto, convincere e premiare gli amministratori, le popolazioni che si attivano e, se occorre, “punire” le colpevoli inerzie.

 
 
 

Il Canone RAI in bolletta e la Costituzione

Post n°84 pubblicato il 24 Ottobre 2015 da mcalise
 

In attesa del testo ufficiale della legge di stabilità 2016 dobbiamo affidarci agli annunci, alle indiscrezioni. Strano l’iter della legge: prima una presentazione alla stampa con slides, poi a Bruxelles, e, prima o poi, al Capo dello Stato ed al Parlamento.

Una novità riguarderebbe il Canone Rai che si ridurrebbe dagli attuali 113,50 a 100 euro con addebito sulla bolletta elettrica della casa di abitazione.

L’aspetto che vorrei sottolineare è quello della sua destinazione. Il nuovo sistema di riscossione, con la riduzione dell'evasione fiscale, garantirebbe maggiori entrate che non andrebbero a finanziare la tv pubblica ma finirebbero nel fondo per la riduzione della pressione fiscale; una cifra stimata in circa 500 milioni di euro.

Si configura cosi una trasformazione del canone: da tassa per la fruizione di un servizio a imposta. Se così fosse si tratterebbe di un prelievo fiscale a quota fissa. Un ulteriore colpo al principio di progressività stabilito dall’articolo 53 della nostra Costituzione che recita al secondo comma “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Nel primo comma dello stesso articolo è scritto “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”; qui, viceversa, ci tratterebbe di una imposta che colpirebbe tutti nella stessa misura, indipendentemente dall’ammontare del reddito. Il modesto pensionato contribuirebbe al fondo per la riduzione della pressione fiscale nella stessa misura di un facoltoso professionista. Il principio della progressività discende da un valore ben più prezioso che si chiama equità; e non andrebbe ne aggirato ne sottovalutato.

 
 
 

Una prova dell’inadeguatezza dei politici meridionali: la Fusione dei Comuni

Non può passare inosservata la notizia che il 1° gennaio del prossimo anno saranno istituiti 20 nuovi Comuni frutto della fusione di 57. Quindi il 2016 si appresta, probabilmente, ha superare il “boom” delle fusioni del 2014 descritto nell’articolo “Fusione dei Comuni. Un'occasione perduta per il Sud”.

Ricapitolando: in due anni dal 1° gennaio 2014 al 1° gennaio 2016 si saranno fusi, in totale, 130 Comuni creandone 50 nuovi; il numero dei Comuni italiani risulta diminuito di 80.

Nella Fusione dei Comuni molti politici ed amministratori hanno visto la possibilità di affrontare positivamente la crisi generale e la crescente difficoltà degli enti locali.

Si tratta di una possibile e concreta riforma strutturale che parte dai territori, peraltro finanziata ed agevolata in varie forme. I comuni frutto della Fusione saranno più efficienti, potranno erogare maggiori servizi ai cittadini, aumenterà la loro capacità di stimolare lo sviluppo dei rispettivi territori, saranno interlocutori più “pesanti” per la Regione ed il Governo.

Ormai è opinione diffusa che Comuni piccoli non possano assolvere adeguatamente ai loro compiti, lo testimonia anche l’articolo 15 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali: “Salvo i casi di fusione tra più comuni, non possono essere istituiti nuovi comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti”. Insomma il numero di 10.000 abitanti è indicato come soglia minima. Viceversa l’Italia è estremamente frammentata; la media del numero di abitanti per Comune è di appena 7500. Alcuni esempi: i 158 Comuni della provincia di Salerno hanno, in media, meno di 7000 abitanti, i 78 della provincia di Benevento meno di 4000.

È intuitivo che un Comune con poche migliaia di abitanti, tanto più se circondato, come è frequente osservare, da altri di dimensione analoga non possa assicurare ai propri cittadini servizi adeguati e alcuna prospettiva di sviluppo.

Allora che le Fusioni siano discusse ed attuate solo nel Centro-nord del Paese non può essere frutto di una “distrazione”. È la qualità della classe politica meridionale che, pur in un panorama nazionale non esaltante, riesce a distinguersi per la sua colpevole inadeguatezza. Essa, infatti, gestisce le istituzioni locali in modo estrattivo ossia finalizzato ad “estrarre” rendite e consenso a loro favore. È grave che il Meridione, che più di altri dovrebbe profittare delle opportunità che si offrono, non le colga a causa della classe politica che noi meridionali abbiamo scelto. Cosa bisogna pensare, che occorra un evento straordinario, esterno, per superare questo immobilismo?

 
 
 

Cosa ci suggerisce la vicenda del Sindaco di Roma

Post n°82 pubblicato il 08 Ottobre 2015 da mcalise
 

Le note spese ed un uso disinvolto della carta di credito del Comune sembrano segnare la fine politica del Sindaco di Roma, Marino. È evidente che spetta alla Magistratura valutare la liceità dei suoi comportamenti ed ai cittadini romani, ma non solo trattandosi della Capitale, dare un giudizio sull’Amministratore.

La vicenda suscita almeno due interrogativi di valenza più generale:

  • Le modalità di selezione del personale politico/amministrativo;
  • Il ruolo dei partiti e la loro capacità di organizzazione politica.

Primo punto. Le ultime esperienze dimostrano che lo strumento di selezione che doveva garantire una maggior qualità della scelta, le primarie, non è stato all’altezza delle aspettative.

Ciò non deve tradursi in una loro bocciatura ma occorre rivederne le regole e, inoltre, spostare l’attenzione sulle candidature rispetto alle quali i partiti non possono essere deresponsabilizzati per cui l’eletto che da buona prova di se è espressione del partito altrimenti è figlio … delle primarie.

Secondo punto. Anche il PD, partito che più di altri ha una struttura organizzativa, non riesce a controllare, politicamente, la periferia. Non è un mistero, per esempio, che alcune candidature alle ultime elezioni regionali sono state subite dal centro. Inoltre il tentativo di rimuovere dall’incarico esponenti locali che sono risultati non all’altezza si è rivelato quasi impossibile, tanto più se scelti con le primarie.

Alla radice di tutto ciò c’è l’antipolitica che ha trovato linfa non solo nella diffusa corruzione e nell’incapacità di una parte della classe politica, ma anche nella motivata sensazione che essa fosse tesa prioritariamente a difendere i propri privilegi mettendo in secondo piano il bene comune. Dichiararsi estraneo alla “casta” è stato motivo sufficiente per catturare numerosi, a volte determinanti, consensi.

Un ruolo, a mio avviso devastante, ha giocato l’italica abitudine di buttare, con l’acqua sporca, anche il bambino; abitudine amplificata anche dalle lotta politica che puntava a delegittimare l’avversario più che ad affermare la giustezza delle proprie posizioni.

I mezzi d’informazione hanno badato a cavalcare l’ondata scandalistica preoccupandosi poco dei distinguo, dell’analisi. Ora occorre far comprendere, veramente, che la politica ed i politici servono e che la qualità di quest’ultimi è proporzionale al grado di partecipazione civica dei cittadini. Compito arduo; siamo in un circolo vizioso: la cattiva politica disincentiva la partecipazione e, al contempo, alimenta ribellismi sterili, d’altro canto la mancata partecipazione da spazio a politici inidonei.

Insomma servono i partiti ed i politici; le indispensabili riforme, gli aggiornamenti di queste istituzioni devono partire dalla forte riaffermazione, seppur in forme nuove, della loro necessità.

La promozione di un protagonismo civico esigente che imponga un cambio di passo ai nostri rappresentanti politici è un compito a cui tutti siamo chiamati. Esistono politici onesti e preparati; occorre che anche loro sentano come premiante esprimere, sostenere una progettualità di medio/lungo termine, affermare verità scomode.

È questa partecipazione civica, intesa come capacità di incidere sulla politica, che deve essere rivendicata con fermezza, che potrà produrre quella coesione necessaria a superare i momenti difficili, a risolvere problemi annosi. Tutto ciò potrebbe e dovrebbe essere ancor più vero, più visibile nelle comunità locali. Si accenderebbe un lume di speranza concreta perché fondata sull’impegno dei più. In un epoca così complessa, piena di rischi ed opportunità, penso che un rinnovato protagonismo civico possa servire a tutto il Paese e, ancor di più, al Mezzogiorno.

 
 
 

Il Masterplan: chi lo ha visto?

Post n°81 pubblicato il 30 Settembre 2015 da mcalise
 

Ci risiamo. Appena a inizio anno commentavamo, speranzosi, la nascita di un possibile Ministero del Mezzogiorno preannunciato da Renzi; lo stesso, ad agosto, si impegnava a presentare un masterplan per il sud entro il mese di settembre appena trascorso. Si sono dette e scritte tante parole e, ciò che più conta, create tante aspettative.

Gli ennesimi segnali di una disattenzione nei confronti della questione meridionale.

È utile fissare alcuni punti.

  • Non è pensabile, nel momento attuale, ipotizzare interventi significativi da parte del Governo preso, da una parte, a far si che l’economia nazionale non perda posizioni in Europa e, dall’altra, a tentare di ridurre il debito pubblico.
  • Ciononostante non è possibile che la questione sia risolta solo da forze endogene sia per la dimensione e complessità del problema sia perché la classe politica meridionale non si è rivelata all’altezza della sfida. L’inadeguatezza risalta maggiormente oggi che, pur appartenendo allo stesso partito, i Presidenti di Regione non pensano nemmeno a formulare un progetto comune per il Sud. In realtà non solo inadeguatezza ma, anche, la strenua difesa dei propri privilegi induce i politici a perseguire obiettivi “a breve”, più facilmente spendibili sul piano elettorale.
  • Non solo la classe politica ma tutta la classe dirigente, più in generale il ceto medio, dimostra un interesse episodico per il problema. L’opinione pubblica si accende saltuariamente o stimolata da studi come i Rapporti Svimez o da sterili polemiche che solleticano la suscettibilità fuori luogo di qualche occasionale paladino del sud. Sussulti, l’impegno serio che occorrerebbe è ben altra cosa.
  • La questione meridionale, che è questione socio/culturale prima che economica, è stata troppo chiusa in ambiti specialistici.

 Questi i fatti: che fare? Ovviamente non esistono ricette ma si può e si deve auspicare l’inizio di un percorso che segni una discontinuità radicale con il passato.

A me sembra che si debba cambiare la narrazione della questione meridionale. Essa deve uscire dalle aule universitarie, dai convegni e parlare, in primis, ai giovani ponendola per quella che è: “questione futuro” e futuro, si badi bene, italiano.

Non più solo barbosa narrazione storica, esposizione e studio di statistiche e ricerche (ovviamente utili) ma un intervento modernizzatore che veda protagonisti i giovani.

Coloro che a questo problema si sono dedicati: studiosi, professori, giornalisti dovrebbero divenire operativi, svolgere un’operazione di sensibilizzazione e di divulgazione. Uscire dalle aule, dai convegni, … e fungere da stimolo alla politica migliore.

Perché è vero che la questione meridionale è questione nazionale, ma è doveroso che i meridionali siano in prima fila nell’affrontarla. Insomma la creazione di una consapevolezza diffusa del problema è primo passo per la sua soluzione. La consapevolezza comporta, innanzitutto, due cose. Primo, un protagonismo civico esigente che imponga un cambio di passo ai nostri rappresentanti politici. Secondo, spingere per  una politica che esprima una progettualità di medio/lungo termine. Spesso sono state premiate le promesse (non sempre mantenute) di interventi concreti/immediati ma quando al possibile complesso si preferisce il praticabile immediato a pagarne le conseguenze è il futuro, sono i giovani.

Perché s’è illusorio pensare di risolvere la questione senza una efficace azione del Governo è altresì illusorio che ciò avvenga senza un forte, visibile impegno dei meridionali con la classe dirigente, non solo politica, in testa.

Storicamente gli interventi calati dall’alto non hanno dato i risultati attesi, spesso hanno prodotto “cattedrali del deserto”. Ciò perché si cercava di esportare, nel meridione, una modernizzazione senza incidere sulla cultura, sullo spirito civico dei meridionali.

È vero, sembra un circolo vizioso, lo sviluppo economico presuppone cultura e coesione sociale; ma è difficile sviluppare quest’ultime in assenza di minime condizioni economiche.

Spetta ai meridionali spezzare questa spirale; insomma un serio masterplan dobbiamo farlo noi!

 
 
 

Renzi: il meridione può attendere

Post n°80 pubblicato il 13 Settembre 2015 da mcalise
 

Il Presidente del Consiglio Renzi ha deciso di disertare l'inaugurazione della 79esima edizione della Fiera del Levante per assistere alla finale tutta italiana degli Us Open.

Delusi tutti coloro che speravano che dal suo discorso arrivassero importanti annunci. Infatti il discorso ufficiale del Capo del Governo è sempre importante e, nel caso specifico, arriva dopo che, agli inizi di agosto, è stato annunciato un “masterplan” per il Sud e dopo la pubblicazione dei dati sconfortanti dello SVIMEZ.

La scelta di preferire la pur importante finale di tennis ad un appuntamento così atteso fa chiarezza sull’importanza che l’irrisolta questione meridionale ha per questo Governo. Ciò esigerebbe, a maggior ragione, una classe dirigente locale, non solo politica, intenta ad una seria e costante assunzione di responsabilità; chiamata, ancora una volta, ad un impegno concreto e non discontinuo. La questione meridionale è dimenticata, risuona solo nei convegni e in meritevoli ricerche mentre dovrebbe orientare costantemente l’azione dell’intera classe dirigente meridionale.

Alcuni studiosi spiegano il divario socio-economico fra territori con la qualità delle istituzioni, politiche ed economiche. Quest’ultime possono essere inclusive, favorendo il coinvolgimento dei cittadini e quindi, con la crescita economica, anche lo sviluppo umano e civile; oppure estrattive, finalizzate cioè ad “estrarre” rendite e consenso a favore di una minoranza.

Come non riconoscere in queste definizioni le “elites estrattive”, come le definisce Fabrizio Barca, del nostro Sud. Esse, per mantenere i loro privilegi, devono preservare lo status quo, sono le eredi del Gattopardo disposte a cambiare tutto purché nulla cambi.

Un esempio. Esiste la concreta possibilità e l’impellente necessità, di un riassetto amministrativo/territoriale che razionalizzi la spesa, ottimizzi i servizi  ed amplifichi le potenzialità di sviluppo dei territori. Una riforma concreta, strutturale che parte dal basso; è la Fusione di più Comuni preesistenti finalizzata ad istituire un unico ente. Essa è prevista dal D. Lgs 267/2000 “Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali”. Nel centro-nord d’Italia questa opportunità è stata colta, solo nel 2014, da cinquantasette Comuni che si sono fusi creando ventiquattro nuove e più “robuste” realtà. Per i Comuni frutto della Fusione sono previsti anche finanziamenti aggiuntivi! Dobbiamo interrogarci sul come mai tutto ciò è avvenuto e avviene solo nel centro-nord.

E solo uno dei tanti esempi possibili; queste carenze sono la causa principale della persistenza del divario. Il primo problema del Sud è l’ordinaria, quotidiana gestione amministrativa e politica delle nostre istituzioni.

Capire e rimuovere le cause di una ordinarietà che non funziona sarebbe rivoluzionario.

In questo senso occorrerebbe una mobilitazione che denunci le carenze e solleciti le iniziative necessarie; in questo compito la classe dirigente migliore, gli intellettuali più sensibili devono assumere un ruolo attivo, operativo.

Certo la spinta dal basso non basta; anche il Governo deve essere sollecitato a fare la sua parte.

Ci troviamo in un momento potenzialmente favorevole: il Presidente del Consiglio e i Presidenti delle Regioni meridionali sono dello stesso partito; circostanza non essenziale ma che, tuttavia, potrebbe facilitare il necessario coordinamento.

Parlare della questione meridionale provoca un senso di scoramento, significa parlare del già detto e del già fallito; a fatica si cerca di reagire allo sconforto.

Se ne discute nei convegni ma, a testimonianza di come sia scarsa la consapevolezza della sua importanza, non è presente nelle discussioni di coloro che dovrebbero essere i principali interessati: i cittadini del Sud. Eppure la sua auspicabile soluzione riguarda il futuro non solo del Meridione ma dell’Italia intera; il futuro dei nostri giovani.

Presidente Renzi si goda la fantastica occasione sportiva, la finale giocata da Roberta Vinci e Flavia Pennetta e vinta da quest’ultima. Gioiamo anche noi, poi la festa finisce ma, finché non saranno i cittadini meridionali a battere un colpo, potrà sempre pensare: il meridione può attendere.

 
 
 

Perché il Sud è rimasto indietro?

Post n°79 pubblicato il 06 Settembre 2015 da mcalise
 

Da tempo, come molti, cerco di comprendere quali siano le cause del crescente divario fra il nord ed il sud dell’Italia. Non è, evidentemente, una domanda oziosa giacché senza una diagnosi non si possono neppure immaginare terapie efficaci. Questa estate mi è venuto in aiuto un saggio: “Perché il Sud è rimasto indietro” di Emanuele Felice docente di Storia economica nell’Università Autonoma di Barcellona.

L’autore, in modo documentato e convincente, tenta di dare una risposta alla domanda insita nel titolo. Espone l’evoluzione del pensiero meridionalista, dall’Unità ad oggi; classifica le varie tesi in accusatorie (è colpa dei meridionali) ed assolutorie (i meridionali sono vittime).

Sottolinea come il solo dualismo Nord-Sud non spieghi compiutamente  l’evoluzione delle regioni italiane dal 1861 in poi. Infatti non solo il meridione era arretrato rispetto al “triangolo industriale” (Piemonte, Liguria, Lombardia) ma anche il Nord-Est ed il Centro (NEC). Quindi bisogna considerare tre italie: Nord-Ovest, NEC, Meridione. Documenta, significativamente, come le regioni NEC abbiano colmato il divario con il Nord-Est, mentre il meridione sia rimasto indietro.

Poi argomenta la sua tesi: le classi dirigenti, o meglio "dominanti" meridionali hanno ritardato lo sviluppo economico e civile del Sud Italia a vantaggio dei propri interessi. Il Mezzogiorno è stato soffocato dalle sue stesse classi dirigenti che ne hanno orientato le risorse verso la rendita anziché verso usi produttivi, mantenendo gran parte della popolazione in condizioni socioeconomiche che favorivano i comportamenti opportunistici e quindi il clientelismo, la scarsa partecipazione, … . Quelli del Gattopardo, per intenderci, disposti a cambiare tutto purché nulla cambi.

Felice utilizza lo schema interpretativo già utilizzato da studiosi americani per  spiegare il diverso grado di sviluppo, i ritardi, di alcune regioni con la diversa qualità delle istituzioni, politiche ed economiche. Quest’ultime possono essere inclusive, favorendo il coinvolgimento dei cittadini e quindi, con la crescita economica, anche lo sviluppo umano e civile; oppure estrattive, finalizzate cioè ad “estrarre” rendite e consenso a favore di una minoranza. Utilizza questo paradigma per spiegare come gli enti locali (Regioni, Comuni), a parità di legislazione, conseguano risultati così diversi al Centro-Nord rispetto al Sud Italia.

Un saggio di non sempre agevole lettura per la ricchezza dei dati forniti e per la complessità dell’argomento che è spesso oggetto di semplificazioni o, peggio, di strumentalizzazioni.

Una lettura indispensabile per capire “dove siamo e perché”, per chi non voglia girare la testa dall’altra parte e credere che i problemi siano sempre e comunque altrove.

 
 
 

Regionali 2015. A Sapri vince De Luca e perde il PD

Post n°78 pubblicato il 01 Giugno 2015 da mcalise
 

Vincenzo De Luca ha vinto le regionali in Campania. In attesa, salvo colpi di mano, della sospensione qualcuno, con un dubbio senso di responsabilità, esulterà. A Sapri il PD perde 326 voti, il 33%, rispetto alle Europee 2014 (da 998 a 672 voti) e perde 142 elettori (17,5%) rispetto alle Regionali 2010.

Molto negativo il dato dell’affluenza. Solo il 41,41% dei sapresi si è recato alle urne, una percentuale di 10 punti inferiore al pur negativa affluenza regionale.

Dati che indicano un clima di generale disaffezione alla politica e che chiama in causa anche gravi e ben individuate responsabilità locali. Renzi non controlla la periferia del partito. Il Circolo PD di Sapri ne è un esempio:  non luogo di aggregazione e discussione, centro di informazione ed educazione, terminale per intercettare umori ed esigenze dei cittadini, ma comitato elettorali al servizio di pochi. A Sapri, manca completamente l’associazionismo civico.

 

Occorre registrare che il Movimento 5 Stelle, con una buona affermazione, risulta il secondo partito, dopo il PD, con il 15,8%.

 
 
 

Elezioni regionali 2015. Dilemma di un elettore campano di area progressista.

Post n°77 pubblicato il 15 Maggio 2015 da mcalise
 

Sono divenuto, mio malgrado, un “senzatetto” della politica; da sempre mi sono riconosciuto nella sinistra riformista, oggi progressista, ho naturalmente aderito al partito che oggi rappresenta quest’area politica in modo esclusivo. Parlo ,ovviamente, del Partito Democratico.

In verità l’avvento di Matteo Renzi, prima alla Segreteria poi al Governo, qualche problema me lo ha posto. Tuttavia c’è stata, da parte mia, un’apertura di credito, poiché ritenevo necessaria, in poche parole, una ventata nuova, un’accelerazione dell’azione di governo.

Poi ho visto l’affermarsi di una direzione molto personalistica, una politica degli annunci seguita dalla necessità di “fare per fare” come se si dovesse riempire un carniere di riforme badando meno alla qualità di ciascuna. Pare che l’obiettivo sia il partito della nazione, una formazione pigliatutto, che è cosa diversa dal rivendicare, giustamente, un ruolo nazionale.

Mi sembra che la tanto esaltata “rottamazione”, concetto che non ho mai apprezzato, abbia prodotto due soli risultati: emarginare la sinistra interna del partito e accelerare le spinte centrifughe nello stesso.

All’interno il confronto tra maggioranza e minoranza è scaduto a duello fra ottimisti/gufi o acceleratori/frenatori. Credo che certi atteggiamenti, da ambo le parti, abbiano inutilmente inasprito un confronto che poteva e doveva essere più produttivo.

Inoltre Renzi, o perché fortemente concentrato nel perseguimento degli obiettivi di governo o perché ha ritenuto accettabili queste spinte centrifughe, purché garantissero significativi pacchetto di voti, ha trascurato l’organizzazione politica del partito.

Alla periferia, specialmente al Sud, comandano i notabili locali che tali sono in quanto riescono a mobilitare pacchetti di voti. Quindi i Circoli non più luoghi di aggregazione e discussione, centri di informazione ed educazione, terminali per intercettare umori ed esigenze dei cittadini, ma comitati elettorali al servizio, appunto, dei notabili locali. La situazione è ben illustrata dal Prof. Pieri Ignazi nel suo articolo “Nel PD la vera scissione è fra centro e periferia” (L’Espresso 30-4-2015).

La situazione in Campania è nota. La qualità della dirigenza del PD campano è testimoniata anche dalla gestione delle primarie che, solo alla fine di una avvilente farsa, hanno visto la vittoria di De Luca. Famoso per la prontezza con cui salta sul carro del vincitore (l’ultimo repentino cambio lo ha visto passare dai bersaniani ai renziani), per una interpretazione molto personale e utilitaristica del concetto di legalità e per essere alfiere di una gestione del potere personalistica e muscolare, non a caso è soprannominato “o’sceriffo”.  Non piace a molti. Procede, come tanti, a suon di slogans come “Mai più ultimi”. Ma perché siamo ultimi? Lui, intanto, ha governato (e di fatto governa ancora) da decenni Salerno che è capoluogo di una provincia che, nella classifica 2014 del “Il Sole 24 ore” risulta al 93mo posto su 107. Non ultimi quindi ma certamente in una posizione non lusinghiera di cui De Luca non sembra avvertire alcuna responsabilità.

Il formarsi di una strana coppia De Luca/De Mita a molti è risulta indigesta. Ancora di più sembra intollerabile che nelle liste De Luca abbia accettato tanti impresentabili; Renzi è stato costretto ad ammettere “Su alcune liste collegate si può discutere, alcuni candidati, personalmente, non li voterei neanche se costretto”. Ma lo smarcarsi da certe scelte non cancella la responsabilità politica del Segretario PD. All’interno del partito sono numerose le reazioni indignate e preoccupate da certe presenze; come, ad esempio, quella della senatrice del Pd Rosaria Capacchione. Posizione illuminante giacché, come giornalista del Mattino, ha raccontato l’ascesa dei Casalesi e la loro penetrazione nel potere e nell’economia italiana; ora vive sotto scorta.

A questo punto io povero elettore, ex-simpatizzante, ex-iscritto abbandonato a se stesso, cosa devo fare? Chi devo votare? Per costume consolidato sento il dovere di non disertare le urne e, soprattutto, di non rifugiarmi nella sterile apartiticità o peggio, nell’antipolitica. Non escludo apriori l’ipotesi di votare per un partito diverso ma non vedo alternative soddisfacenti; cambiare per cambiare, solo per protesta non mi garba. Sono uno sfrattato, un “senzatetto” della politica e mi occorre una pausa di riflessione; non sarà facile riaccasarmi. Per ora non mi resta che rifugiarmi nella scheda bianca o meglio nell’annullo della scheda. Come? La fantasia, la frustrazione suggerirebbe un ampia scelta di frasi pittoresche. Preferisco accantonarle a favore di un “Io ci sono!”. Una testimonianza e, insieme, un’espressione di flebile speranza che la qualità della nostra fragile democrazia, fra l’indifferenza dei più, non peggiori ulteriormente.

 
 
 

25 aprile. Una testimonianza ancora attuale

Post n°76 pubblicato il 24 Aprile 2015 da mcalise
 

Il diciannovenne partigiano Giacomo Ulivi era uno studente in legge dell'Università di Parma, caduto tre volte in mano dei nemici e due volte fuggito, medaglia d'argento al valore militare, fu fucilato a Modena il 10 novembre 1944. Riporto di seguito la sua ultima lettera indirizzata ai compagni, tratta da “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana” raccolte da Malvezzi e Pirelli. Il senso di responsabilità e del dovere che dimostra questo giovane, peraltro in un momento così tragico, dovrebbe essere di esempio per ciascuno di noi.

 Cari Amici,

Vi vorrei confessare innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L'avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire "falso", di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un'offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi. Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami il flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall'industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa è il segno dell'errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un'opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent'anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della "sporcizia" della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di "specialisti". Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell'opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – ci siamo stati scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a sé stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.

Questa ci ha depredato, buttato in un'avventura senza fine; e questo è il lato più "roseo", io credo: Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi. Credetemi, la "cosa pubblica" è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come "patriottismo" o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l'estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L'egoismo – ci dispiace sentire questa parola – è come una doccia fredda, vero?

Sempre tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di retorica; Facciamoci forza, impariamo a sentire l'amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell'ombra si dilati indisturbato. È meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L'egoismo, dicevamo, l'interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l'ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della "cosa pubblica", insomma, finiscono per coincidere.

Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedevi in giorno, quale stato, per l'idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi. Se credete nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettare una nuova concezione, più egualitaria della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.

Oggi bisogna combattere contro l'oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.

Termino questa lunga lettera un po' confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.

Giacomo Ulivi

 
 
 

Il 25 aprile. Una riflessione sulla qualità della nostra democrazia

Post n°75 pubblicato il 24 Aprile 2015 da mcalise
 

Il 25 aprile 1945 segna una tappa fondamentale nella storia del nostro Paese. Un’occasione per riflettere su quegli eventi, sulle origini della Repubblica democratica, sull’attuale condizione del nostro Paese.

Fare un bilancio sarebbe complicato per chiunque e non è questa la sede. Infatti questi 70 anni sono stati contrassegnati da una notevole complessità, da luci ed ombre, da decisi passi in avanti ma anche da annosi ed irrisolti problemi. Fra quest’ultimi, penso saremo tutti d’accordo, uno dei più gravi è la crescente sfiducia degli italiani nei confronti dei propri governanti, dei partiti e del ceto politico. Questo clima di generale sfiducia verso la politica e le istituzioni è ben illustrato dal “Rapporto 2014 - Gli italiani e lo Stato” della Demos. Ho estratto alcuni dati: solo 3 italiani su cento intervistati hanno fiducia nei partiti, l’indice di fiducia nelle istituzioni politiche si attesta al 21%, solo il 66% degli intervistati ritiene la democrazia preferibile a qualsiasi altra forma di governo e, infine, il 50% degli intervistati crede che la democrazia possa funzionare senza i partiti. Tutti gli indicatori riportati segnalano un peggioramento rispetto agli anni precedenti.

Ora, come è noto, siamo in un regime di democrazia rappresentativa in cui i cittadini delegano a rappresentarli “i migliori”. Quest’ultimi dovrebbero formulare e realizzare programmi di governo che perseguano l’interesse generale, ossia che siano sintesi delle domande che i cittadini hanno liberamente formulato. I partiti assolvono al ruolo fondamentale di associare i cittadini al fine di concorrere democraticamente a determinare la politica nazionale, come previsto dall’articolo 49 della Costituzione.

Il contrasto fra questa formulazione, incontrovertibile nella sua semplicità, e gli indicatori  su esposti (e la realtà) è evidente. Una così marcata sfiducia negli eletti, in coloro che noi stessi abbiamo scelto è paradossale; penso, ad esempio, che un amministratore di condominio oggetto di tanta sfiducia sarebbe destituito in poche ore.

Dovremmo porci la domanda: come mai non abbiamo fiducia nelle persone che noi stesso abbiamo ripetutamente scelto? Constatiamo, purtroppo, l’esistenza di un circolo vizioso: la qualità della politica è proporzionale alla qualità della cittadinanza e viceversa. Una spirale perversa che richiama, infine, la qualità della nostra democrazia. Problema tanto concreto quanto trascurato.

Se pensiamo, come credo, che la democrazia sia un pilastro, un presupposto allo sviluppo ed al benessere della nostra collettività, la mobilitazione dovrebbe scattare spontanea. Bobbio, non a caso, indicava l’educazione alla cittadinanza fra le sei promesse non mantenute dalla democrazia (Norberto Bobbio “Il futuro della democrazia” ed. Einaudi). E sempre Bobbio ci metteva in guardia dal considerare la democrazia acquisita per sempre, scontata: “Abbiamo la convinzione profonda che una democrazia può essere uccisa dalla violenze esterna, ma muore anche per interna consunzione”.

Ora chi potrà mai interrompere questa spirale? Non credo il ceto politico che, in gran parte, preferisce il cittadino non attivo. Siamo governati da oligarchie essenzialmente tese a garantire la propria continuità ed a tutelare i propri interessi. Anche i tentativi, non sempre riusciti, di perseguire l’interesse generale, sono tesi al mantenimento del consenso.

D’altra parte credo che ci troviamo in presenza della desertificazione dello spazio pubblico, la sfiducia spinge molti cittadini ad isolarsi, a disinteressarsi della cosa pubblica.

Allora cogliamo l’occasione del 25 Aprile per celebrare una ricorrenza fondamentale ma, anche, per (ri)avviare una riflessione sullo stato della nostra democrazia.

È necessario rilanciare l’associazionismo e rigenerare la cultura civica sottolineando che la sfiducia nella politica, pure se fortemente motivata, non può essere l’alibi per l’apatia e lo sterile vittimismo. Il problema, evidentemente, non si risolve con atteggiamenti diffusi riassumibili in “Basta politica! Basta partiti”. Occorre che i politici e i partiti abbiano l’interesse comune come scopo esclusivo e ciò sarà possibile solo e se un gran numero di cittadini torneranno ad occuparsi della politica.

Una democrazia rivitalizzata da una cittadinanza partecipe che metta “il fiato sul collo” agli eletti non potrà che migliorare la qualità della politica e spezzare la spirale perversa. Ciò è un presupposto essenziale per lo sviluppo, per un benessere non effimero. 

 
 
 

Sapri. Il voto di scambio

Post n°74 pubblicato il 24 Aprile 2015 da mcalise
 

Ho sentito l’esigenza di buttare giù, velocemente, le righe che seguono.

“Il voto di scambio è un fenomeno che, nell'ambito della politica, si riferisce all'azione di candidato il quale, in cambio di favori leciti o illeciti, prometta ad un elettore di ricambiare il voto da parte di quest'ultimo con un tornaconto personale, o con una promessa dello stesso.”

Esempio pratico.

Un politico locale e un candidato ad una assemblea elettiva regionale o nazionale si accordano per uno scambio. Con esso il politico locale si impegna ad assicurare, nel “proprio territorio”, un pacchetto di voti al candidato che, a sua volta, promette di ricambiare con favori futuri.

Il politico locale ambisce a vantaggi personali o a interventi a favore del “proprio territorio”.

Le due cose non si escludono e, in ogni caso, il politico locale ha comunque un vantaggio personale accrescendo il suo consenso e potere nel momento in cui il candidato sostenuto risulta eletto e mantiene i suoi impegni. Il politico locale comunque entra in una cordata che potrà favorire la sua carriera politica.

Il patto è, sostanzialmente, o nascosto ai cittadini o ammantato di buonismo. Non mancano le fini menti politiche locali che sostengono che questi accordi sono fatti nell’interesse del territorio.

È falso, per vari motivi che sintetizzo.

Il patto configura un rapporto personalistico ed è quindi legato non solo alla volontà/capacità dei singoli ma al loro interesse a portarlo avanti.

Si configura un rapporto di soggezione del territorio verso il padrino.

Il padrino cambia, negli anni, a seconda delle convenienze del politico locale.

Anche nell’ipotesi che il patto abbia una qualche ricaduta sul territorio si tratta, inevitabilmente, di interventi “a pioggia” decisi da pochi individui.

È una politica che fa leva su uno spirito rivendicativo più che propositivo.

È una politica che fa leva sul localismo quando l’esigenza è di unire.

E una politica vecchia, che si è sempre fatta nel meridione, e che non ha portato risultati; qualsiasi statistica conferma quest’affermazione.

Cosa occorrerebbe:

Una politica che abbia una vera visione (non visioni pre-elettorali) che abbia la capacità di avviare/aderire a progetti di ampio respiro, strutturali che portino benefici duraturi al territorio.

Per fare veramente ciò occorre una consapevolezza dei cittadini e quindi la loro partecipazione.

Occorre sapere che i nostri problemi si possono risolvere seriamente solo se li inquadriamo nel contesto in cui viviamo: Mezzogiorno, Europa, Mediterraneo.

Noi dobbiamo comprendere che la qualità dei nostri politici è proporzionale alla nostra qualità di cittadini.

Di tutte queste cose sarebbe opportuno discutere e, possibilmente, non in campagna elettorale.

Ma credo che, volutamente, non si vogliano discussioni sulla cosa pubblica.

Il Parlamento ed il Governo prendono provvedimenti, iniziative che, prima o poi ci riguarderanno e non se né parla. Il meridione è in una storica sofferenza e non né parliamo, e lo stesso per i problemi locali sui quali non sappiamo avere alcuna capacità di incidere.

Solo qualche EVENTO, qualche mobilitazione che qualcuno scambia per partecipazione.

Mi spiace per i giovani che sono vittime ed eredi di questa situazione.

 
 
 

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