Creato da middlemarch_g il 24/01/2008
'Fallisci meglio' è il mio secondo nome
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Messaggi del 11/08/2008
Com’è noto, l’attitudine al rispetto delle file non è mai stata una priorità nell’area compresa fra la catena montuosa delle Alpi e il Mediterraneo settentrionale. Ci pensavo oggi mentre aspettavo il mio turno allo sportello dell’Antonveneta convinta di cavarmela con poco. Capirai, mi ero detta, chi caspita vuoi che vada in banca l’11 di agosto? Sbagliavo, ma non è questo il punto. Sono entrata e c’erano due persone davanti a me. Mi metto in coda. Due minuti dopo ne entra una terza, una signora di mezza età con gli occhietti ancora cisposi di sonno, che si guarda intorno e rispetto alla fila, e alla mia posizione in particolare che era l’unica che avrebbe dovuto prendere in considerazione essendo io quella immediatamente prima di lei, si piazza a ore due. Cioè in alto, a destra, più o meno parallela al primo in attesa, ma non esattamente allineata. La prima scheggia impazzita. Passa all'incirca un altro minuto, ed entra una quarta persona. A quel punto, non si poteva fargliene una colpa, i riferimenti gerarchici erano già compromessi, non c’era più modo di capire esattamente cosa stesse succedendo. A me in questi casi sembra buona norma domandare chi è l’ultimo. Non ti esonera da ogni rischio, perché se tra te e lui c’è qualche imbecille i casini possono succedere lo stesso. Ma insomma almeno consente di limitare i danni peggiori. Lui la pensava diversamente da me. Non ha chiesto, e si è collocato a cazzo, in mezzo alla sala, in una posizione che non corrispondeva a nessuno schema riconoscibile che non fosse unire i puntini per visualizzare la figura nascosta. Quando poi sono arrivati la quinta e la sesta persona, ogni elaborazione tattica era andata a farsi fottere, tanto più che come spesso succede nelle filiali dei piccoli paesi, quelli che si conoscevano hanno cominciato a chiacchierare fra loro del tutto dimentichi del fatto che una fila forse non è un rito, ma necessita comunque di un minimo grado di vigilanza sugli eventi per evitare che ti sfugga di mano. Io non ero preoccupata a titolo personale, perché sono cresciuta a Roma, e sono diventata adulta negli anni ’80, un’epoca in cui fare una fila era un’arte regolata dalle sole leggi della sopraffazione, essendo l’era dei numeretti e dei display luminosi ancora molto di là da venire. Per quel che riguarda il talento per sorvegliare lo status di una fila, crescere a Roma è come frequentare un’università dell’Ivy League. Roma è l’Harvard delle file. Questo perché se non ti svegli, in fila ci puoi invecchiare. E’ una città dove impari in fretta a prenderti cura dei tuoi diritti con tutti i mezzi, leciti e illeciti. Perché se non lo fai tu, nessun altro lo farà al posto tuo. Quando sono in fila, io che in circostanze diverse sono patologicamente persa nei miei pensieri, attivo uno scanner tipo Terminator e so sempre perfettamente chi c’era prima di me. Nessun rischio che mi passino davanti a mia insaputa. Qualcuno ci prova, ma se ne pente subito. Per cui quando è stato il mio turno ho fatto quello dovevo fare, e poi me ne sono andata. Prima di uscire ho dato uno sguardo alla sala con compassione e tenerezza. Dieci persone distribuite in giro senza logica, disposte a tutto, perfino pestarsi i piedi, pur di non assumere la conformazione più ragionevole da qualsiasi punto di vista, cioè uno dietro all’altro. Distratte, inconsapevoli del loro turno, qualcuno credo perfino dimentico della ragione per cui era entrato, che poteva al limite anche essere solo la voglia di salutare un conoscente intravisto attraverso i vetri. Io in questi casi mi domando sempre: ma l’italianità si può davvero spiegare senza il contributo di qualche fattore genetico? |
Post n°189 pubblicato il 11 Agosto 2008 da middlemarch_g
Invecchio. Evidentemente invecchio. E come tutti invecchiando divento meno tollerante. Categorie di persone che un tempo mi intenerivano, adesso mi indispongono. Individualmente, se proprio me le vedo sciogliersi in lacrime davanti agli occhi, possono ancora suscitarmi un’ombra di pietà. Ma collettivamente mi fanno incazzare. Di questi tempi, la classe che me le fa girare di più è quella degli incapaci del desiderio. Quelli che vivono speculando sulle proprie emozioni con cui si costruiscono cattedrali negli angoli più irraggiungibili dei loro deserti mentali, e poi nella realtà risultano incapaci di confrontarsi perfino con la voglia di un cappuccino tiepido. Quelli che si raccontano che se la vita desse loro un’opportunità sarebbero capaci di coglierla come Ercole al bivio, e poi scappano sistematicamente di fronte ad ogni occasione che passa, e non necessariamente quelle che transitano veloci come un treno. Riescono a farsi distanziare perfino da quelle che arrivano in carrozzina, sul passeggino, nella sedia a rotelle spinte da un’infermiera pietosa. Quelli che si lamentano contro un destino impietoso e singolarmente cinico, e si rammaricano del patrimonio di euforia e dolcezza che sentono di possedere e che desidererebbero spargere a piene mani se solo qualcuno gli fornisse un buon motivo per farlo, e poi rimangono chiusi fra la cucina e il tinello della propria mente, e aprono la porta al nuovo con la faccia truce, sospettosa, con la catenella della porta ancora attaccata, e non mi interessa, non mi serve niente, se ne vada oppure chiamo subito la polizia. Ma, cazzo, la vita presuppone un po’ di fegato. Presuppone un minimo di proattività. Presuppone il coraggio di qualche iniziativa di cui non sia possibile valutare a priori costi e benefici. Non è che tutti dobbiamo scalare il K2. Ma qualche volta ci vuole il coraggio di credere, di fare una scelta, di fidarsi anche quando il rischio è alto, specie se il desiderio che lo alimenta è proporzionato. In fondo c’è solo da guadagnare. Se va bene, perché abbiamo ottenuto quello che volevamo. E se va male, perché abbiamo finalmente l’occasione di dimostrare che quel che non ci ha ucciso ci renderà più forti, e che in ultima analisi si tratta solo di spiegare ancora una volta la mappa sul tavolo e disegnare una nuova rotta. |
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