« Démarrer | Quattro fuochi » |
Una mano di uomo sul mio fianco destro: ecco di cosa avrei bisogno. Una mano che non ha fretta, che sa quanto premere, una mano che sa essere larga e sicura come un abbraccio intero. Una mano che lenisca questo dolore che non va via. Una notte accartocciata sul divano può andare, tre di fila no. Ho il fianco dolente, ma probabilmente è solo l’epicentro di un dolore che sta altrove. Il nostro corpo è tutto un gioco di riflessi, la nostra vita anche. Un gioco che giochiamo senza incorrere in domande scomode, domande tipo da dove parte il dolore? oppure quello che ho detto era veramente quello che volevo dire?
Ciò che è vero si confonde, ormai, ciò che è vero è ricacciato nel profondo del sogno o dell’incubo, e usiamo la parola vero per ammantare di sincerità, anzi, di autenticità ciò che facciamo: la usiamo per spostare e giustificare. Ormai siamo ciò che diciamo di essere, e le parole ci sono complici nel preparare e ammannire a noi stessi e agli altri una definizione di sé, purché sia. Con le parole imbastiamo discorsi: discorsi bastardi, nati contraffatti da una madre che dice una cosa al posto di un’altra: per abitudine per difesa per radicamento nella sfiducia. Una madre snaturata come tante: un dispositivo del rimpiazzo, e dell’evitamento a fin di bene. Una madre che non si accorge che qualcun altro sta vivendo al posto suo, il che andrebbe pure bene, solo se ammettesse a se stessa di essere proprio qualcun altro, solo se il suo corpo non si ammalasse tanto stupidamente, solo se…
Ma non volevo dir questo. Volevo parlare del mio bisogno, di quella mano di uomo larga e sicura, fatta per il mio fianco, fatta per allontanare il dolore di queste tre notti. Il divano è un posto piccolo anche per il mio piccolo corpo.
Il divano è un posto scomodo eppure così comodamente consolatorio.
Il divano è il luogo del prolasso di ogni contenimento, un luogo privato, di libera minzione.
Lì, sul divano, ti proteggi con poco e ti basta poco per sentirti al mondo e non subirne il peso, perché senti che niente ha peso, niente di quello che hai fatto prima di quel momento, prima di rannicchiarti su quel divano, sola ma forte, forte di una lucida disperazione, così lucida e così utile alla vista: la prima notte.
La prima notte siamo delle indomite su quel divano: niente ci può sopraffare, né il freddo né il dolore; il dolore fisico ci ricorda il dolore del cuore, e viceversa, ma entrambi li sopportiamo: la prima notte.
La prima notte siamo indomite e guerriere con i pugni serrati e sferrati nel vuoto come se il vuoto non fosse vuoto, come se la solitudine lo riempisse.
Ma alla terza notte, la forza della solitudine lascia il posto alla desolazione, la desolazione dell’ennesima fuga: quando la realtà rischia di sovrastarti, scappi, ti rintani su un divano che diventa il tuo fortino, il confine entro il quale inscrivere un corpo e una volontà, qualunque essa sia, un confine proprio, individuale e pertinente, che giri attorno ad un regno, dove basta una corona di propositi futuri e di prove passate per dirsi regnanti. Un regno in cui Tu giochi tutte le parti: un regno che non funziona.
Alla terza notte, il tuo corpo è un ammasso di macerie rovinate sul cadavere del tuo spirito: un disastro in cui il cuore è disperso, per cautela: quando non si trova è ufficialmente disperso.
E al risveglio ti chiedi: dov’è quella mano di uomo larga? O di donna larga? Dov’è quella mano, anche non sicura e non ferma, ma incerta e tremante, che preme troppo piano per paura di far male o troppo forte nel timore di non alleviare?
Dopo la terza notte passata sul divano, ho il fianco destro dolente per riflesso, un regno disfatto e un telegramma al posto del cuore.
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