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Noi, maiali di oggi noi

Post n°212 pubblicato il 16 Gennaio 2009 da le_corps

Ricordo ancora quella sera, era una sera come tante: il trogolo vuoto, la merda fino al polpaccio e fili di paglia pungenti che mi ferivano la pelle liscia e soda della schiena, questa schiena possente e setosa che mi inorgoglisce almeno quanto la mia coda: mi dicono che è bellissima, la mia coda, ma ho il torcicollo e non arrivo a guardarla, allora la immagino, in queste sere tutte uguali, uguali ai giorni. In queste sere in cui la luce non filtra più dalle fessure delle pareti e dalle crepe del tetto, questo tetto basso sulle nostre teste basse.
Alcuni di noi dicono che sopra questo tetto ci sia un altro tetto, che si chiama cielo, ma io nemmeno quello ho mai visto, sarà il torcicollo sarà questa vita ritirata che ho sempre fatto, questa vita fatta di lentezza e pesantezza, di parole fatte grugnito per cifrare i discorsi e i pensieri e le immaginazioni.
Alla sera, il trogolo si svuota e la testa si riempie. Restiamo tutti in silenzio a guardarci le zampe, mentre qualcuno tende gli occhi in alto spingendo le pupille (con tanta protervia da farle schizzare contro il tetto, una di queste sere). Insomma, dicono che ci sia un altro tetto, molto più alto di questo, un tetto chiamato cielo, un tetto con colori e movimenti che noi non possiamo nemmeno immaginare. Qualcuno ne nega l’esistenza, qualcun altro dice di averlo visto, ma nessuno gli crede: tutti sanno che dacché è nato non si è mai mosso da qui. Come tutti, del resto. Tutti tranne uno, un vecchio maiale, il più vecchio di tutti: è un vecchio maiale addolorato: sopravvivere è una condanna insopportabile, in certi casi.
Sapete cos’è l’aria? - ci apostrofò una sera il vecchio maiale.
Si sollevò un grugnito collettivo, un po’sfiatato, per via dello smarrimento, un po’basso, per via dello stupore. L’aria: no, non sapevamo proprio cosa fosse.
E allora non potete sapere nemmeno cos’è il cielo, tagliò corto quel vecchio porco che ne sapeva una più del, anzi, che le sapeva tutte, e forse per questo soffriva, e qualche volta gli si inumidivano gli occhi mentre stava con la testa giù nel trogolo, e lentamente lo  ripuliva, per non far vedere che piangeva.
Allora pensai che non sapere cosa è l’aria o come è il cielo forse era una buona cosa, così come vivere per poco: non hai nulla da rimpiangere. Grugnisci allegramente quando qualcuno fa una battuta, e ti basta ricevere un complimento alla tua coda per passare una buona giornata. Che finisce quando la luce da calda diventa fredda, di colore azzurrino, ed emette un ronzio costante, come di filo che sta per bruciare ma non brucia e si lamenta solo.
Ricordo ancora quella sera, una sera come tante, con quel filo di paglia piantato come un ago al centro della schiena. Era una sera in cui si parlava poco, i pensieri erano silenziosi e i musi affondavano nella melma, qualcuno teneva gli occhi aperti e fissi, qualcun altro li teneva chiusi ma non dormiva. Era una sera di silenzio e di leggerezza, eh sì che la leggerezza la posso immaginare: la leggerezza è tutto ciò che non siamo. Vedi, vecchio porco, basta ribaltare un concetto che conosci per accedere a un altro che pensavi di non conoscere; vedi, vecchio porco, basta far camminare un po’il cervello se le zampe non ce la fanno, e così impari comprendi e tendi i tuoi limiti, e soprattutto lo immagini  il limite. Eh sì, che posso immaginarlo il cielo, come posso immaginare l’aperto conoscendo il chiuso, e l’alto conoscendo il basso: faccio esperienza con la logica: ho tutta una geografia mentale che se ne sbatte della geografia terrestre: la mia mente è capace di inglobare tutta la terra, fango compreso, e di superarla; questo corpo appesantito oltre natura e contro natura, questo corpo limitato bloccato e schiacciato al suolo aiuta la mia mente a volare: sì, il fetido e il puzzolente mi danno indizi sul sublime.
E già soffro.
E’ vero. Mi sono spinto troppo oltre, mi sono concesso associazioni e induzioni che dovevano rimanere appannaggio degli uomini, queste bestie senza tocicollo che ci fanno visita per riempirci il trogolo, che disprezzano la nostra immobilità e rifiutano i nostri odori (ci hai fatto caso che parlano sempre dietro mascherine?), che disturbano il nostro sonno con un ronzio costante di filo che sta per bruciare ma non brucia, ed emette una luce azzurrina.
E’ vero. Mi sono spinto troppo oltre. Sfidando il torcicollo mi sono concesso uno sguardo in alto verso il cielo, e uno indietro verso la coda, questa mia coda bella grassa e attorcigliata che mi dà tante soddisfazioni. Ma il vedere non so se mi ha fatto bene, perché ora sento dolore, come di puntura, al centro della schiena; forse è un filo di paglia che mi si è conficcato nella pelle soda e setosa, un filo che punge come un ago, di quelli grossi, da vaccinazione. Non so, caro il mio vecchio porco che ne sai una più del, che le sai tutte, e da brava persona quale sei ci metti in guardia. Dall’interrogarci, dal capire, dal pensare. Son solo dolori! - ci ammonisci. Testa nel trogolo e culo nella merda! - ci esorti. Coda compresa! - infine grugnisci, baldanzoso come padre speranzoso che dissimula la sua malinconia, che ci vedrà tutti andar via.

Di seguito, un post di non.sono.io, recuperato da Blanca (grazie), che non ero riuscita a leggere. Ma, si sa, è l'epoca delle rimozioni collettive e individuali.

 

SOLO PER VERE MAIALE

Non potrò mai scordare la prima volta
che ti vidi. Tu sembravi così giovane anche se avevi già superato i
cinque anni, e il tuo grasso molle e virile sembrava volesse esploderti
fuori dalla pelle. Non mi dicesti nulla: avvicinasti il tuo naso al mio
pube già caldo, e iniziasti ad odorarmi tutta. Le gocce della mia
eccitazione ti sporcavano il viso e si mischiavano al fango e ai resti
di escrementi, e nel suolo di quella stalla mi prendesti con folle
passione. Io volevo solo lasciarmi andare, essere tua, sentirmi
posseduta dalla tua voglia animale, sentire il tuo fallo duro e
riccioluto entrarmi fin dentro l’anima, e riempire le mie voglie di
femmina in calore. Mi prendesti da dietro, immobilizzandomi con forza
maschia, mentre il tuo bacino scavava il mio orifizio ormai completamente fradicio. Il primo orgasmo fu uno dei più completi di
tutta la mia vita. I nostri grugniti squarciavano l’aria calda e satura
degli odori dei nostri corpi che si fondevano, e sembrava quasi che in quel momento al mondo ci fossimo solo noi due. Al quindicesimo orgasmo scoprì che ti amavo. Al ventottesimo decisi che non ti avrei mai più lasciato.
Eravamo così giovani, amore mio. Ancora non sapevamo che la felicità sa di prosciutto.



 

 
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