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la musica, suonare il pianoforte, suonare il mio violino, la luce del tramonto, ascoltare il mare in una spiaggia deserta, guardare il cielo stellato, l’arte, i frattali, viaggiare, conoscere e scoprire cose nuove, perdermi nei musei, andare al cinema, camminare, correre, nuotare, le immagini riflesse sull’acqua, fare fotografie, il profumo della pioggia, l’inverno, le persone semplici, il pane fresco ancora caldo, i fuochi d’artificio, la pizza il gelato e la cioccolata


Non mi piace


l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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- M. Rees -
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Sonata op.13 “Patetica” (n.8)
Sonata n.2 op.27
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Sonata op.53 “Waldstein” (n.21)

Chopin

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Debussy

Suite Bergamasque
Deux Arabesques

Liszt

Valse Oublièe
Valse Impromptu

Schubert

Impromptu n.3 op.90
Impromptu n.2 op.142




 

 

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Post n°874 pubblicato il 02 Novembre 2020 da enodas

 

 

 

Non ho fatto a meno di guardare il calendario e balzare indietro. Un anno, due anni. E ripercorrere quelle notti di Halloween che sono ricordi un po' speciali, ancora di più adesso che ogni piano può apparire stravolto, e come altre cose quel viaggiare lontano mi manca davvero. Una data, due passi nel bosco, muovendomi tra foglie colorate, rami d'alberi un po' spettrali, qualche miniatura nascosta tra le fratture degli alberi, lasciata da chissà chi, ed un amiriade di funghi di ogni forma e colore, anche quelli coi cappelli rossi ed i puntini bianchi che da piccoli si disegnavano sempre malgrado la scoperta che fossero velenosissimi. Così, sul calendario ho almeno viaggiato con la mente, per trovarmi su un'isola sperduta, un mondo a parte dove la storia sembra aver percorso tutte le epoche di nascita, distruzione e rinascita. Camminavo, ovviamente, inzuppato dalla pioggia che era venuta e scomparsa, scendendo il fianco di un catere spento, un ultimo giorno. E come un'immagine di decenni passati, sulla strada si affacciavano mostriciattoli e principesse, entrando di negozio in negozio, lungo quell'unica vera via che era l'unico vero villaggio dell'isola, riempiendo la propria collezione di caramelle. Era una scena che mi sembrava talmente spensierata e spontanea da catapultarmi nel cuore dell'isola stessa, nella sua sola lontananza che in questa sera diventava anche temporale.
Ho girato come una pagina il calendario, e nuovamente ho visto mostriciattoli e streghette scendere lungo una strada. Solo che questa volta ero immobile, seduto ad una finestra, con il respiro spezzato ed un cerchio alla testa. E la strada non era che un rigagnolo che fluiva di un fiume possente. L'atmosfera stessa era più elettrica e lugubramente intensa, come si manifestano i giorni dei Morti sulle cime andine. Ma erano soprattutto i colpi in lontananza, i flussi che improvvisamente si invertivano e l'aria che velocemente si faceva più densa a colpirmi. Attraversandomi lo stomaco già contorto dall'altitudine. La gente cercava riparo nel locale, e la notte di Halloween diventava più nera, una come tante, in quei giorni, al colmo delle proteste. Un Paese bloccato, le strade bloccate, io pure obbligato a partire senza aver potuto davvero vedere.
E sono tornato alle foglie del bosco. Perso, un attimo, a furia di prendere a caso un sentiero. Questi giorni, che ormai avevo preso l'abitudine di conservarli per partire. Viaggio con la mente, ammirando immagine preziose che ho potuto raccogliere. Questi giorni, mi mancano.

 

 

 
 
 

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Post n°873 pubblicato il 24 Ottobre 2020 da enodas

 

 

"Entrò nella mia vita nel febbraio del 1932 per non uscirne più. Da allora è passato più di un quarto di secolo, più di novemila giorni tediosi e senza scopo, che l'assenza della speranza ha reso tutti ugualmente vuoti – giorni e anni, molti dei quali morti come le foglie secche su un albero inaridito. Ricordo il giorno e l'ora in cui il mio sguardo si posò per la prima volta sul ragazzo che doveva diventare la fonte della mia più grande felicità e della mia più totale disperazione. ..."

 

Sono pochi i libri letti di cui mi trovo a scrivere, e questo in realtà per lunghezza non é molto più che un racconto lungo, e forse nemmeno scritto nel migliore dei modi. Eppure basta una frase, una riga soltanto che giunge alla fine e ti lascia così, sospeso, che é come se fossi giunto alla fine troppo in fretta e, rimasto in silenzio, non puoi far altro che trornare indietro e leggere di nuovo. Perché basta una parola, anche l'ultima, a cambiare una storia e dare un senso di leggerezza e speranza, e a riscoprire con occhio diverso una persona che si ha amato. Anche quando il male é tale da essere straripante senza essere nemmeno narrato. Troppo forte l'orrore della Storia, troppo forte il dolore.

 

"[...] all'improvviso mi resi conto con un misto di gioia, sollievo e stupore che era timido come me e, come me, bisognoso di amicizia."

 

Nella sua semplicità, narrato come fosse scritto da un adolescente, questo é un racconto di amicizia, di uno di quei migliori amici che si trovano solo quando si é giovani, forse perché non si é ancora stati macchiati a sufficineza dalle delusioni e dai graffi che lasciano i rapporti umani. Per come l'ho letto, questo racconto é andato oltre l'orrore del contesto, la cui incombenza é resa chiara con implicita delicatezza, e mi ha portato prima su un livello più astratto, quello della lotta tra bene e male, della forza delle idee e della purezza di cuore, ed infine su un altro livello, molto più semplice e molto più pratico e personale, che - se sia illusione o meno non lo so - una vera amicizia, come un vero amore, da qualche parte duri in eterno.

 

"... L'unica ragione che mi induce a rievocare gli interessi, le gioie, i dolori che condividevamo è il tentativo di comunicare quale fosse la nostra vita interiore..."

 

Ricordo una volta di aver letto da qualche parte che gli amici che ci accompagnano tutta una vita si contano sulle dita di una mano. Allora, come in poche altre occasioni, pensai ad un amico su cui non avrei avuto dubbi questa affermazione fosse vera, salvo poi, sopraffatto dal tempo e dalle semplici circostanze della vita, amaramente scoprire che non fosse così. In amicizia, così come in amore, ho collezionato delusioni cocenti, e per come sono fatto sono sempre state delusioni profonde ed intense, a volte ferite che ancora fanno male se toccate. Sono giunto alla conclusione che non credo ci sia niente di speciale, in questo, in quanto fa parte del circolo delle cose, e che tutto ci sembri tanto straordinario ed unico per il fatto che le viviamo in prima persona. Ma forse consola un po' pensare che questo esista, che noi esistiamo, in qualche angolo nascosto ma pur sempre prezioso, di queste persone, un po' almeno come loro per noi, un attimo di eternità, e che come tali ci si renda conto che sono un amico ritrovato, un amore ritrovato, anche se soltanto nel nostro cuore.

 

"... Ma ne ero proprio sicuro? Era davvero impossibile che la porta di casa si aprisse per farlo entrare? E non stavo già, in quello stesso istante, tendendo l'orecchio per cogliere il suo passo? ..."

 

 

 
 
 

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Post n°872 pubblicato il 20 Ottobre 2020 da enodas

 

 

E' già un mese che sono tornato. Eppure ci sono cose che non mi sono scrollato di dosso. E' un'amarezza che é penetrata forse ancora più profondità. Ed al tempo stesso, tutto ciò che accade al di fuori di queste mura, dalle quali peraltro ormai non scorgo altro che un'aria densa e grigia ed una pioggia fredda e perenne, ha ripreso a correre in una progressione tale che nemmeno potevo immaginare. Ancora, nel frattempo, ho sbagliato previsioni, e mi trovo con un biglietto aereo che avevo cercato di recuperare per scendere il prima possibile e che probabilmente deciderò di buttare. E intanto quella lontananza torna a farsi fisica e concreta, oltre che preoccupazione. Mentre i colori che altrove avevo cercato di raccogliere e portare via con me sembrano sbiadirsi in una distanza quasi oltre l'orizzonte. Tanto da non credere davvero al calcolo del tempo. Chiudo gli occhi, cercando di riviverli come immagini, per sentirne il calore, come un fuoco che riscaldandomi mi possa confortare in questo deserto che é calato attorno a me. E' lo stesso deserto che confina da mesi ormai i miei post non scritti, una data soltanto ed una pagina bianca. Ed un senso di solitudine che non accenna a sciogliersi.

 

 

 
 
 

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Post n°871 pubblicato il 10 Ottobre 2020 da enodas

 

 

L'ho sognata di nuovo. Ogni tanto mi capita, é questo l'unico contatto che mi resta, illusorio, da tanto tempo. Anche se la trama, rispetto ad una volta, sembra sia cambiata. Perché ciò che vedo é una storia proiettata, in avanti, che guarda al passato. E' come se, inconsciamente, anche questi recessi più oscuri della mente avessero assimilato qualcosa. Ma sempre e comunque di questi sogni mi rimangono impressi gli sguardi, le immagini, i silenzi. Non sento, o mi sveglio quando dimenticando le parole, col groppo di non essere riuscito a parlare, a trovare in un sogno ciò che non esiste in realtà, a fermare un istante. Mi sono trovato, me stesso di allora silenzioso spettatore del me stesso di un futuro indefinito, e mi vedevo parlare con lei. O forse era solo osservarla, non lo so. Così come non so più cosa avrei da dire. Che ormai non ha più veramente importanza. Sulle rive di un lago, d'azzurro e di sole, senza che abbia un riferimento minimo ad una realtà conosciuta. Perché lei arriva da un'isola, proprio una di quelle isole sconosciute, forse, attraversando l'acqua in battello. Un altro dettaglio che ritorna, altre notti, in queste immagini, perché in qualche maniera mi trovo dentro una storia con una trama non casuale. Ma che rimane perennemente sospesa, in attesa di sentire qualcosa, forse, che mi liberi l'animo e lo lasci un attimo più leggero, o che mi sfiori, non saprei neanche come, in quella che é tutta un'illusione di un sogno. Che alla fine, a dire il vero, non saprei neanche cosa chiedere. Se non, forse, di non svegliarmi con quel peso incompiuto nel petto che non é soltanto l'attimo di aprire gli occhi e realizzare che si stava soltanto osservando una proiezione della mente, ma anche tutta la polvere, reale, che anche un sogno, può sollevare.

 

 

 
 
 

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Post n°870 pubblicato il 03 Ottobre 2020 da enodas

 

 

"Narrami, o musa, dell'eroe multiforme, che tanto
vagò, dopo che distrusse la Rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,
molti dolori patì sul mare nell'animo suo,
per riacquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni.
Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo:
con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole
Iperione: ad essi tolse il dì del ritorno.
Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus. (...)"

 

 

Oytis. Oytis. Ancora, il suono del mare, un'eco che sospira di forza divina. Nessuno. In balia delle onde, in balia di se stesso, e di un viaggio infinito. Sciolto in un pianto, esaltato nelle sfide, assetato di sapere. Oytis é un'eco che risuona quando osservo, quando cammino, esaltato ed un po' impaurito in una terra sconosciuta, quando sogno di fronte alle stelle o ad un cielo che si spalanca chiudendo gli occhi, quando perduto naufrago dentro me stesso. Allora penso che in un mondo antico, da qualche parte, qualcuno ha scritto il suo nome, ha raccontato le sue avventure ed il suo viaggio che non é mai veramente terminato. E da qualche parte sento il rumore delle onde, la linea d'orizzonte infinita del mare. Eroe per me, eroe un po' di tutti, viaggiatore e viandante, non é più davvero Nessuno.


"...Ciclope, mi chiedi il nome famoso, ed io
ti dirò: tu dammi, come hai promesso, il dono ospitale.
Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano
mia madre e mio padre e tutti gli altri compagni”.
Dissi così, lui subito mi rispose con cuore spietato:
“per ultimo io mangerò Nessuno, dopo i compagni,
gli altri prima: per te sarà questo il dono ospitale”.
Disse, e arrovesciatosi cadde supino, e poi
giacque piegando il grosso collo: il sonno,
che tutto doma, lo colse (...)"

 

 

Polytropos, l'eroe dai mille volti che nel viaggio impara a conoscere se stesso. Intrico della mente, sconvolgimento di ogni pensiero, astuzia ed inganni, ricerca e racconto, vendetta ed amore. Perché alla fine non resta altra forza talmente intensa da riuscire sempre a spingerlo oltre e far sì che raggiunga il prossimo approdo. Verso un abbraccio, quello col padre, un pianto liberatorio, quello della nutrice, il palpito di una mano che sfiora un altro corpo, quello della donna che ama. Nella purezza delle emozioni e nella semplicità degli affetti, svelati dall'arte, l'eroe é nudo. E terribilmente umano.

 

"...Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria,
all’isola deserta che frondeggia
nell’ombelico dell’eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte ancora,
chi l’immortale gioventù non volle.
Ed ella avvolse l’uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l’udia nessuno:
– Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più! ..."

 

 

Ulisse. Gli dei lo osservano, sbattuto dalle onde, inseguito da creature mostruose o donne di una bellezza tale da essere incantesimo. Gli dei osservano e capricciosi quasi giocano, sul destino degli uomini, immobili e giganti, in una grande sala il cui romore é quello di un mare in tempesta, ed al cui centro fluttuano i resti di un'imbarcazione strappata al tempo ed al mare. Un po' come lui, la sua vita disperatamente rivolta verso casa, verso gli affetti di chi, nonostante tutto continua ad attendere con speranza incrollabile, o di chi, disperato ha ceduto alla vita. Il viaggio, dell'eroe e dell'arte che ha voluto raccontarlo, secolo dopo secolo, inizia da qui, da questo simposio che si materializza nell'evocazione di una sala enorme che già vale lo sforzo di essere qui, straordinaria sensazione di attraversare minuscoli ed insignificanti una sala aperta sull'Olimpo, là dove né noi, né lui, avrebbe potuto camminare e perorare la sua causa.

 

 

"...Non adirarti con me, Odisseo, tu che sei
il più saggio di tutti gli uomini! Sono stati gli Dei a darci
tante sofferenze, invidiosi che noi godessimo la giovinezza
e la vecchiaia rimanendo sempre vicini!
Non arrabbiarti, non ti offendere se io
non ti ho manifestato subito il mio affetto.
Il mio animo aveva sempre timore in petto che qualche mortale
venisse ad ingannarmi con le chiacchiere:
in molti, infatti, tramano astuzie malvage.

 

(...) Disse così e in lui suscitò ancor di più il desiderio di piangere:
piangeva stringendo la sposa bella e saggia.
Con la stessa gioia con cui i naufraghi vedono terra,
quelli a cui Poseidone ha frantumato la solida nave,
travolta dal vento e dalle grandi onde
(in pochi si sono salvati, nel mare bianco di spuma;
hanno raggiunto a nuoto la riva, con la pelle incrostata
di sale ma felici di aver evitato la morte);
con la stessa gioia lei guardava il suo sposo,
non staccava dal suo collo le sue candide braccia. ..."

 

 

E allora, non saprei quante parole spendere davvero per raccontare. Così invece lo raccontarono poeti pittori e scultori, generando bellezza e meraviglia. Ma anche scavando nell'animo umano, esplorando le proprie inquietudini e riflettendo sul proprio destino. E così il Mito ha attraversato, viaggiando come si canterebbe di lui, lungo i secoli, la storia dell'Arte, e le epoche degli uomini, adattandosi al Tempo, narrando uno o un altro aspetto di quello che siamo, un po' come fossero ciascuna una di quelle isole dove l'eroe approdava - talvolta naufragava - in un peregrinare continuo. Ha udito canti ipnotici e fatali, ha affrontato creature mostruose, ha amato colmo di passione o in preda ad un sortilegio. Ha perso i compagni e forse, chissà, ogni tanto anche la speranza. Perché é umano. Ma dentro di sé deve aver custodito acceso quel frammento di casa che lo riporterà ad Itaca. Per ripartire, un giorno, alla fine del mondo. O forse, come racconta l'ultima sala dedicata al Secolo Breve, di fatto non riuscirà a ritrovare davvero la via, e perdendo il ricordo del ritorno si è perduto, scordando il proprio destino. Itaca, per sempre.

 


"...Essi poi mi legarono mani e piedi nella nave,
ai piedi dell’albero: a questo fissarono le corde;
seduti in fila battevano con i remi il mare pieno di spuma.
Come fummo lontani tanto quanto si arriva con un grido
alle Sirene non sfuggì che un’agile nave si stava
avvicinando; esse intonarono un canto armonioso:
– Vieni qui, presto, glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei;
ferma la nave perché tu possa sentire la nostra voce.
Nessuno si allontana mai da qui con la sua nave nera,
se prima non sente la voce dalle nostre labbra, suono di miele;
poi riparte pieno di gioia, conoscendo più cose.
Noi tutto sappiamo, quanto nell’ampia terra di Troia
Argivi e Teucri patirono per volere dei numi;
tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice -.
Così dicevano, alzando la voce bellissima; allora il mio cuore
voleva ascoltare: ordinavo ai compagni di sciogliermi,
facendo cenno con le sopracciglia; ma essi remavano senza posa.
E subito alzandosi, Perimede ed Euriloco                           
facevano nuovi nodi e mi stringevano ancora di più. (...)"

 

 

"Il protagonista dell’Odissea è il più antico e il più moderno personaggio della letteratura occidentale. Egli getta un’ombra lunga sull’immaginario dell’uomo, in ogni tempo. L’arte ne ha espresso e reinterpretato costantemente il mito. Raccontare di Ulisse ha significato raccontare di sé, da ogni riva del tempo e raccontarlo utilizzando i propri alfabeti simbolici, la propria forma artistica, attribuendogli il significato del momento storico e del proprio sistema di valori.
Dall’Odissea alla Commedia dantesca, da Tennyson a Joyce e a tutto il Novecento, di volta in volta, Ulisse è l’eroe dell’esperienza umana, della sopportazione, dell’intelligenza, della parola, della conoscenza, della sopravvivenza e dell’inganno. E’ “l’uomo dalle molte astuzie e “dalle molte forme”.
Dopo la Guerra di Troia, quando affronta le sue avventure nel viaggio del lungo ritorno, egli è già un personaggio famoso. Ma quel viaggio è anche la faticosa riconquista di sé, della propria identità, attraverso il recupero narrativo della sua vicenda alla corte di Alcinoo, attraverso la memoria del ritorno. Così come accade all’arte, che narra narrandosi, che racconta l’oggetto e la sua forma stilistica. [...]"

(dall'Introduzione alla Mostra)

 

[...]

 

 

 
 
 

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Post n°869 pubblicato il 27 Settembre 2020 da enodas

 

 

Avevo attraversato il confine senza nemmeno che fossi sicuro di essermene accorto. Che questa volta era qualcosa di nuovo e particolare, dopo tanto tempo. E questa é la prima immagine che ho incontrato. Inaspettatamente, perché non sapevo che quella fosse la strada. Ma guidando ho intravisto il profilo sull'acqua. Ed ho capito di aver trovato questo luogo tragico e romantico allo stesso tempo praticamente per caso. Ho accostato proprio quando un ultimo riflesso di tramonto abbandonava l'acqua piatta e gelida del lago. La strada proseguiva, scendendo verso valle, ed il cielo annunciava tempesta a breve. Uno di quei temporali rapidi e furibondi d'estate. L'aria già era quasi impregnata di pioggia. Eppure, lì il cielo era ancora pulito, e le luci del tramonto si spegnevano senza fretta. Era silenzio di pace, ed un soffio di vento. E quel profilo immobile, sull'acqua scura ed oleosa. E in questo attimo di bellezza ho riconosciuto il mio Paese: al termine di centinaia di chilometri, lungo una via lenta, molto più lenta di quanto mi fossi abituato in questi anni, questa - ormai nel buio della sera - era la frontiera. Chissà, forse un po' una di quelle frontiere scomparse, che si era materializzata tra tornanti e profili di montagna, che già era un po' casa.

 

 

 
 
 

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Post n°868 pubblicato il 22 Settembre 2020 da enodas

 

 

Credo che difficilmente passerà questo giorno. Sono tornato, risalendo chilometri e chilometri di strada nella solitudine peggiore, quella che si prova quando fisicamente si ha qualcuno accanto. Avevo caricato la macchina per portare con me quanto più possibile, una volta tanto che cause esterne mi avevano obbligato a guidare, per trarre vantaggio da questo viaggio forzato su strada. Scusa o motivo, ho perso l'eccitazione un po' bambinesca (ma che chi vive all'estero può immaginare) di avere in gran quota mezzo supermercato alle spalle. Ho percorso questi chilometri in una solitudine amara, proprio quando invece avrei avuto bisogno di non essere solo, proprio quando chi sedeva accanto avevo bisogno fosse anche vicino. Ed invece, come una trama scritta al contrario, é stato tutto l'opposto. Per la strada, una lunga interminabile tirata, per la tristezza e l'incapacità di prevedere il futuro dei prossimi mesi. Perché, accanto allo strappo che ogni partenza, ovunque essa sia, comporta per me emozioni contrastanti, questa volta é ben diversa, e come non sapevo quest'estate come e cosa avrei fatto per scendere, ancora più indecifrabile mi appare tutto ciò che sarà. Sono arrivato a notte fonda e nella notte ho passato lo sguardo in giardino, trovando un mezzo disastro. E' un'immagine che nel buio ha aggiunto sconforto a sconforto. Davvero basta così poco perché tutto cada in rovina, perché senza che metta mano di persona crolli tutto come un castello di carte? Di nuovo, mi sono sentito inutile ed impotente. Questi chilometri, percorsi in macchina, sembrano già un'illusione temporanea, un filo che avevo idealmente ritessuto nella convinzione illusoria che, nel peggiore dei casi, potrò sempre guidare. Perché nel frattempo, volante alla mano, continuo a chiedermi cosa sia amare davvero un'anima, ovunque proteggi, e se mai sarà davvero così.

 

 

 
 
 

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Post n°867 pubblicato il 18 Settembre 2020 da enodas

 

 

 

Xiloscalo é la Scala di legno, letteralmente, il nome di un luogo dove termina la strada ed inizia la discesa, gradino dopo gradino, verso il mare e verso un'avventura. Una traversata in uno di quei luoghi del cuore che mi sono portato dentro dalla prima volta che sono stato qui, e per non so bene quale motivo una delle camminate che rimangono più impresse nei miei ricordi. Scendere, verticalmente, per addentrarsi nella foresta ed iniziare il percorso verso le porte di ferro, due pareti gigantesche che arrivano quasi a sfiorarsi. Ma no, non ancora. Perché il cammino é lungo, attraverso la gola, sfiorando alcuni ruderi, una chiesetta in pietra completamente vuota, ed un antico villaggio andato perduto. Ma soprattutto, é un lungo cammino che come mi porta al mare sembra anelare ad una catarsi interiore, forse il termine giusto visto il luogo, una avventura spirituale ed un obiettivo lontano che elude e si nasconde alla fine di lunghi chilometri.

 

 

Massi giganti, piccoli ponti di legno, il sentiero che balza da un lato all'altro, scende sul fondo per poi rialzardi ed osservare questo mondo di pietra e verde da punti continuamente diversi. E via via che mi avvicino alle pareti sempre più alte, vertiginosamente, il sospiro degli dei inizia a farsi sentire, improvvisamente potente e violento, una raffica che spazzerebbe via il terreno se non fosse di blocchi giganti di pietra trascinati dall'acqua di un torrente che ora non é motlo più che un rigagnolo. Verso l'alto, un'unica, rettilinea feritoia verso il cielo, che adesso sembra davvero materializzare tutta la sua distanza. Il soffio degli dei sale dalla terra, alle mie spalle, si nutre di se stesso, e mi psinge ad andare oltre, verso il punto più stretto e più profondo, le Porte di Ferro, dove da una parete all'altra quasi basterebbe allungare le braccia. Tornato, ancora una volta, in questo luogo dell'anima, stanco sì, ma con quell'immagine che volevo rivivere, prima di scendere, dopo tanta battaglia, verso il paese, quello di oggi, già incredibilmente diverso rispetto a pochi anni fa, e la spiaggia di pietra nera come la pece che sparisce tra le acque gelide e trasparenti del mare. Oltre la linea dell'orizzonte é già Africa.

 

 

Ondeggiano gli ulivi. Una marea argentata in continuo movimento. Lungo tutta l'isola, ma ancor più in questa ultima parte, più selvaggia, più estrema, più da confine del mondo. Ondeggiano. Ed io cerco la loro ombra. Nel legno, così contorto e sofferente un segno di purezza. E di vita, come l'olio denso che prende corpo in bocca. Toccando uno di quei tronchi mi viene in mente il legame profondo che in Palestina lega gli uomini ad i loro ulivi. E' un'immagine che torna viva nei riflessi argentei, nell'aria calda del sole d'estate, nel tremare delle foglie quando si leva un alito di vento, nella luce che esalta il contrasto di ombre sulla terra rossa e drenata. E mi riempie d'affetto e passione.

 

 

Ricordo anche loro, questo campo di ulivi. In partenza, seguendo un sentiero dal nome impronunciabile. Qui dove i passi sono meno battuti e ci si potrebbe trovare soli una giornata intera, il cammino a volte si perde, a volte sembra interrompersi davanti ad un blocco che sembra sia stato scaraventato dal cielo. La gola fa una lunga deviazione a sinistra, nell'illusione che ad ogni passaggio sia un'ultima curva a nascondere l'orizzonte. E invece, continua, piegandosi come un serpente che scendendo diventa sempre più deserta e crudele. Un alito di vento mi rammenta che questa é l'isola degli dei. O forse, infine, mi richiama, dal mare, quando infine si apre, questa piega della terra, e quello che era un fiume scomparso straripa verso la spiaggia. Ed ovunque é deserto, un poco anche mio: la spiaggia incastonata da pareti rocciose, il sentiero che sale sulla sinistra a picco sul mare, il silenzio e la solitudine incontaminata di questo luogo, quella sensazione di aver lasciato questo luogo soltanto ieri.

 

 

Osservo. Vedo un ragazzo seduto, ad osservare una linea infinita. So che é il suo compleanno, so che questa sera si imbarcherà per Atene e per la prima volta vedrà questa città che il solo nome lo affascina. So addirittura cosa sta leggendo, unico libro messo nella zaino in questo viaggio alle origini del mito. Lo sento, le speranze, i sogni, una visione un po' troppo idealistica del mondo e dell'anima. Lo vedo, e mi domando se in qualche modo non lo abbia tradito, se una parte di quello che era sia andato perduto, nascosto, diviso. Forse questo luogo, più di molti altri é all'origine di me stesso, della mio desiderio di viaggiare, della consapevolezza. So che anche questo é un luogo dell'anima, di quelli che rimangono dentro, e ti accompagnano come un ricordo che riscalda e ti fa versare una lacrima ogni tanto. E se allora avevo promesso di tornare, oggi mi domando se ancora troverò questa spiaggia così come la lascerò questa volta. C'é un albero, molto vecchio di sicuro, proprio all'ingresso della gola, tra la spiaggia e la montagna. Uno di quegli alberi centenari che sembrano sprigionare una innata saggezza. Risalendo il cammino, si staglia su una tela di sassi bianchi, lo specchi brillante del mare e l'azzurro pultio del cielo. Tre linee di colore per rappresentare l'infinito. Così lo ricordavo, così ancora una volta, lo porterò con me, immobile in questo luogo ai confini del mondo, ad attendere un eterno ritorno.

 

 

Questo é l'ultimo dei tre sentieri che volevo attraversare in questi giorni. Ancora più lontano, ancora più isolato. Ai confini del mondo, dopo aver oltrepassato deserte strade spazzate dal vento e mareggiate di ulivi a perdita d'occhio. La Valle dei Morti é quell'ultima discesa verso il mare, accompagnato di nuovo da quel paesaggio via via più esposto e crudele, parti di roccia scavate nel tempo, e caprette funamboliche che saltellano in equilibrio precario. Tutto per arrivare alle rovine di una città perduta ed antichissima a ridosso del mare. Qui, come altrove, poche pietre accennate é tutto ciò che rimane. Quella stessa civiltà che con le proprie sepolture ha lasciato in eredità quel nome sinistro. Onde che si infrangono in lontananza, odore di salsedine. Come se ancora esistesse una connessione invisibile, un'eco silenziosa che dal moto magnetico delle onde richiama il mito perduto. E no, non voglio partire, risalire il percorso abbandonare la spiaggia, questo luogo, quell'eco lontana. Un ultimo, lunghissimo passo, sfidando il tempo ancora lasciato dalla luce del giorno. Sfidando il tempo che mi riporta al presente.

 

 

 
 
 

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Post n°866 pubblicato il 16 Settembre 2020 da enodas

 

 

 

Culla degli dei e gigantesco crocevia al centro del Mediterraneo, Creta é stata da sempre al centro della Storia. Le rovine di Cnosso sono soltanto le più famose (ma non le più affascinanti, a mio avviso) dell'antichità tra quelle sparse per l'isola. Ma a partire da ogni punto cardinale, come ferite, testimonianze o cicatrici nel tempo fino recente restano luoghi legati al passato di incredibile suggestione ed emozioni contrastanti. Perché Creta fu invasa e distrutta, ricostruita e nuovamente invasa, in un continuo dialogo tra oriente e occidente da nord a sud. Le fortezza veneziane, i profili orientaleggianti degli edifici ed i monasteri greco-ortodossi costruiti nei luoghi più inaccessibili ed impressionanti sono l'immagine più immediata e visibile di questo tumulto continuo che neanche l'eco del mare riesce ad assorbire. Strade che terminano nel nulla di una scarpata a picco sul mare, città colorate come un canale veneziano e caotiche come un suq, e luoghi silenziosi ed abbandonati alla forza degli elementi cui si oppone la sola forza dell'anima e della fede, ogni passaggio é un tassello raccolto di un mosaico che non conosce fine.

 

 

Ho cercato di scendere presto in strada, la mattina. Intorno, era un silenzio irreale, disturbato soltanto dal canto ripetitivo che proveniva dalle porte spalancate della cattedrale ortodossa. Ho proseguito, verso il porto, svoltando a caso, dove la luce ed i colori degli edifici attiravano maggiormente la mia attenzione. Calma silenziosa del mare turchese. Il sole già caldo sul cielo limpido di ogni giorno, Ed ogni minuto assaporato così era un frammento di immensa tranquillità. E mentre qualche gestore iniziava a spostare i tavolini, una barca si metteva in moto, o magari apriva i battenti perscaricare a terra spugne e conchiglie, mi sono messo a seguire l'intero perimetro dell'antico porto veneziano, sulle tracce di un pescatore seduto sui faraglioni. Ho percorso quella linea sottile che si protende nel mare, a spezzare le acque, come a volerle dividere tra buone e cattive, e respirato il sapore che saliva dalle onde increspate, il loro rumore violento, alla mia destra, in contrasto alla calma assoluta che regnava dall'altro lato. Come un miraggio, ho raggiunto il faro e da lì, appoggiato ad un blocco di pietra calda, ho osservato ancora le facciate colorate, i vicoli che intuivo diramarsi alle loro spalle, il movimento semrpe più frequente attorno ai tavolini, una piccola Venezia, così come era giunta alle coste di quest'isola.

 

 

Spinalonga é l'isola dimenticata di fronte alla costa. Spazzata dal vento, arsa dal sole, questa era prima una fortezza inespugnabile e poi una città di appestati. Giungervi in barca, adesso, di prima mattina, equivale ad entrare in una città fantasma, oltrepassare la porta d'accesso, una galleria attraverso le mura e salire su quelle stesse mura per osservare il mondo "normale" così vicino ed inaccessibile. Perché ogni porta finisce sul mare, un confine d'acqua senza recinzioni ma pur sempre senza speranze. Qui ogni cosa é lasciata com'era, e soltanto il tempo ha eroso, distrutto, fatto crollare ciò che era. Una campana arrugginita pende ondolando muta col vento, le finestre sono sfondate, ed oltre i mattoni di pietra sono crollati nel labirinto di stanze ed abitazioni che si intravedono. Lentamente la fortezza/reclusione dimenticata ha lasciato spazio al ricordo, agli spiriti e ad un vento caldo e sferzante che soffia da sud. Ansimante, risalgo la città cercando di intuire, a tratti dove continui il sentiero, per poter arrivare in cima a questa piccola montagna, letteralmente un cono emerso dal mare, per osservare il labirinto cocentrico ai miei piedi, le variazioni del fondale marino, e quella che appare terraferma in lontananza. Un albero spettrale, al mio fianco, domina la fortezza e, insensibile alla vista, affonda le radici nel doloroso passato del suo terreno.

 

 

Oltre le montagne dai fianchi bruciati dal vento, una volta superata la cima, si entra in un mondo incredibilmente diverso. Come il fondo di un cratere, un cerchio quasi perfetto che per poco non si perde nei nuvoloni condensati in lontananza, sembra di aver scoperto improvvisamente un paradiso terrestre, di piante rigogliose e campi coltivati. E come un altro mondo, anche questo ha i suoi guardiani, stoicamente immobili sul bordo del crinale, tra massi di pietra franati e blocchi in rovina, ombre un po' spettrali al valico la sera. Lo erano un tempo, quando questo entroterra era rifugio di una fiera resistenza contro ogni invasione, lo sono tuttora, a marcare l'ingresso a quello che é sempre stato uno dei granai dell'isola. Mulini, antichi e decrepiti che osservano malinconicamente la costa in lontananza, e quelli moderni, nel plateau con le loro tele stese ancora in movimento perenne. Perché in effetti c'é un che di ancestrale ed incontaminato in questo luogo risparmiato dal vento, dove anche nuvole e piogge vengono catturate al cielo, trattori scalcinati compaiono qua e là ai bordi della strada, e dove il mare, distante pochi chilometri in linea d'aria sembra veramente lontano.

 

 

Riconosco quel foro, sul tronco di un albero contorto. Tra queste mura, dove sangue e terrore sono scorsi, fino all'ultima battaglia, una freccia incisa nel legno indica il punto esatto di questa ferita. Difficile immaginare, ora che le mura sono bianche splendenti, il profilo delle campane un'ombra netta contro il sole, ed un intenso profumo di rose colora il silenzio che si respira tra il chiostro ed ogni sezione del monastero. Ho attraversato le montagne che dividevano la costa da nord a sud, mi sono spinto nei punti più estremi dell'isola, alla ricerca di questi luoghi di pace e raccoglimento. Attorno, spesso, era il deserto, cui al massimo soltanto viti ed ulivi riuscivano a strappare una parvenza di vita. Ma tra tutti, questo rimane per me il più potente ed affascinante. Il suo profilo, appena varcato l'ingresso é un ricordo che ho portato scolpito nella mente, così come la distesa antistante di pietrisco e sabbia rossa spazzata dal vento. Fermarsi qui, respirare il silenzio, sfiorare i petali di quelle rose tinte di sangue ed ascoltare il suono delle cicale; e poi, assaporare il sapore del miele come fosse un nettare donato dagli dei tenendo a bada i movimenti curiosi di un gatto ed osservando il paesaggio che scende verso il mare e verso una città nascosta: ogni momento assume un valore ancora più profondo in questo luogo così come mi é stato consegnato, in quella pagina scritta sul tronco di un albero secolare, sui muri graffiati, e nel ventre della terra.

 

 

Svolazzano al vento, i pizzi appesi all'ingresso. Candidi quanto le pareti degli edifici, uno sull'altro, in un labirinto che si arrampica lungo la montagna, interrotti da gradini che non terminano da nessuna parte, arcate di fiori e linee blu a segnare gli spigoli di queste costruzioni regolari. Ogni tanto, qualche incontro di sfuggita, tra questi vicoli in continua slita e discesa, un bambino magari, ma molto più spesso anziani, che si affacciano e scompaiono di nuovo. Svolazzano, senza che vi siano occhi per osservarli, tanto deserta é la strada, l'unica forse che veramente si possa chiamare così, sulla quale si affacciano. Qui, come in altri luoghi, abbandonato il mare e partito verso un qualche centro nascosto di questa terra, quella sensazione di remoto ed autentico riaffiora con forza, immobile al limite della percezione, come se fosse qui che gli abitanti di Creta si possono riappropiare della loro isola. E' un altro modo di penetrare al cuore di questo luogo segreto, e cercare di catturare, un istante soltanto, un'immagine con gli occhi di chi questo luogo lo vive da sempre, conoscendone l'anima più vera e nascosta.

 

 

 
 
 

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Post n°865 pubblicato il 14 Settembre 2020 da enodas

 

 

 

Mi sono avvicinato al mare, nel buio della notte, quasi seguendo soltanto il suono delle onde. Su una striscia di sabbia, silenzioso, ho lasciato alle spalle i rumori del villaggio e, soprattutto, tutte quelle inquietudini e paure che avevo avuto prima di partire. Il calore dell'aria e dei modi che mi aveva avvolto appena sceso dall'aereo, prima, ma ancora più questo paesaggio avvolto nel buio, semplicemente, mi stava calmando. Come una carezza leggera o una nenia che con un abbraccio faceva rallentare il battito, allentando ogni tensione. Come un canto innato, che mi ha incontrato ogni volta che sentivo di averne bisogno, proiettandomi verso un mare di stelle, nel cielo più buio, e soltanto un suono ostinato, un basso continuo, o magari verso colori e riflessi azzurri, quasi accecanti, tra immagini vere o presunte. Ogni volta, come adesso, mi sono seduto ad aspettare, senza volermi più realmente alzare, partire, allontanarmi da quel movimento magnetico ed infinito che anche nell'oscurità della notte percepisco vicino, quasi a sfiorarmi se solo lo volessi, eco sussurrata e voce al tempo stesso profonda di un nome che sembra evaporare direttamente dalla spuma, dall'acqua ormai frammentata ad un passo dalla riva.
Osservo nel vuoto ed ancora penso, alla fine, sono tornato. In un luogo dove molto di me ha avuto inizio, dove ancora una volta cercherò quei luoghi dell'anima che avevo sotterrato sulla mappa e con essi, alcuni frammenti di me.

 

 

In parte avevo dimenticato i profumi, i colori, l'intensità dell'azzurro. Forse, per quanto ci si sforzi, i ricordi prima o poi si lasciano pur sempre sorprendere da una patina opaca e polverosa. Come a voler ripercorrere un cammino simbolico, per prima cosa sono salito in cima, sulle mura di una fortezza, là dove i miei ricordi mi facevano partire alla conquista del mondo. Da lì ho riassaporato la luce abbagliante, le acque intense e limpide, ed i lasciti della Storia, sparsi ovunque qua e là, a partire da questo punto a strapiombo. Ho tolto via via quegli strati di polvere, per scoprire in fretta che non solo rivedevo immagini note, ma al tempo stesso ne raccoglievo molte di più, che non ricordavo o che non avevo notato. Perché come quei fiotti d'acqua che si infrangono contro quegli scogli, non siamo mai sempre gli stessi. Ma é stato scendendo verso la città, soprattutto, che ogni cosa ha iniziato ad apparirmi in immagini nuove e più vive. Tanto da non saper distinguere quanto avessi rimosso da ciò che effettivamente fosse cambiato perdendo quel suo spirito un po' passato e genuino. Mi sono presto perso tra vicoli di roccia bianca, seguendo volute di fiori e bouganvillea, ispirato dai profumi speziati via via più intensi. Ho proseguito, fino a perdere l'orientamento e dimenticare la direzione del mare, ma seguendo una linea invisibile che dal passato mi richiamava su strade da scoprire. Di nuovo.

 

 

Sono giunto agli angoli più remoti. Là dove un tempo non ero riuscito. Lungo una strada tortuosa di montagna, oltrepassando le mura di un monastero che pareva una fortezza strappata ad uno sperone roccioso, fino a quando la strada non diventava un letto di sassolini bianchi per scomparire infine nella spiaggia. L'acqua limpida era una distesa di riflessi che vibravano sulla sabbia rosata - o almeno ciò che ne rimane - dove le gambe affondavano pochi centimetri, un'unico specchio frammentato di secche ed isolotti reggiungibili a piedi. Ho atteso la fine del giorno che la gente scemasse e quello specchio a perdita d'occhio diventasse una superficie leggera e perfetta, perduta tra ombre immobili ed isole fluttuanti. Ed allora ho pensato ad uno di quei porti sicuri, dove le navi antiche gettavano l'ancora per cercare riparo, forse al primo accenno di una sera d'estate, proprio come oggi, e spiaggiavano in un luogo come questo, riparato dai monti, selvaggio e perduto, chiamandolo casa.

 

 

Ho oltrepassato il cancello: la targa all'ingresso avvertiva che questo, innanzitutto, é un luogo di raccoglimento e spiritualità. Una via verso il Paradiso, forse, dove il Paradiso forse é una tinta azzurra intensa che si scorge in fondo al paesaggio, in basso. Pochi passi e, in un'illusione prospettica, il sentiero di pietre grezze sembrava semplicemente scomparire nel vuoto, tuffarsi in un cielo senza nuvole. Ho iniziato la discesa, esposto ad un sole crudele, al cui riparo, occasionale, non c'era altro che un albero dall'altezza mozzata, che cresceva ogni tanto, in condizioni eroiche. Le prime grotte sono apparse oltre, nascoste da pezzi di mura spaccati fino quasi al terreno. Raccoglimento e preghiera: i monaci, ancora, scendono fino a qui, ed oltre, ancora, lungo la scogliera che scende fino al mare, un mare lontano e silenzioso, come il vento che, semplicemente, nel caldo dell'estate tace fino a scomparire. Ancora, gradini che sembrano sopsesi nel vuoto; ancora, un percorso dal valore simbolico. Fino a ripiegare, dentro la roccia, in quella che sembra un piccolo villaggio incastonato nella roccia, abbandonato e perduto, oltre una porta d'accesso che sembra l'ambientazione di un racconto di fantasia, sospeso al limite della gravità, le grotte in cui sono depositate centinaia di icone sbiadite dal tempo e moncherini di candele che si ergono sulla sabbia, come spettri emaciati, ed una gigantesca pietra, infine, sospesa come un ponte che però non trova sponda all'altro estremo. Ancora, semplicemente, silenzio.

 

 

Ruggisce, violento. In questo tratto di costa, dove niente sembra poter sopravvivere e qualche costruzione appare abbandonata prima ancora di essere portata a conclusione, le onde si infrangono contro rocce e falesie senza pietà. Una strada che scompare e diventa sterrato per arrampicarsi nuovamente su una scogliera che custodisce un eremo silenzioso e perduto, é ciò che rimane di un ultimo disperato tentativo di conquista. La spuma del mare, sopra infinite variazioni di verde smeraldo e turchese, é un richiamo irresistibile che sputa rabbia e forza incrollabile allo stesso momento. Magnetizzato, il mio sguardo rimane fisso a seguire quel moto senza pace, quelle pietre che vi si oppongono, ed il fragore che ne risulta. Assordante e senza dimensione temporale. Dov'é il confine, dove il punto di non ritorno, dove la terra che é ancora di salvezza.

 

 

Se l'essenza é divina, lo é per l'eternità. Un ultimo sguardo, quasi struggente. Non voglio uscire dall'acqua, asciugarmi, indossare i vestiti e voltare le spalle al mare. Dal punto più occidentale, a sud, a quello più orientale, a nord: un lungo percorso che ho seguito tra storia, ricordi e luoghi dell'anima a cui avevo promesso un ritorno. Un ultimo sguardo, verso il mare, prima di partire, questa volta per davvero. Lasciare il sole, il cielo limpido e l'acqua cristallina. Lasciare i passi di storia, crudele mistica ed affascinante, e sfiorare con lo sguardo un ultima volta la distesa argentes degli ulivi. Come la prima sera, ancora, e come molti anni fa, immergere le braccia, quasi fino ai gomiti, nell'acqua fresca, fa pulsare la vita ado ogni battito, ed il rumore delle onde che si infrangono pigramente sulla spiaggia, placa ansie e paure. Ma non la malinconia di non appartenere a questa terra. Oytis. Oytis. Nessuno. Come uno spirito invisibile, mi osserva dagli scogli, mi chiama in un sussurro che non odono le orecchie eppure mi attraversa in profondità. E' quella stessa voce, che arde di passione e di curiosità. Quanto riuscirò a portare dentro di me, di tutto questo, il sapore dolce del miele e quello intenso dell'olio, anche loro frammenti di quell'essenza divina, la cui bellezza ha fuso la storia ed il mito, dietro un unico orizzonte infinito; quanto saprò conservare la gioia di questo luogo, la magia di essere, semplicemente, qui, a respirare a pieni polmoni. Mi mancherà, già lo sento.

 

 

 
 
 
 
 

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