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Filosofia del viaggio
Il viaggio fornisce l'occasione per dilatare i cinque sensi: sentire e comprendere in modo più profondo, guardare e vedere in modo più intenso, assaporare e toccare con maggiore attenzione. Teso e pronto a nuove esperienze, il corpo in subbuglio registra più dati rispetto al consueto.
Viaggiare intima il pieno funzionamento dei sensi.
Emozione, affezione, entusiasmo, stupore, domande, sorpresa, gioia e sbalordimento, ogni cosa si mescola nell'esercizio del bello e del sublime, dello spaesamento e della differenza.
Michel Onfray
James Michener
Man learns what he sees
and what he learns
influences what he sees
Visto da vicino, nessuno è normale.
Strana questa cosa dei viaggi, una volta che cominci, è difficile fermarsi. È come essere alcolizzati. |
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13 settembre: segesta, gibellina, castello di rampinzeri
Visita del sito archeologico di Selinunte: interessante, nonostante sia rimasto “intatto” un unico tempio. Per il resto cumuli di rovine, resti di necropoli, vecchie mura. Sarà perché magari mi identifico, ma rimango sempre affascinata dai ruderi. Il percorso si snoda per 5 km di strade bianche (ovviamente polverose), fortunatamente quasi interamente in piano: io e la mia socia, geniali come un paguro bernardo lobotomizzato alla nascita li affrontiamo con relativa tranquillità e SENZA nemmeno una misera bottiglietta d’acqua. Non so se sarà stato l’effetto della disidratazione, ma, conclusa la visita decidiamo di andare a Gibellina, che, se il correttore automatico evitasse di modificare in ghibellina mi farebbe anche cosa gradita.
Gibellina è tristemente famosa per essere stata completamente distrutta nel disastroso terremoto del gennaio 1968. La “nuova” Gibellina è stata riedificata più a valle, in una dimensione urbanistica completamente differente, più moderna, più sicura, come per prendere le distanze dagli eventi catastrofici e dal paese che non c’è più, ma che resta lì, sventrato, a testimonianza di quei giorni.
Le rovine dell'antica città di Gibellina sono state trasfigurate in opera d'arte da Alberto Burri, che ha ricoperto le rovine con una colata di cemento bianco lasciando però inalterato l'impianto viario: è il Cretto di Burri
La fame inizia a farsi sentire e, mentre torniamo verso la città nuova notiamo un cartello che all’andata c’era sfuggito (da queste parti hanno la bizzarra abitudine di mettere i cartelli in un unico senso, generalmente opposto a quello di marcia) indicante un ristorante… Dubbiose ci siamo inerpicate e, alla fine della stradina si apre un piazzale con il piccolo castello di Rampinzeri, adibito a ristorante.
Adesso un bel copia & incolla dal sito del comune di Santa Ninfa, per descrivervi questo posto:
la denominazione “castello”, per ciò che riguarda la grande masseria di Rampinzeri, è impropria, non essendo questo munito di fortificazioni. Nell’accezione comune il grande baglio viene chiamato così a causa delle trasformazioni subite nell’800, che lo hanno reso castelletto neogotico dall’interessante bicromia, e dalla storia importante che tale costruzione svolge nella genesi di Santa Ninfa. Edificato sulle vestigia dell’edificio sorto ad inizio ‘600, il baglio subì numerose trasformazioni nel corso del ‘700 ed ‘800. Il vecchio Castello di Rampinzeri, in parte recentemente restaurato, ospita un elegante agriturismo specializzato in prodotti tipici, un piccolo spazio espositivo relativo agli strumenti della cutura agreste ed un considerevole club ippico. Esso sorge nell’omonimo feudo e già proprietà dei Giardina Bellacera, divenne nell’800 possedimento dell’antica famiglia De Stefani che ne mantiene la titolarità a tutt’oggi. Il nome “Rampinzeri”, mutazione consonantica di Rabinseri, ha etimologicamente origini arabe: la radice “rahal” indica “casale”, forse casale degli Angari, dal nome di una tribù africana che signoreggiava in zona.Di questo Castello si fa accenno nel romanzo del principe Giuseppe Tommasi di Lampedusa “Il Gattopardo”, dove viene impropriamente definito “fondaco”.
Entriamo fiduciose e la gentile cameriera ci dice, quasi dispiaciuta, che a quell’ora (sono quasi le 15.00) può prepararci soltanto un primo e ci propone i busiati al ragù di maiale. Accettiamo, immaginandoci un ragù simil bolognese (che io, nonostante sia emiliana, detesto) e invece no: oltre ad una quantità di verdure il maiale è sotto forma di trippa e l’insieme è assolutamente degno di rispetto. Per non farci mancare nulla ci siamo concesse anche una cassatella di ricotta… se qualcuno non lo avesse ancora capito sono golosa.
Al ritorno in hotel ci siamo spalmate a bordo piscina con una bottiglia di insolia Cusumano attendendo giungesse l’ora di cena. Siamo andate a castellamare del golfo e la scelta del ristorante è caduta su quello dell’hotel Cetarium, un po’ perché il posto è decisamente figo e molto perché nel menu faceva bella mostra di sé, tronfio e arrogante, un tonno in crosta di pistacchi e mandorle. Appena ci siamo sedute la solerte cameriera ci ha informato che tutto quello che c’era in menu era disponibile TRANNE i ricci ed il….. tonno! Avrei voluto alzarmi sdegnata, improvvisare una tamurriata ed andarmene ma, siccome son timida, mi tenni. In sostituzione ho ordinato un tortino di alici e patate e siccome nella mia piccola mente malata nessun altro pesce avrebbe potuto sostituire egregiamente il tonno ho ordinato una tagliata con verdurine e caciocavallo. Per punizione niente dolce.
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il 12/04/2022 alle 11:51
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