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Messaggi di Maggio 2007

Tutti contro il Colosseo

Post n°7 pubblicato il 10 Maggio 2007 da writer_980
 

immagine

Ai nostri giorni il Colosseo é senza dubbio l’emblema di Roma. Nel corso della storia però ha dovuto sopportare più persecuzioni di quelle che ha realmente ospitato. Nel XVI secolo per esempio gli arconi inferiori costituivano il rifugio di banditi e meretrici. Clemente X per scacciarli ebbe un’ineffabile idea: fece chiudere quegli archi con i relativi corridoi, trasformandoli in depositi di letame che hanno funzionato fino al 1811.
Neanche la natura ha risparmiato il Colosseo e ben tre terremoti l’hanno ridotto all’attuale consistenza. I travertini caduti, invece di essere restaurati, furono usati per altre architetture romane: Palazzo Venezia, la Cancelleria, il porto di Ripetta e le sottostrutture di Ponte Sisto. Costruzioni che, a ragione, furono definite “figlie del Colosseo”.
Assai più devastanti dei terremoti però rischiarono di essere due illuminanti proposte provenienti dalle alte sfere pontificie. L’anfiteatro corse un grave pericolo quando Sisto V decise di costruire una strada che collegasse il Vaticano al Laterano. Gli architetti obiettarono che il percorso avrebbe incontrato il Colosseo e lui ordinò senza esitazioni di “tagliarlo” perché la via da lui ideata sarebbe stata molto più utile. Poi, per una questione economica, dovette rinunciare alla sua brillante trovata. Una volta tanto anche una crisi economica é stata un evento provvidenziale.
Non era ancora abbastanza. Una citazione per l’idea migliore spetta di diritto al cardinal Brunetti che, nel 1832, ebbe la geniale intuizione di trasformare il Colosseo in un cimitero. Secondo lui il terriccio sottostante misto alla calce sarebbe stato perfetto per la decomposizione dei cadaveri. Per fortuna, é proprio il caso di sottolinearlo, morì prima lui ed il progetto sfumò.

 
 
 

Il Colosseo e i demoni

Post n°6 pubblicato il 07 Maggio 2007 da writer_980
 
Foto di writer_980

Non c’é turista che passi per Roma senza soffermarsi dinnanzi al Colosseo. Ma quanti conoscono l’origine del toponimo Colosseo? In realtà, come tutti sanno, il vero nome del monumento simbolo della città eterna é Anfiteatro Flavio. Da dove nasce quindi questa denominazione comune?

L’origine non é chiara: alcune fonti la fanno risalire al colosso di Nerone, una statua di circa trenta metri che si ergeva nella sua maestosità accanto all’anfiteatro. Altre invece dal luogo in cui sorge, dal latino Collis Isei, in virtù di un tempio di Iside sul monte Oppio che dava il nome alla contrada, detta Iseo.
Oltre a queste ipotesi plausibili vi era anche una leggenda curiosa, tramandata da Armannino Giudice. Secondo costui il Colosseo era un tempio infestato dai demoni. I sacerdoti che predicavano all’interno, al termine di ciascun rito, domandavano agli adepti con fare solenne: «Colis eum?», ovvero “Lo veneri?” con riferimento al capo dei demoni. Da questo inquietante interrogativo sarebbe derivato il nome del monumento.
Nel corso dei secoli tale diceria ebbe molto seguito tra i romani. Se ne trova riscontro anche negli scritti di Benvenuto Cellini, che descrive la notte in cui si recò al Colosseo per assistere alle manifestazioni demoniache. Secondo la testimonianza del celebre orafo il suo compagno Agnolino Gaddi, spaventato a morte dalla situazione, «fece una strombazzata di coregge con tanta abundantia di merda, la quale potette più della zaffetica» (la zaffetica era una miscela di zolfo usata dagli esorcisti per scacciare i demoni dai luoghi infestati) ed i diavoli scapparono via semiasfissiati.
É forse in quell’occasione che é nato il detto comune “povero diavolo”.
Ps:La foto è tratta dal blog amico Fotoraccontare

 
 
 

Il Pulcin della Minerva ed il furto sventato

Post n°5 pubblicato il 04 Maggio 2007 da writer_980
 
Foto di writer_980

Nel 1666 si decise di spostare un obelisco, il più piccolo di quelli giunti dall’Egitto, dal convento dei Domenicani a piazza della Minerva. La piazza non era nuova ad ingerenze egizie, al tempo dell’impero aveva ospitato la comunità discendente dei faraoni. Il caso volle che il piccolo obelisco fosse dedicato alla dea Neith, l’equivalente egizio della Minerva romana, anche se il nome Minerva deriva dalla statua eretta da Pompeo in onore di Minerva Calcidica (oggi in Vaticano).
Il basamento fu commissionato al Bernini che stupì tutti ancora una volta per la sua fantasia. L’artista collocò il monolite in groppa ad un elefantino, piccolo e grassotello, somigliante più a un porcello che a un pachiderma. Il popolino infatti lo ribattezzò “porcin della Minerva”, successivamente trasformato in “pulcin".
Nel 1946 Roma rischiò seriamente di perdere quest’opera. Un furbacchione riuscì a venderlo ad un ufficiale americano delle truppe d’occupazione che se ne era innamorato (altro che Totò e la fontan di Trevi). Il compratore inviò squadre di soldati ed un camion per smontarlo e trasportarlo in America. Il portiere del palazzo di fronte però s’incuriosì ed avvertì tempestivamente le autorità che riuscirono a fermare il “trasloco”, tra le veementi proteste dell’americano gabbato.
Costui non si arrese ed escogitò uno stratagemma. Assunse un gruppo di operai per spostare l’elefante, spiegando loro che andava trasferito per consentirne il restauro. I lavori cominciarono e i romani vi passavano davanti senza insospettirsi, sembrava uno dei tanti cantieri aperti in città. L’americano però, oltre a non essere furbo, era anche sfortunato. Quando gli operai avevano quasi liberato la base dell’obelisco si presentò una squadra comunale con l’incarico di rifare il selciato proprio a piazza della Minerva. L’americano, colto in fallo per la seconda volta, rispose in modo evasivo alle richieste di spiegazioni e, approfittando dei favori delle tenebre, si diede alla macchia.
Chissà dove sarebbe ora il “pulcin della Minerva” senza questi provvidenziali interventi…

 
 
 

Il piedone di marmo e il macaco

Post n°3 pubblicato il 02 Maggio 2007 da writer_980
 
Foto di writer_980

Camminando tra le vie del centro, sorretto da un basamento rettangolare, s’incontra un enorme piede in marmo calzato da un sandalo, che dà il nome al vicoletto adiacente (via piè di marmo).

Difficile spiegare il perché si trovi lì, le fonti storiche si accavallano confuse. La più plausibile é che si tratti del piede della colossale statua ritrovata in loco nel XVII secolo, appartenente alla decorazione dell’arco di Camigliano.
Nel 1878 fu spostata da via piè di Marmo all’imbocco di via di Santo Stefano del Cacco. Molte le interpretazioni per questo "trasloco": alcuni sostengono che fu trasferita per non ostacolare il corteo funebre di Vittorio Emanuele II; altri invece che fu spostata perché a pochi metri di distanza si trovava la bottega di un calzolaio. In questa seconda ipotesi il piede di marmo potrebbe essere considerato una prima rudimentale forma di cartello pubblicitario.
Il marito della vecchia che costrinse gli Altieri a cambiare i propri piani (vedi tags Palazzo Altieri, piazza del Gesù, via Santo Stefano del Cacco) era un calzolaio. Chissà che il “piedone” non sia lì in onore di un discendente che ha seguito una lunga tradizione di famiglia.
Interessante anche l’origine del toponimo Santo Stefano del Cacco. Il vero nome della chiesa che si affaccia sulla via era Santo Stefano de Pinea, in virtù della pigna posta sulla sommità del campanile che dà anche il nome al rione. Successivamente il popolino la ribattezzò del Cacco in riferimento alla statua di Anubi a forma di cinocefalo e confusa con una scimmietta, più precisamente con un macaco. Da lì la storpiatura romanesca in Macacco e, in ultimo, in Cacco.

 
 
 

Palazzo Altieri e la casa della vecchia

Post n°2 pubblicato il 01 Maggio 2007 da writer_980
 
Foto di writer_980

Se vi capita di passare nei pressi di palazzo Altieri, soffermatevi alcuni istanti sul lato che si affaccia in via Santo Stefano del Cacco. Noterete una stretta porticina e due piccole finestre che contrastano col resto della struttura. Non si tratta di una clamorosa svista dell’architetto Giovanni Antonio De Rossi che ne curò i lavori, ma di un episodio assai curioso.

Nel 1650 la famiglia Altieri decise di erigere in piazza del Gesù, all’intersezione con via del Plebiscito, un palazzo che rappresentasse la nobiltà del casato. I molti edifici già presenti, poveri o ricchi, furono sacrificati per lasciar spazio alla nuova residenza signorile. Il principe non badò a spese, acquistò tutte le case che intralciavano il suo progetto e le fece abbattere.
Tutte tranne una. Una vecchia signora, vedova di un calzolaio, non ne volle sapere di rinunciare alla sua modesta dimora e declinò tutte le generose offerte di acquisto. Il principe Altieri le provò tutte: preghiere, minacce, arrivò anche ad offrirle il triplo del valore della casa. La vecchia fu irremovibile, lei era nata lì e lì sarebbe morta.
All’epoca non esistevano ordini di sfratto né espropriazioni per pubblico interesse, di conseguenza i lavori di costruzione subirono un brusco stop con una notevole perdita di denaro. Per risolvere la questione la nobile famiglia si appellò al Papa ed il pontefice sancì che il nuovo palazzo sorgesse rispettando l’abitazione della vecchia.
L’architetto De Rossi fu così costretto ad incorporare l’umile casetta alla maestosa costruzione principesca, lasciandogli l’esposizione sulla strada ed un accesso indipendente. Il principe Altieri, a malincuore, sovvenzionò anche le spese per la ristrutturazione della casetta in modo che non stonasse col resto del palazzo. Nonostante ciò le differenze sono ancora oggi visibili ad un occhio attento. Quando vi troverete da quelle parti, dedicate un pensiero a quella povera vedova che, da sola, seppe contrastare una delle più importanti famiglie dell’epoca.

 
 
 
 

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(va beh, non ce n'erano migliaia di copie)

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