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And the dream goes on...again!!!

Post n°61 pubblicato il 29 Marzo 2007 da eltosco

FLASH ++++++++SIMONE QUATTRO MESI AL TG++++++++++++

Evviva!!!Evviva!!!Evviva!!! Grazie a tutti quelli che mi sono sempre vicino, a chi mi dice "dai che ce la fai", a chi mi ha fatto lavorare in questi mesi, alla mia famiglia, ai miei amici, a tutti quanti!!! Qualcuno dirà..."tutta questa storia per un contratto di lavoro di quattro mesi?". SI. Evviva.

 
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Il figlio di Vetro

Post n°60 pubblicato il 05 Marzo 2007 da eltosco

C’è chi sostiene che i libri possano essere divisi in due categorie: quelli un po’ingarbugliati, difficili da leggere quando si è stanchi, e quelli che invece vanno lisci come l’olio, con le pagine che scivolano velocemente tra le dita. “Figlio di Vetro”, del siciliano Giacomo Cacciatore, stupisce e a volte stordisce per lo slalom tra le due categorie (libri per stanchi, libri che scivolano) a cui il lettore è costretto man mano che il racconto va avanti. E così pagine leggibili si alternano a farraginose costruzioni stilistiche che sembrano quasi decise a tavolino e che finiscono per complicare il tutto, e semplici pensieri di un bambino – il protagonista del libro – finiscono per cedere a riflessioni sul sistema mafioso che sarebbe più logico trovare in bocca ad un adulto, ad un attento conoscitore del fenomeno mafioso, che sa interpretare le cose che il siciliano dice o, molto più spesso, non dice. E’questo il punto però, e cioè che il protagonista del libro non si chiama Leoluca Orlando, non è un adulto, non è un professionista dell’antimafia, ma si chiama Giovanni, e ha solo dieci anni. E la cosa disorienta.

Stona. Fa ridere. Il culto del camillerismo, che ha portato in ogni angolo del paese un pezzettino di quella Sicilia sospesa tra passato e presente in cui si muove Montalbano, ha avuto come conseguenza una ventata di “sicilianismo letterario” che ha creato molti figli, geni ribelli, mostri, tutti uniti in nome di un desiderio forte: raccontare l’isola, i suoi gesti, i suoi silenzi, le facce che annuiscono con la coppola in testa, le mani che volano in aria con le dita unite per dare un comando a qualche picciotto. Chi è affascinato da questo mondo sarà contento nel leggere il “Figlio di Vetro”, perché troverà tutto questo. Manca solo, forse, un Mastroianni che muove l’angolo della bocca verso l’esterno, sbiascicando uno schiocco di lingua sui denti. E manca una lupara, anche quella non c’è, sostituita da una più continentale pistola tenuta nella fondina “sotto l’ascella”, come Charles Bronson. Quel che è certo è che il romanzo è una storia di mafia in cui però la parola mafia “è scritta una sola volta”, pur respirandosi ovunque, pur dominando la scena dalla prima all’ultima riga, quando ci accorgiamo che il racconto, iniziato nel 1977, è lentamente arrivato fino al 1992, quindici anni dopo, con la sua strage di Capaci, l’attacco allo stato, Falcone e Borsellino, il passaggio da un’era storica ad un’altra. Forse. Per le prime cinquanta, cento pagine, il lettore si trova spaesato e non riesce ad individuare chiaramente né il protagonista, né il luogo della vicenda, né che cosa abbia spinto l’autore a raccontarci proprio questa storia invece di un’altra. Poi il libro decolla. Certo, il volo a tratti è difficile, il racconto a volte è inzeppato di citazioni di film e telefilm anni Settanta che sanno molto di Amarcord, però l’autore dimostra quasi subito il gusto dei colpi di scena. Tanti, troppi. Sono loro a tenere banco fino all’ultima pagina, la cento-sessanta-tre-esima. Sono loro che ti fanno pensare, se proprio hai la voglia e la pazienza di andare avanti, “voglio proprio vedere cosa succede, cosa si è inventato, non è possibile che vada a finire così”. E infatti così non va a finire, ogni pagina ribalta le certezze costruite fino a quel momento, nulla è scontato, l’assassino non è il maggiordomo e tutto è scritto tra le righe. Se non ti gira la testa, forse lo scopri.

Simone Toscano per Il Foglio

 
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Sanremo DEVE essere visto

Post n°59 pubblicato il 01 Marzo 2007 da eltosco

Tutto scorre, tutto cambia, le stagioni passano, i vini invecchiano, ma Sanremo è sempre Sanremo. Sì, perchè Sanremo va visto, va criticato, va ascoltato e goduto...Una settimana all'anno il Paese si ferma, tutti non parlano di altro...E stavolta c'è poco da fare, il Pippo nazionale ha tirato sù un bello spettacolo, alcuni duetti sono da brividi, il Barry White siciliano assieme ad Amalia Grè dà i brividi... e poi Cammariere con Cristicchi, a togliere quella patina da paraculismo insita in una canzone così particolare...

Gli ascolti vanno bene, lo stile c'è, l'eleganza pure, a parte qualche scivolone verbale o gestuale...Ma il rito di Sanremo prevede anche questo...

E allora iberniamo Pippo, svegliamolo solo una settimana all'anno per i prossimi cento, facciamolo felice e regaliamoci questo immenso Carosello, questa pagina di televisione differente, sempre uguale a se stessa...

A me Sanremo piace, e anche se un anno non mi piacesse, pazienza, accendo lo stesso la televisione e lascio lì, perchè tutto scorre, tutto cambia, le stagioni passano, ma Sanremo DEVE essere visto. Sennò che italiani siamo? Pizza, spaghetti e mandolino.

P.s. E Sanremo.

 
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Schizoamore, passioni comunicanti...

Post n°58 pubblicato il 03 Febbraio 2007 da eltosco
 

Ha il battito convulso di chi ama con passione, Schizoamore, il nuovo libro del giovane Alessandro Salas, scrittore siciliano ma romano d’adozione. Una raccolta che colpisce diritto al cuore, con il suo linguaggio visionario a metà strada tra Benni e Calvino, utilizzato per storie di coppie sottilmente infelici, ma anche amori non corrisposti, passioni e palpiti che legano sconosciuti e piccoli esseri umani (“che qualcuno con meno comprensione per il prossimo li avrebbe chiamati sfigati”) persi in un mondo così grande. Persone spesso infelici, perché non hanno imparato a comunicare.

E forse è proprio un libro sulla comunicazione, Schizoamore. Sulla comunicazione mancata, su quella cattiva, quella che “l’uomo, con un milione di anni di evoluzione sul groppone, morti, guerre e fiumi di sangue”, ancora non è riuscito a superare. In ogni racconto dominano la morte, i riferimenti sessuali e poi, su tutti, l’amore, sempre e comunque collegato ai primi due fattori. Le pagine di schizoamore respirano, le parole volano alte, ti fanno perdere in cielo. Poi tornano giù, di botto.

Come succede nella storia di Angelina, trentenne delusa dalla vita, che crede che Dio abbia scelto di vivere nel suo barattolo di prugne secche. E quando Dio vola via, lasciando un fumo biancastro che sa proprio di prugne secche, allora Angelina cambia improvvisamente vita, e nel giro di una pagina ritrova i vestiti di quando era ragazza e scopre il sesso con un operaio latin lover.

Il sesso, già. Ricorre in ogni racconto, forte, prorompente, dipinto con termini sfacciati che non hanno però il sapore della volgarità, come quando i bambini dicono “pisello” e ridono tra loro. Sesso che nasconde amore, quella cosa che, ci dice Salas, ti riempie gli occhi di lacrime, ti fa sentire aghi e punte in tutto il corpo, ti rincretinisce, che ti fa perdere il senso del pericolo e del ridicolo, ti sbriciola per un attimo e poi si nasconde da qualche parte.

Schizoamore nasce da qui, dall’amore che ti spiazza e ti travolge, da quella schizofrenia che ti cattura quando provi l’amore vero, quello con l’articolo determinativo. Schizofrenia è una parola paurosissima, racconta l’autore, il cui stesso suono punge l’orecchio, urla attenzione, pericolo. Roba brutta, da non toccare. Una parola d’impatto, spaventosa, capace di rendere la follia intrinseca dell’emozione che si prova amando, dell’assurdità e lo smarrimento. Schizo, il trucco è tutto lì. Un orrendo prefisso e la parola prende colore. Non amore, quindi, ma  Schizoamore. Perché le parole sono importanti.

Simone Toscano per Il Foglio

 
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Mondo Bond 2007, guida pratica all'agente segreto più famoso del mondo

Post n°57 pubblicato il 28 Gennaio 2007 da eltosco
 
Foto di eltosco

“Il mio nome è Bond, James Bond”. Basta questa battuta, votata come la più memorabile nella storia del cinema, ad aprire un mondo di ricordi e di immagini costruite intorno all’agente segreto più famoso del mondo. Ma dove nasce questo personaggio che ancora oggi, a cinquant’anni quasi dalla sua nascita, è tra i più amati dal pubblico cinematografico? E quali sono i suoi segreti? Qualche curiosità in più sul tenebroso 007 ce la fornisce il libro “Mondo Bond 2-007”, vera e propria Bibbia per gli amanti del Bond cinematografico e non solo, con tanto di monografia sulle auto viste nei film, un excursus sui gusti dell’agente segreto in fatto di drink e di cucina, e un dettagliato dossier sulle sue armi.
Sfogliando le pagine del volume scopriamo ad esempio l’origine della sigla 007, una sigla veloce, facile da ricordare, efficace. Che “007” abbia qualcosa di magico, si chiedono gli autori del libro? Forse sì, perché l’enigmatica cifra sarebbe stata infatti il numero di codice di John Dee (1527-1606), mago, matematico, amico di Giordano Bruno, astrologo di corte e agente segreto al servizio della regina Elisabetta I, una tra le prime grandi spie britanniche ricordate dalla storia.
Sicuramente la versione di Ian Fleming (padre del personaggio), è meno esoterica, e sembrerebbe risalire al suo lavoro proprio presso il servizio segreto della marina britannica durante la Seconda guerra mondiale. Il libro ci spiega infatti che Fleming, di famiglia aristocratica e votato, come Bond, al servizio di Sua Maestà,  venne incaricato per un certo periodo di controllare i messaggi top secret che arrivavano all’Ammiragliato, e che erano (fatalità) contraddistinti dal codice zero zero. Da qui forse la sua idea di associare il doppio zero ad una immaginaria sezione segretissima dell’Intelligence Service.
Quanto al nome James Bond, Fleming ammise di averlo rubato all’autore della guida ornitologica “Birds of the West Indies”: niente di più lontano dal mondo delle spie di un appassionato di ornitologia. In cambio, lo scrittore autorizzò il naturalista James Bond a battezzare Ian Fleming una specie di uccelli a sua scelta, anche tra le più orribili.
Sul nome dell’agente segreto c’è però anche una versione non ufficiale: per alcuni fan infatti sarebbe stato quello dell’identità fittizia adottato dalla spia Fleming durante una rocambolesca missione a Berlino, sul finire della guerra, in cui il creatore di Bond avrebbe recuperato e portato a Londra Martin Bormann (vice di Hitler dopo la morte di Hess), sostituendolo con un sosia fatto poi trovare morto nel bunker del dittatore nazista.
Se questa ipotesi appare molto fantasiosa, certo è che la biografia personale di Fleming, come per la maggior parte degli scrittori, ha influenzato parecchio lo scrittore britannico nella stesura dei suoi romanzi. Come nel caso di una strana vicenda accadutagli durante la Seconda Guerra mondiale, quando suo fratello Peter venne creduto morto. La notizia, apparsa sul quotidiano Daily Sketch, dovette essere smentita quando Peter riapparve vivo e vegeto qualche tempo dopo. Ebbene, Ian si sarebbe ispirato a questo episodio per scrivere il finale di “Si vive solo due volte”, in cui James Bond è dato per caduto in missione e su “The Times” esce il suo necrologio, che sarà smentito all’inizio del libro successivo.
Dal libro scopriamo poi che l’ossessione di James Bond per le donne e la sua contemporanea incapacità di legarsi affettivamente a una compagna stabile, in realtà non sono altro che la proiezione di un atteggiamento dell’autore. L’analisi non è difficile: la perdita del padre, la morte del fratello e la tragica fine di Muriel Wright (la donna più importante della sua vita) condizionarono fortemente Fleming, creando in lui una estrema diffidenza verso i legami stabili, potenzialmente forieri di perdite e di infelicità. Nei romanzi di Bond ricorre spesso la morte di una persona vicina al protagonista: non si tratta solo di un espediente narrativo, ma di una ripetizione del trauma originario dell’autore. In cerca di un antidoto, lo scrittore spinge il suo personaggio (e se stesso) a un’ossessiva vitalità.
Infine, riguardo al volto del James Bond cinematografico, è curioso scoprire come l’interpretazione che il disegnatore John McLusky diede di 007 nelle prime strisce di Casinò Royale, nel luglio del 1958, corrispondesse con anni di anticipo al volto di Sean Connery: è molto probabile che siano stati proprio quei disegni a portare alla scelta dell’attore scozzese per la parte.

Andrea Carlo Cappi e Edward Coffrini Dell'Orto
MONDO BOND 2007
da Ian Fleming a Daniel Craig, tutti i segreti della spia più famosa del mondo
Alacrán Edizioni
Pagg. 412 - Euro 16,80

Simone Toscano per TGCOM


 
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I linguaggi della comunicazione politica

I linguaggi della comunicazione politica: caratteristiche della comunicazione di CentroDestra e CentroSinistra

Martedi 16 Gennaio 2007, dalle 14 alle 18
Camera dei Deputati, Palazzo Marini - Sala delle Colonne


Un Convegno sulla Comunicazione in Politica. Campagne elettorali, comunicazione con i media e i cittadini nell'analisi di esperti, giornalisti e tecnici della comunicazione.

Si confronteranno punti di forza e debolezza dei diversi schieramenti con casi nazionali e locali recenti.

Relatori:

on. Italo BOCCHINO (AN)
on. Marcello CARLI (UDC)
dott. Claudio LIGAS - Uff. Stampa Camera dei Deputati
dott. Marco CACCIOTTO - Segretario AICOP
prof. Gennaro SANGIULIANO - giornalista RAI
dott. Lanfranco PACE - giornalista La7
dott. Arturo DIACONALE – giornalista L'Opinione
dott. Simone TOSCANO - giornalista

Contatti:
Segreteria Eidos Communication
Monica Crescenzi
Tel. 06 42014100

 
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La Fon-mania contagia l'Italia

Post n°55 pubblicato il 04 Gennaio 2007 da eltosco
 

Sono oramai migliaia in tutta Italia, paladini del navigare gratuitamente e ovunque: sono i foneros, internauti che hanno deciso di condividere la propria connessione a banda larga per abbattere i costi e navigare ovunque a zero spese.

L’idea è semplice: ogni fonero, appartenente cioè alla comunità virtuale di Fon, mette a disposizione la propria connessione internet wi-fi (per intenderci, quella senza fili) a tutti quelli che nel mondo decidono di fare altrettanto. In questo modo, secondo l’ideatore di Fon, Martin Varsavsky, si riuscirà a "coprire" ogni angolo del globo, e ogni fonero potrà muoversi all’interno della propria città (solo a Roma ci sono più di 200 foneros), oppure viaggiare da un Paese all’altro, avendo sempre la possibilità di "agganciarsi" e sfruttare una connessione gentilmente offerta da un altro compagno di Fon.

Gli ingredienti per conquistare gli internauti quindi ci sono tutti, e infatti anche in Italia si sta diffondendo una vera e propria "febbre fonera" tra quanti hanno sottoscritto un abbonamento flat 24 ore su 24 per il computer di casa pur utilizzandolo solo per poche ore al giorno, e magari sono costretti a pagare di nuovo quando hanno bisogno di connettersi fuori dalle mura domestiche.

Con Fon l’accesso agli hot spot (punti di accesso per navigare in wi-fi, anche in un parco pubblico) non è più un problema economico, perché appunto la connessione, e i suoi costi, sono condivisi. Insomma, perché pagare per un accesso internet quando si è lontani da casa, se già paghiamo la nostra connessione casalinga?

In Fon esistono tre tipi di utenti: quelli più "generosi", chiamati Linus, che condividono tutto senza esigere nulla in cambio se non, ovviamente, altrettanta generosità da parte degli altri foneros. Ci sono poi i Bill, per chi vuole ottenere un guadagno dalla condivisione della propria connessione: in questo caso non si ha libero accesso agli altri hotspot ma si percepisce il 50% degli introiti generati dalla vendita dei pass attraverso il proprio punto di accesso. Infine ci sono gli Alien, ovvero gli utenti non foneros che trovano un hotspot di Fon e possono acquistare un pass per navigare al costo di 3 euro per un giorno o 10 euro per 5 giorni.

Diventare fonero a tutti gli effetti è facile, basta acquistare on-line il router, che Varsavsky ha battezzato "La Fonera", a circa 30 euro. Attenzione però, perché anche qui il mondo di Fon spiazza gli internauti offrendo periodicamente in regalo un certo numero di router. A Natale ad esempio il blog italiano di Fon, in collaborazione con wikio.it ha offerto un apparecchio gratis ai primi 1000 internauti che ne avessero fatto richiesta via mail.

E una volta diventati foneros, come si fa a sapere dove sono i nostri compagni con le loro preziosissime connessioni wi-fi? Basta consultare la mappa di Fon (http://maps.fon.com/) e il gioco è fatto.

Unico tasto dolente per gli amanti di Fon sono le difficoltà incontrate con la legislazione italiana. Se qualcuno si connette attraverso la nostra linea e scarica, ad esempio, materiali illegali, potremmo essere infatti noi ad essere perseguiti. Inoltre non tutti gli abbonamenti internet permettono il "subaffitto" della propria linea ad altre persone fisiche e/o enti. Quindi, prima di "fonarsi", è necessario informarsi bene, magari facendo un giro sul blog italiano.

Simone Toscano per Tgcom

 
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Help Editoria Multimediale

Post n°52 pubblicato il 21 Dicembre 2006 da eltosco

Dedicato a tutti quelli che.... fanno il corso di Editoria Multimediale... se avete problemi nel montaggio o nella realizzazione del video, se volete una mano o una risposta a qualche dubbio, e se siete a Roma in questo periodo, potete contattarmi alla mia mail, e se vi serve possiamo anche vederci e cercare di sistemare le cose, ok? Ciao a tutti, Simone.

 
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I ragazzi di Teheran. Vita, musica, amore.

Post n°51 pubblicato il 16 Dicembre 2006 da eltosco
 
Foto di eltosco

Nel parco del palazzo Niyavaran, poco fuori Teheran, due ragazzi improvvisano una rappresentazione teatrale. È uno sketch tra il surreale e la satira politica. “Chi sei?”, chiede uno dei due all’altro. “Non lo so”, risponde quello. “Come si chiamano i tuoi genitori?”. “Mio padre Hossein, mia madre Jennifer”. È una metafora – tagliente - della gioventù iraniana, figlia della tradizione sciita ma anche dell’America dei consumi. Quella stessa gioventù che rappresenta il 70 per cento della popolazione del Paese e che ha contestato il proprio presidente, Ahmadinejad, nel pieno di una campagna antisionista che i giovani sentono lontana.

Si intitola “I ragazzi di Teheran” il bellissimo libro (edito dalla casa editrice Infinito per la collana Orienti) del giornalista Antonello Sacchetti, per anni addetto stampa di Amnesty International e Save the Children Italia, che ha deciso di disegnare con le parole un viaggio nella gioventù iraniana, fatta (anche) di ragazzi con il ciuffo da calciatore, e ragazze con coloratissimi foulard a coprire i lunghi capelli. È un viaggio lungo appena 96 pagine ma in grado di colpire il lettore dopo poche righe con colori e immagini semplici di un Paese in cui i giovani alternano, “chador e tagli punk, feste clandestine e preghiere del venerdì, musica rock e misticismo religioso, poesia sufi e blog su Internet, disoccupazione e voglia di fuggire all’estero”.

Nelle campagne probabilmente crescono i giovani mullah, a Teheran invece i ragazzi guardano tutti Mtv e trovano facilmente cd e dvd pirata nel mercato nero. E non stupisce allora che la deejay più ricercata e più pagata della città sia una studentessa poco più che ventenne di nome Marjane, figlia proprio di un mullah. I giovani di Teheran se la contendono per le feste del giovedì sera, in teoria proibite, ma che poi, organizzate di nascosto, diventato spesso l’unico momento per stare insieme, e in cui ad esempio i fidanzati possono vivere una sessualità altrimenti negata, in un Paese in cui un ragazzo e una ragazza non possono neppure camminare mano nella mano.

La maggior parte dei giovani di Teheran è insofferente nei confronti del regime, considerato oppressivo, e vedono Ahmadinejad come un nemico. Molti al ballottaggio dello scorso anno, turandosi il naso, hanno votato Rafsanjani. Ma, in generale, non hanno fiducia nella politica. Pensano ad un futuro diverso, in Iran o all’estero. E al giovane giornalista che proprio dall’estero viene per intervistarli, tutti rivolgono invece una domanda, la stessa: “Cosa pensi del mio Paese?”. 

Simone Toscano per Il Foglio

 
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Dedicato a tutti quelli che...

Post n°50 pubblicato il 05 Dicembre 2006 da eltosco

immagine...frequentano il corso di Editoria Multimediale alla Lumsa... se avete problemi o dubbi vari, chiedete pure... se posso vi darò una mano a risolverli... Simone

 
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Comuni contro il digital divide: per noi l'Adsl è come l'acqua

Post n°49 pubblicato il 02 Dicembre 2006 da eltosco
 
Foto di eltosco

ROMA - Superare il digital divide, cioè il divario nell'accesso alle nuove tecnologie, dei piccoli comuni nei confronti delle grandi aree urbane e industriali. Nelle Marche ci sta provando una società pubblica, Sic1, che propone alle amministrazioni locali di consorziarsi per fornire a prezzi molto bassi l'accesso a internet ad alta velocità (Adsl) a tutti i cittadini laddove non arrivano le compagnie telefoniche tradizionali. Il problema della scarsa copertura Adsl in alcune zone apre nel nostro Paese ciclicamente discussioni e malumori. Gli ultimi proprio a inizio ottobre, quando l'Unione Europea ha ammonito l'Italia per essere una delle nazioni più arretrate d'Europa: solo l'87 per cento della popolazione ha accesso alla tecnologia Adsl, e la maggior parte degli "sfortunati" abita nelle zone rurali. Un divario che diventa ormai sempre più inaccettabile non solo per chi lavora, ma anche per chi utilizza internet per motivi di studio o di svago.

"L'idea - spiega Luca Vincenti di Sic1 - è nata da un pioniere, Stefano Ricci, che insieme a Luca Casadio ha voluto compiere una scelta coraggiosa: far nascere una società all'interno di un comune. Il nostro concetto di connessione a internet ad alta velocità è un po' come quello dell'acqua, che dev'essere garantita a prezzi bassi a tutti i cittadini".

La società è partita da un singolo comune, Chiaravalle in provincia di Ancona, e via via si è allargata riscuotendo molto successo anche in altri 42 comuni. "Sic1 - continua Vincenti - è completamente di proprietà delle amministrazioni comunali, che forniscono poi a pioggia ai cittadini i servizi che noi proponiamo, con prezzi assolutamente competitivi. Il nostro traguardo più importante è quello di poter fornire la linea Adsl a nove euro al mese. Certamente non è cosa facile e non tutti ci hanno aiutato: molte società telefoniche, infatti, non vedono di buon occhio la nostra iniziativa. Noi però andiamo avanti e possiamo dire ad alta voce di aver dimostrato come una società pubblica possa essere efficace nel distribuire servizi, mettendo in un consorzio comuni che fino a ieri erano considerati minori".

Il nostro progetto principale si chiama "A9 Adsl" e funziona pressappoco così: Sic1 s'impegna a far arrivare internet ad alta velocità nel comune socio, il quale a sua volta elargisce la rete ai cittadini con sistemi cablati. Laddove il comune lo richieda o quando le abitazioni sono difficilmente raggiungibili con i cavi, allora viene installato il servizio di Adsl wireless, senza fili. "La connessione che proponiamo ai cittadini - aggiunge Vincenti - viaggia a due megabit al secondo con una banda minima garantita di 64 kilobyte, quindi è un servizio di tutto rispetto. Internet wireless è già attivo in quattro comuni, che entro la fine dell'anno diventeranno 32. Si tratta sicuramente di un importante progetto: alcuni dei paesi dove stiamo portando internet non hanno nemmeno la copertura dei telefoni cellulari".

"La linea si chiama A9 - aggiunge il direttore di Sic1, Stefano Ricci - perché oltre al fatto che la forniamo nove euro, 'A9' è anche la sigla di un modello economico di ottimizzazione e di allocazione delle risorse in modo da contenere i costi e ridurre gli sprechi mantenendo l'efficienza e l'efficacia dei servizi all'interno delle pubbliche amministrazioni. Il modello è stato applicato prima al management dell'area informatica del comune di Chiaravalle, poi nel 2005 quando è nata effettivamente la società, la metodologia del risparmio è stata profusa a tutti gli aderenti. L'intento principale è sicuramente quello di avvicinarli all'innovazione tecnologica e di restringere la forbice del digital divide. Noi per fornire questi servizi non ci rivolgiamo a un'unica azienda, ma tentiamo di realizzare, attraverso procedure pubbliche, un'aggregazione di aziende a carattere nazionale o internazionale. Tra tutti i prodotti o servizi di ciascun'azienda, si sceglie quello che meglio la rappresenta in termini di qualità, contrattando per quel singolo prodotto le migliori condizioni di offerta a fronte dell'avere una massa critica costituita dall'aggregazione dei comuni. L'insieme dei singoli prodotti porterà a un sistema di eccellenza in termini di costo e modalità di erogazione". "Abbiamo la consapevolezza - aggiunge Ricci - che oltre al digital divide esiste anche un altro divario, quello della formazione. Per questo abbiamo lanciato progetti orientati alla formazione delle figure della pubblica amministrazione (dalla conoscenza dei software base fino a quelli più specialistici) e del cittadino. Non siamo dei fanatici del computer, ma cerchiamo di far capire al cittadino come la tecnologia possa aiutarlo nelle faccende di tutti i giorni".

Tra gli altri progetti di Sic1, che comprende moltissimi comuni delle Marche, da Sassoferrato a Sant'Elpidio a Mare, da Camerata Picena a Pergola, solo per citarne alcuni, e che si avvale della partnership di importanti società del settore, tra cui Cisco Systems, Dell, Siemens e Telecom Italia, anche quello, da inizio gennaio, di allacciare i comuni con un servizio di totem. Questi, dislocati nei punti più importanti della città, permetteranno non solo l'accesso a internet gratuito senza fili nelle strade limitrofe, ma anche la possibilità per i turisti di guardare la mappa della città e ottenere informazioni, e per i cittadini di avere uno scambio concreto con la pubblica amministrazione. All'interno di A9, inoltre, è presente anche un servizio chiamato "Silver Age", rivolto alla fascia più debole della popolazione, che prevede l'utilizzo di una tecnologia che consente agli anziani, in caso di pericolo o improvviso malore, di allertare i propri familiari o i servizi di emergenza.

"Sic1 - conclude Ricci - è attualmente l'unica società pubblica non a scopo di lucro che opera concretamente al fine di abbattere il digital divide, fornendo servizi e connettività ai cittadini dei comuni soci. I nostri bilanci sono pubblici, e nella prospettiva dei ricavi vengono reinvestiti nella medesima società. Entro la fine del 2007 prevediamo che la cordata pubblica arrivi ad oltre 100 comuni, consentendo a sempre più utenti che fino al giorno prima abitavano in zone non coperte dalla connessione Adsl di poter navigare in rete a un prezzo pubblico".

Sic1 è solo l'ultima di una serie di numerose iniziative che puntano al superamento del digital divide. Precursore è stato
il progetto del Politecnico di Torino, che ha portato nel piccolo paese di Verrua Savoia una copertura Adsl senza fili utilizzando ripetitori sparsi in tutto il territorio comunale. Un progetto molto simile a quello che partirà fra poco nel basso Friuli, dove è in fase di costituzione "Ajarnet", una società per azioni controllata da otto comuni (tra cui Cervignano del Friuli e Ruda), che andrà a fornire la banda larga a un territorio di cento chilometri quadrati e 25mila abitanti. "Riteniamo internet ad alta velocità un servizio di pubblica utilità - spiega Mauro Rizzo, consigliere delegato all'innovazione del comune di Ruda - in un territorio non appetibile ai provider tradizionali. Insieme al Politecnico di Torino realizzeremo l'infrastruttura e gestiremo i servizi. Oltre alla connettività wi-fi lavoreremo in sinergia con il progetto 'Hermes' della regione Friuli Venezia Giulia, che prevede, tramite una Spa regionale, 'Mercurio', di portare la fibra ottica in tutti i comuni della regione".

Altri interessanti servizi si trovano in provincia di Piacenza, nella Val Tidone, che è una vallata a forte rischio di spopolamento, in cui si sta cercando d'investire sulle possibilità del telelavoro per favorire il ripopolamento. Un altro progetto simile partirà tra poco anche nelle Isole Egadi, che d'estate sono molto frequentate ma che in inverno sono semideserte. Ancora, altre esperienze analoghe, senza la pretesa di citarle tutte, da San Benedetto Belbo, in provincia di Cuneo, a Vicopisano, in Toscana, da Gorla Maggiore, vicino Varese, alla comunità montana delle Valli Stura e Olba, in Liguria, da Castelbelforte (Mantova) a Rivarolo del Re (Cremona) alla Comunità montana della Valle Cannobina, in provincia di Verbania, dalla provincia di Napoli alle valli dell'alto biellese a quelle bergamasche.

Articolo di Daniele Semeraro su Repubblica.it

 
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Istanbul, chi ucciderà Benedetto XVI

Post n°47 pubblicato il 30 Novembre 2006 da eltosco
 
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Benedetto XVI viene ucciso ad Istanbul da un giornalista italiano membro dell’Opus Dei. È la trama shock di uno dei libri più venduti negli ultimi mesi in Turchia, lo stesso Paese che in queste ore ospita il Papa nella sua visita alla piccola comunità cristiana, in gran parte di fede ortodossa. Il libro, un thriller che ha come sottotitolo “Chi ucciderà Benedetto XVI ad Istanbul?”, è stato scritto da un giornalista amante delle teorie cospiratorie, Yucel Kaya, che ha ideato un intrigo che ricorda il best-seller mondiale “Il codice da Vinci”, e che racconta anche in questo caso il progetto criminale di un potente cardinale dell’Opus Dei (che è allo stesso tempo massone), che ha deciso di eliminare Benedetto XVI per prenderne il posto sul soglio pontificio. Il tutto servendosi di un giornalista italiano, Oriano Ciroella, anch’esso membro dell'Opus Dei. Al delitto partecipano anche i servizi segreti turchi (Mit), vicini alla destra islamo-nazionalista (che proprio in queste ore sta preoccupando la comunità internazionale), e contrari alla collaborazione tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa.

In continua tensione tra le aperture allo stile di vita occidentale e il rispetto delle tradizioni islamiche, la Turchia sembra appassionarsi facilmente ai libri di fantapolitica. Ha raggiunto infatti quota 300 mila copie vendute – è uscito nel 2005 ma ha avuto una notevole impennata di acquisti negli ultimi giorni – un altro romanzo del genere, Metal Firtina (Tempesta Metallica), scritto da due giovani autori, Burak Tuna e Orkun Ucar, che racconta la storia di un conflitto militare tra Turchia e Stati Uniti. Il libro, venduto non solo in libreria ma persino porta a porta dai venditori ambulanti, ha stracciato ogni record di vendite, in un Paese in cui viene considerato best-seller qualunque volume abbia superato le 30mila copie vendute.

“Ventitré maggio 2007. La Cnn annuncia: conflitto tra militari americani e turchi a Kirkuk, nel nord dell'Iraq. Tredici militari statunitensi sono rimasti uccisi e 30 feriti. Uccisi anche 35 militari turchi”. Inizia così Metal Firtina, che nell’arco di poche pagine racconta come da questo piccolo conflitto a fuoco si passi velocemente alla guerra vera e propria. Lo scontro tra le due pattuglie scatena infatti l’intervento militare turco in Iraq, che provoca a sua volta una massiccia controffensiva americana che ha il suo culmine nel bombardamento di Ankara, in cui non viene risparmiato neppure il sacro mausoleo di Ataturk, il padre della patria. Come rappresaglia i turchi programmano allora il bombardamento della Casa Bianca quando - per la salvezza dell’intero mondo - le armi vengono messe a tacere grazie ad un intervento pacificatore della Russia e dell’Europa, che obbligano i belligeranti alla pace.

“Abbiamo svelato un segreto di cui nessuno vuole parlare”, hanno dichiarato più volte gli autori, convinti che la trama da loro inventata sia molto più vicina alla realtà di quanto si possa immaginare. “Il partito al governo Akp (il partito di radici islamiche del premier Tayyip Erdogan) è cosciente del pericolo e la presidenza dell'Akp di Istanbul ci ha invitato a fornire ulteriori particolari. Anche tra i militari turchi alcuni condividono le nostre idee”. Una dichiarazione che ha quasi provocato uno scontro diplomatico con gli Stati Uniti, tanto che, all’indomani dell’uscita, Condoleezza Rice avrebbe ricordato al premier Erdogan ed agli altri dirigenti turchi, nel corso di una sua visita ad Ankara, che Washington li ritiene responsabili dell’insufficiente contrasto all’ondata di antiamericanismo che attraversa la Turchia.

Di Iraq e conflitto con gli Stati Uniti parla anche un film che negli ultimi mesi è diventato un vero e proprio cult tra i giovani turchi, in patria e anche all’estero, soprattutto in Germania: “Nella valle dei lupi”. Costato dieci milioni di dollari, la pellicola più cara mai realizzata in Turchia, racconta la storia di un “Rambo” in versione turca che viene inviato in Iraq, con tanto di licenza di uccidere, per vendicare l’onore della patria calpestato dagli Stati Uniti. La storia parte da un fatto realmente accaduto: il 4 luglio 2003 – nel pieno della guerra in Iraq- una pattuglia di militari turchi entra nel nord del Paese per accertare se le attività in Kurdistan possano compromettere la sicurezza della Turchia meridionale. A Suleymaniye però la pattuglia di Ankara viene intercettata dai militari americani che arrestano i turchi, li incappucciano e li portano via. Neanche a dirlo quelle immagini, pubblicate su tutta la stampa internazionale, sollevarono in Turchia un forte risentimento per l’orgoglio nazionale ferito.

Da qui parte il film, definito “straordinario” dal presidente del parlamento turco Bulent Arinc (mentre il premier Erdogan ha preso parte alla serata di gala della prima), zeppo di cliché anti-Usa e con sottili (ma neanche troppo) riferimenti antisemiti. Nella pellicola gli americani in Iraq sono descritti come assetati di sangue e di petrolio, e vengono riproposte le scene tristemente reali dei maltrattamenti di Abu Ghraib, mescolate però con elementi nati dalla fantasia degli autori, come il personaggio del medico americano (ed ebreo) che raccomanda ai militari di non uccidere subito le vittime, ma di portargliele vive per poterne prelevare organi vitali e spedirli all’estero, dove per estero si intende Israele o Inghilterra.

Il più spietato sembra però essere un colonnello americano, Sam Marshall (interpretato proprio da uno statunitense, Billy Zane), che è ovviamente un folle - cristiano fervente - che si rivolge ad un crocifisso d’argento come farebbe un crociato, giurando di portare a termine la sua “missione”: “riprendersi la terra di Babilonia”. Alla fine del film, con una metafora che lascia poco spazio all’immaginazione, questo neo-crociato viene ucciso da un agente segreto turco con un pugnale a mezza luna. Lo stesso con cui, nell’iconografia islamica, Selahattin Eyyubi fermò l'ultima crociata dell’Europa cristiana.

Simone Toscano per il TGCOM

 
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Le scuole della seconda opportunità

Post n°46 pubblicato il 30 Novembre 2006 da eltosco
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ROMA - Dare una seconda occasione ai ragazzi delle scuole medie e superiori che hanno abbandonato (o stanno per abbandonare) la scuola dell'obbligo? In alcune città italiane si può. Non tutti lo sanno, ma in Italia stanno nascendo diversi percorsi di intervento educativo e formativo che danno la possibilità ai ragazzi di ricostruire le motivazioni per rimettersi in gioco, sollecitandoli a coltivare le proprie aspirazioni. Si tratta delle "scuole della seconda occasione", istituite grazie all'attenzione e alla sensibilità di amministratori locali, associazioni e degli uffici territoriali del ministero della Pubblica Istruzione.   

Il primo progetto nato in Italia è stato "Provaci ancora Sam!", a Torino, che dal 1989 ha coinvolto 25 scuole e ha raggiunto oltre 8300 ragazzi nelle due modalità di prevenzione e recupero. Le altre città d'Italia dove sono nate iniziative analoghe sono Trento ("Progetti Ponte"), Verona e Reggio Emilia ("Icaro... ma non troppo"), Roma ("La scuola della Seconda Opportunità") e Napoli ("Chance - Maestri di strada"). Tutti i progetti sono caratterizzati da un percorso formativo basato sulla collaborazione tra insegnanti, psicologi ed educatori. 

Le scuole sono rivolte principalmente a quei ragazzi che hanno un profondo senso di fallimento ("non m'impegno perché già so che non sono capace"), che sono stati respinti più di una volta (uno dei casi più frequenti è proprio la pluralità di bocciature nel primo anno della scuola media) e che, attraverso percorsi ad hoc, nella maggior parte dei casi riescono a ritrovare la motivazione per concludere il percorso scolastico precedentemente abbandonato e riorientarsi rispetto a una continuità scolastica o professionale.       

Spiega Marco Rossi-Doria, maestro di strada nel progetto "Chance", che si tratta di una grande opportunità, per un "esercito immenso di giovanissimi in condizione di fallimento precoce e di uscita dal sistema scolastico e formativo". In ogni contesto nazionale, prosegue Rossia-Doria, esiste una quantità fisiologica o cronica di fuoriuscita precoce dai sistemi scolastici: "Le cause del 'cadere fuori' (drop out) dai percorsi dell'obbligo oltre a mostrarsi legate alla povertà materiale e a fattori di esclusione culturale, appartengono anche alla mancata o insufficiente azione delle politiche pubbliche e di contrasto. Una causa ulteriore è poi individuata nelle frequenti rigidità delle scuole, restie ad adottare metodologie e modalità organizzative differenziate secondo il principio della discriminazione positiva". E' come se la scuola "per tutti" non riuscisse al contempo ad essere anche una scuola "per ciascuno".       

Invece, "questo tipo di esperienze - spiega Anna Maria Ajello, docente di Psicologia dell'educazione all'università "La Sapienza" di Roma - sono partite per inserire i soggetti con abilità insufficienti nel mondo del lavoro, fino ad arrivare a rimotivare i soggetti demotivati. Si tratta quindi non di dare autostima ai ragazzi, ma di ripotenziare le loro capacità perse. L'insegnante è come un archeologo alla scoperta delle abilità nascoste. Così, durante le lezioni i ragazzi studiano le materie che si studiano in qualunque scuola, aiutati da normali docenti, ma vengono poi portati a sfruttare anche quelle passioni (come l'informatica o la moda o lo sport) che in altre istituzioni scolastiche vengono scarsamente prese in considerazione".     

"Lavorare per il recupero è possibile e dà i suoi frutti- ha spiegato il viceministro all'Istruzione Mariangela Bastico, intervenuta a un convegno a Roma tutto incentrato sul tema della seconda opportunità - e più questo lavoro dà i suoi frutti, più le istituzioni dalla lotta al superamento dell'anticipo alle elementari (che secondo molti studiosi "lacera il progetto educativo") all'investimento sugli istituti tecnici e scientifici.      

Da circa un anno l'Iprase Trentino ha messo in rete le scuole di seconda occasione: un'opportunità importante, per perseguire obiettivi comuni e confrontare e scambiare metodologie e pratiche, in modo da avviare uno si impegnano per i progetti di lotta all'abbandono scolastico. Secondo gli ultimi dati - continua - il tasso medio di abbandono è molto alto: il 22 per cento dei ragazzi tra i 19 e i 20 anni non conclude un corso scolastico, con punte in alcune regioni anche del 35 per cento. Il livello è in progressivo calo, ma è ben lontano dal dieci per cento richiesto dall'Europa" 

Il Ministero - ha aggiunto la Bastico - sta cercando di costruire, partendo dalle autonomie scolastiche e allargandosi fino a gli enti territoriali, una scuola inclusiva che non lasci indietro nessuno". Tante le iniziative, spiega il viceministro, che il Governo sta prendendo in considerazione, dall'innalzamento dell'obbligo scolastico a 16 anni (su cui però non tutti sono d'accordo) a un elenco nazionale di soggetti educativi che concorrano a risolvere il problema, studio in profondità sui processi che favoriscono il rientro nei circuiti formativi. Da questa collaborazione è nato anche un volume molto completo: "Ricomincio da me - L'identità delle scuole di seconda occasione in Italia" a cura di Elena Brighenti.

Articolo del mio amico Daniele Semeraro per Repubblica.it

 

 
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Videogiochi, la nuova frontiera della propaganda politica

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È la nuova frontiera della propaganda politica: è il mondo dei videogiochi. Dall’islamismo più radicale fino agli Stati Uniti, passando per la Cina e per l’Iran: la guerra invisibile che un tempo si combatteva a colpi di romanzi e di film di cassetta, con James Bond da una parte e colossal di regime dall’altra, e che contrapponeva il mondo occidentale al blocco comunista, ha oggi trovato una nuova valvola di sfogo e un nuovo pubblico, facilmente influenzabile. I bambini e gli adolescenti appassionati di videogiochi. La parte del leone in questa guerra tecnologica la fanno i videogame islamici, graficamente poco appetibili, ma creati con un chiaro intento propagandistico antioccidentale: i nemici sono sempre aggressori esterni, dai militari americani a quelli israeliani, arrivando persino ai robot che minacciano la religione e i costumi musulmani.

È il caso di Ummah defense . Nel 2214 i soldati di Allah, uniti sotto la bandiera dell’Islam, hanno conquistato con successo il mondo, instaurando il Califfato globale. A minacciare la pace arrivano però i robot nemici – cristiani -, che tentano i fedeli con le “forze manipolatorie” del commercio e della sessualità. In Under Ash invece i giocatori si calano nei panni di Ahmed, un giovane che si batte per la causa palestinese. Man mano che i livelli avanzano, i piccoli giocatori passano dal lancio di una pietra virtuale contro un carro armato israeliano al combattimento corpo a corpo vero e proprio. Il sito web della casa produttrice ricorda poi ai futuri giocatori il concetto principale della missione: la nazione palestinese è in ginocchio, le case vengono distrutte, le proprietà confiscate, le città rase al suolo, le scuole chiuse, i santuari violati, gli uomini vengono uccisi, torturati e incarcerati. Bisogna lottare, anche nel mondo virtuale.

Ovviamente non tutti i giochi islamici sono così radicali e violenti (anzi, spesso peccano di ingenuità se paragonati alla violenza di alcuni videogame occidentali), ma in alcuni casi la propaganda può annidarsi anche nei posti più inaspettati. L’esempio è un pacchetto di micro-giochi venduti con il titolo Il divertimeno islamico!, pensato per fornire ai bambini musulmani un’alternativa ai videogame dell’Occidente cristiano. I primi giochi sono assolutamente inoffensivi, poi ecco la volta de “La resistenza”, in cui i giocatori (tra i cinque e i sette anni di età) vengono calati nei panni di agricoltori del Libano meridionale che decidono di unirsi alla resistenza islamica contro gli invasori israeliani. I videogiochi si trasformano quindi in creatori di cultura, di valori, come altri mezzi di informazione di massa, ma allo stesso tempo molto differenti da libri, opuscoli o volantini: i videogame permettono un aggancio tra il reale e il virtuale, e anche tra il mondo intellettuale e quello fisico. I bambini premono i tasti per giocare, collegando un’azione fisica ad una stimolazione intellettuale e visiva. Il gioco, ripetuto infinite volte, rinforza in questo modo il collegamento fra il pensiero e l’azione, fra l’intenzione e l’esecuzione.

Ad aprire la strada dei videogame di propaganda sono stati però gli americani. Già nel 2003, all’indomani dell’invasione dell’Iraq, era stato diffuso Quest for Saddam, in cui il giocatore doveva dare la caccia a Saddam Hussein. Il gioco non ha evidentemente riscosso le simpatie del mondo islamico, ed ecco allora un nuovo videogame in cui il nemico da rintracciare non è più il raìs iracheno, quanto piuttosto il suo persecutore, il presidente degli Stati Uniti George W Bush (che nell’ultimo livello può essere ucciso a colpi di kalashnikov). Il videogioco si chiama – ribaltando l’antico nome -, Quest for Bush, The night of Bush Capturing, ed è stato realizzato dal Global Islamic Media Front, un’istituzione vicina ad Al Qaeda che non ha fatto altro che mettere in piedi il più classico degli sparatutto in prima persona, aggiungendo le fattezze di bush alla preda, e nuovi nomi ai livelli di gioco, come ad esempio “L'inferno degli americani”, “Alla ricerca di Bush” o “L'inizio della Jihad”. Dagli Stati Uniti arriva anche Mercenaries 2: World in Flames, in cui il giocatore viene inviato in un Venezuela appena invasa da Washington, per abbattere un dittatore assetato di potere che traffica con le risorse petrolifere del Venezuela. Rivolto all’Iran è invece l’ultima missione rilasciata da Kuma Reality Games per il suo videogioco on line Kuma/war, nato nel 2003 e seguitissimo dagli utenti di tutto il mondo. Lo scorso settembre la società di New York ha infatti reso disponibile la missione numero 58, Assault on Iran, che già nel nome dichiara un obiettivo ben preciso: assaltare - al comando delle truppe americane -, una centrale atomica iraniana.

E per chi avesse ancora dei dubbi, la Kuma chiarisce nel suo sito l’intento del videogame : “distruggi i macchinari che promettono di far entrare l'Iran nell'era nucleare. Mai la posta era stata tanto alta. Milioni di vite e il futuro della democrazia potrebbero essere in gioco”. Anche in questo caso al videogioco statunitense è presto seguita una risposta da parte dello Stato interessato, risposta che in questo caso ha il nome di Counter Strike, in cui i giocatori - agenti speciali iraniani -, devono portare a termine una missione che non lascia dubbi: far scoppiare un’autocisterna degli Stati Uniti nel Golfo per rendere lo stretto di Hormuz invalicabile e mettere in ginocchio il mondo occidentale dipendente dal petrolio del medio Oriente. In Ucraina si svolge poi Mission Galichina, un videogame sviluppato dalla software house NeoGame, ambientato nel 2008 all’indomani dell’elezione del filo sovietico Sergey Grishkov alla presidenza del Paese. Le regioni occidentali ucraine rifiutano di riconoscere la validità dell’elezione e il nuovo Governo chiede l’aiuto delle truppe russe (nei cui panni si calano i giocatori) per fermare la rivolta e riportare l’ordine. Politicamente scorretto e rivolto verso un nemico interno è invece Ethnic Cleansing, ovvero "Pulizia Etnica", uno sparatutto 3D pubblicato nel 2002 in cui, come recita la intro sul sito, l’obiettivo è “attraversare il ghetto facendo fuori neri e ispanici per raggiungere l'entrata della metropolitana, dove gli ebrei si sono nascosti per sfuggire al massacro». Infine, arrivata per ultima, si muove anche la Cina, sempre alle prese con il difficile equilibrio tra gli ideali comunisti e i valori del libero mercato. Ecco arrivare sul mercato quindi un nuovissimo videogame che celebra il culto di Lei Feng, un giovane soldato realmente esistito, Stakanov cinese di epoca maoista, eroe della Rivoluzione Cinese.

Simone Toscano per il TGCOM

http://www.tgcom.mediaset.it/tgtech/articoli/articolo337196.shtml

 
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“Mettiamoci una donna”. Toppe rosa

Post n°44 pubblicato il 22 Novembre 2006 da eltosco
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Roma. Il rimedio per tutte le stagioni non si chiama più aspirina. Oggi c’è una frase magica che risolve tutti i problemi di Palazzo, santificata ieri dal presidente della Repubblica in persona e qualche giorno fa da Franco Marini.

Quando il partito scricchiola, quando la carica non si sa a chi darla perché se la litigano tutti, quando il nuovo soggetto politico fa prove di decollo senza staccarsi da terra, quando non si ha idea di che cosa dire ma si vuole dire una cosa di sicura presa sull’opinione pubblica, basta uscirsene con un: “Mettiamoci una donna”. Frase che pare lusinghiera per le donne solo all’occhio di chi donna non è o delle donne che pensano il potere sia una gentile concessione.

E’chiaro infatti che la donna, in questi casi, viene presa in considerazione come scappatoia di lusso, anche se non è più brava degli uomini in lizza – cosa che, tra l’altro, squalifica le donne davvero più brave. (“Votata perché donna? Un’ingiuria”, ha detto il filosofo André Glucksmann all’indomani della vittoria di Ségolène Royal alle primarie socialiste francesi). Epperò molte donne sono contente. Pensano sia meglio occupare un posto “octroyé” che non salire per niente. E se sale chi non ha i meriti pazienza, basta che sia donna, perché le donne sennò trovano il soffitto di cristallo e allora, intanto, va bene tutto.

Epperò, anche se non è bello da dire, non sempre si resta al penultimo piano perché c’è il soffitto di cristallo, ma magari perché a volte è più comodo aspettare che le cose arrivino, atteggiamento che non è da donna né da uomo, ma da pigro. La donna che indulge in tale pigrizia, però, è più giustificata socialmente, proprio per via della sua storia di ingiustizia e schiavitù, cosa che oggi le permette di dire – vero o non vero che sia, e una volta accertata l’assenza di leggi discriminatorie, come in gran parte dell’occidente – che lei non fa carriera “perché è donna”. Allo stesso tempo, l’uomo che ha voluto indicare una donna a capo di qualcosa ha risolto il problema a monte – partito in crisi, carica inassegnabile – e ha fatto pure bella figura.

Risultato: la frase magica è comoda per tutti. Quindi funziona. Si guardi che cos’ha detto il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, nel mezzo di un forum sulla Finanziaria sul Corriere della Sera in cui LCdM oscillava fumosamente tra critica e sostegno al governo. Alla fine questo ha detto, Montezemolo: che è “oltremodo positivo e sì, anche possibile” avere una donna a capo di Confindustria nel 2008 – tanto c’è Hillary Clinton, oltreoceano, a fare da apripista. “Oltremodo positivo”, che poi è come dire altamente improbabile, per le Anne Maria Artoni e le Emme Marcegaglia, arrivare davvero alla guida degli industriali italiani, a meno che non se lo mettano in testa loro di andarsela a conquistare, quella carica, a colpi di politica, quella vera, che è unisex.

Epperò l’attenzione del lettore veniva subito trascinata sul toto donna-capo, sulle quote rosa e su quel magnanimo di Montezemolo che elargisce possibilità teoriche (facendo dimenticare il quesito sotteso al forum stesso: che farà Montezemolo, passata la Finanziaria?). E che cosa ha detto il ministro prodiano Giulio Santagata di fronte agli ostacoli che soffocano l’eterno nascituro Partito democratico? “Mi auguro una leader donna”, ha detto, già che ci pensano la Francia e il blog del ministro Linda Lanzillotta, inneggiante alla Ségolène vittoriosa, a dare (scarsa) plausibilità a quella che appare soltanto una boutade: una donna a capo del Partito democratico. Maddai.

Qualcuno lo vuole veramente, nei Ds e nella Margherita? La donna giusta, poi, sarebbe Anna Finocchiaro, diessina, capogruppo dell’Ulivo al Senato, candidata sempreverde per cariche illustri, donna di autorevolezza indubbia e altrettanto indubbia impossibilità di spuntarla (non per demerito, ma perché nessuno ha davvero intenzione di candidarla). E chi c’è, ora, alla testa di Radicali Italiani (in una Rosa nel pugno in crisi)? Il “tridente” di Rita Bernardini, Maria Antonietta Coscioni ed Elisabetta Zamparutti.

Le donne sono contente per le tre radicali al comando, certo, ma ciò non toglie il dubbio che la decisione “innovativa” sia stata presa anche per buttarsi oltre l’ostacolo – la guerra intestina con lo Sdi – per lustrare le vetrate – ma che moderni i radicali, sì è detto infatti – e per dilazionare l’esplosione di magagne non esaurite con la “pubblica lite” Pannella- Capezzone. Addirittura cinque donne “testimonial”, poi, si è scelto Alfonso Pecoraio Scanio, leader dei Verdi, per ammantare di parità tra i sessi il rilancio di un partito stipato tra le sinistre antagoniste. Ne consegue che la “carica rosa” tutto è tranne che una vittoria rosa. Il potere, perché sia vero potere, bisogna andarselo a prendere.

 

Marianna Rizzino su Il Foglio

 
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Alla corte di Hitler

Post n°43 pubblicato il 20 Novembre 2006 da eltosco
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Quattro cose erano la felicità per Hermann Goering: la guerra; i diamanti, con cui giocava alle biglie per rilassarsi; i trenini elettrici, che brulicavano nelle sale del suo castello, e fra i quali si distendeva beato con il suo corpaccione di 130 chili; le microspie, che aveva piazzato nelle case dei nemici e soprattutto degli amici, fin nella camera da letto di Joseph Goebbels e sotto la scrivania di Heinrich Himmler. Su quella stessa scrivania, era sempre posata una copia del Mein Kampf rilegata in Rueckenhaut, pelle di schiena umana; e davanti, c'era la famosa poltrona che aveva come piano orizzontale lo scheletro di un bacino umano e che poggiava su gambe e piedi umani, disseccati nelle sale anatomiche delle SS. Goering sapeva bene che Himmler portava lì, nella Wunderzimmer o camera delle meraviglie, i suoi ospiti più illustri: perciò vi faceva piazzare le microspie, registrava tutto, e passava le notti ad ascoltare i segreti del suo camerata; l'alba lo coglieva spesso ancora sveglio, ipnotizzato dal quadro dei microfoni, mentre tutt'intorno mulinavano i trenini elettrici e dal soffitto piombavano giù modellini di aerei sospesi ai fili, che scaricavano piogge di finte bombe.


Goering, Himmler, Goebbels, e sullo sfondo Martin Bormann, Albert Speer, Rudolf Hess: così, fra il lusso, il sospetto e la ferocia, vissero e morirono tutti loro, i cortigiani più fedeli di Adolf Hitler. E così si affacciano oggi dalle pagine di “Alla corte del Führer” (Mondadori, pagine 1040, euro 30), di Anthony Read: stregoni, buffoni, omicidi, e abilissimi manipolatori del potere come il loro maestro incantatore, coloro che lo seguirono per tutta la vita, condividendone trionfi e massacri. Goering, Himmler e Goebbels erano diversissimi fra loro, ma furono accomunati da alcuni dati esistenziali: una famiglia d'origine cattolica, proprio come quella di Hitler, e una giovinezza vissuta da cattolici praticanti; l'amore canino per il Führer; l'ambizione sfrenata — non da cani, ma da tigri o da sciacalli — di prenderne il posto, perfino nelle ultime ore, con Berlino in fiamme e la guerra ormai perduta; e infine, la morte per suicidio, sempre sulle orme del dominus.

La lotta per la successione al capo, la devozione nei suoi confronti, e la gelosia verso i rivali furono le ossessioni che dominarono la loro esistenza. E che Read rievoca, intrecciandole in una sorta di mosaico storico-psichiatrico. Questi uomini ebbero tutti una famiglia e anche più famiglie, con figli ed amanti; si ubriacarono tutti del potere politico-militare; ma per nessuno dei tre, nel bene e nel male, esistette mai nulla più importante di Adolf Hitler. Anche se non giunsero mai a dargli del «tu». E anche se lui li trattò sempre con un gelido «lei». Né smise mai di attizzare le loro rivalità, così da controllarli meglio. Goebbels scrive sul suo diario, dopo il primo incontro con Hitler: «Davanti ai suoi grandi occhi azzurri come stelle, sono in paradiso». E più tardi: «Adolf ti amo…».

Goering annota: «Quando lo vedo, il mio cuore sprofonda nei calzoni». Himmler parla da solo, a voce alta, fissando il ritratto del Führer. Fra loro, invece, si abbracciano in pubblico e si trafiggono in privato. Goebbels scrive che Goering è «un bastardo, infido come una serpe», un «damerino profumato, tutto culo, mucchio di m…». E bolla Himmler come «non particolarmente intelligente». Gregor Strasser, il nazista «di sinistra», ironizza a sua volta su Himmler «cicogna in uno stadio di ninfee», e Speer inchioda Bormann «maiale in un campo di patate».

Su tutti, colui che spicca di più è senz'altro Goering, l'unico cui i giudici di Norimberga riconobbero barlumi di umanità; l'unico che, almeno a parole, si oppose ai piani di guerra nel 1937-39. Ma che restò, fino alla fine, un mistero. Goering, avvolto nelle sue vestaglie azzurre, nelle pellicce di zibellino o nei giubbotti d'alce trapuntati di spille e medaglie, con la retina sui capelli, il volto incipriato, dieci anelli alle mani e le unghie laccate, l'orecchio sempre teso alle microspie; un allegro precursore degli spioni dei nostri giorni, «un ragazzone che non farebbe male a una mosca», che «batte felice le mani con fare gargantuesco» e che da giovane definisce i pogrom «indegni delle persone dabbene». Ma poi è anche il primo che fa leggere a Hitler i Protocolli dei Savi di Sion, libro-mastro dei falsari antisemiti. Goering simpaticone ma anche «vecchio assassino», «smorfioso fannullone» schiavo delle pastiglie di paracodeina (e solo per un breve periodo della morfina pura: non per tutta la vita, come si scrive spesso).

Tutte queste definizioni, così contraddittorie fra loro, gli appiopparono un giorno a Norimberga. Mentre Galeazzo Ciano lo ritraeva «a metà fra l'autista 1906 e la cocotte dell'Opera»: uno che un giorno finì perfino in manicomio, e in camicia di forza, per le crisi di astinenza dalla droga, conosciuta come rimedio per una ferita di guerra; ma ben presto si rivelò — parlano di nuovo le voci di Norimberga — «non stupido né pazzo ma freddo e calcolatore», «affabile, astuto, un attore che non delude mai il proprio pubblico», uomo «di immensa abilità e cultura, dalle qualità eccezionali sebbene potenzialmente malvagie».

Loro stessi, giudici e carcerieri, ne furono nauseati ma anche stregati. Al processo, dopo aver interrogato per giorni lo «smorfioso fannullone» ed esserne stato dominato, il procuratore capo americano ebbe un crollo nervoso, si tolse le cuffie della traduzione simultanea e le sbattè sul tavolo. Più tardi fu tra coloro che ordinarono la cremazione del condannato suicida, e spedirono le sue ceneri in un «canale fangoso», tra le foreste: perché, almeno da morto, non ammaliasse più nessuno.

Luigi Offeddu per il “Corriere della Sera”

 
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Internet è reato? In alcuni Paesi sì

Post n°42 pubblicato il 16 Novembre 2006 da eltosco

ROMA - Corea del Nord, Arabia Saudita e Cina. Ma anche Cuba, Tunisia e, per la prima volta, Egitto. Sono i Paesi "nemici di Internet", che insieme a Bielorussia, Birmania, Iran, Siria, Turkmenistan, Uzbekistan e Vietnam fanno parte di una speciale classifica stilata dall'associazione Reporters Senza Frontiere. Paesi in cui ci si può trovare in prigione da un giorno all'altro per aver scritto sul proprio blog o su un sito internet opinioni contrarie al regime. Secondo le ultime stime, nel mondo oltre sessanta cyber-dissidenti (52 solo in Cina, quattro in Vietnam, tre in Siria, e uno in Iran) sono tuttora in carcere per aver fatto circolare online opinioni considerate inaccettabili dai governi locali. Così, per attirare l'attenzione nei confronti di un problema sempre più grande, l'associazione ha indetto una protesta online di ventiquattrore.

I Paesi. Molti dei Paesi inseriti all'interno della "lista nera", come Cina e Birmania, sono regolarmente sotto i riflettori dell'opinione pubblica perché negano ai propri cittadini la libertà di espressione. A Cuba, ad esempio, il governo vieta ai dissidenti e ai giornalisti indipendenti di poter utilizzare la rete, e la punizione per aver scritto un articolo per un sito web straniero può arrivare anche a un anno di carcere. L'Egitto, invece, è una new entry, ed è stata inserita - spiegano da Reporters Senza Frontiere - per il suo comportamento nei confronti dei diari online: "Tre bloggers sono stati arrestati quest'anno per essersi schierati a favore di riforme democratiche. Quello che facciamo è anche un appello al governo egiziano, affinché cambi le proprie leggi in materia". Il Cairo, infatti, ha emanato recentemente una norma secondo la quale un sito può essere chiuso immediatamente se considerato un rischio per la sicurezza nazionale.

 

Nella classifica emerge anche qualche buona notizia. Nepal, Libia e Maldive, che comparivano fino allo scorso anno, sono stati rimossi. "Il fatto che abbiamo potuto rimuovere tre Paesi dalla lista è sicuramente positivo, e ci dà la forza di sperare che la situazione possa migliorare di anno in anno". La Libia, in particolare, si trova però ancora sotto osservazione: in una recente visita di Reporters Senza Frontiere è emerso che la rete non è più esposta alla censura, anche se il presidente Maummar Gheddafi è ancora considerato un "predatore della libertà di stampa".        

La protesta. La lista viene diffusa ogni anno, ma questa è la prima volta che Reporters Senza Frontiere organizza anche una grande mobilitazione su internet: "Quest'anno - ha spiegato un portavoce dell'associazione - abbiamo voluto coinvolgere anche gli utenti della rete, in modo tale che quando facciamo pressione sui Paesi che non rispettano la libertà di espressione, possiamo dire di parlare a nome non solo nostro di addetti ai lavori, ma anche di migliaia di utenti di tutto il mondo". Per tutta la giornata di oggi sul sito Rsf. org sarà possibile votare su una cartina il paese che più offende la libertà di espressione. Fino ad ora sono arrivati più di diecimila voti.    

Non è tutto, perché la protesta riguarda anche il comportamento del co-fondatore di Yahoo!, Jerry Yang, accusato di collaborazionismo con il governo cinese per aver bloccato l'accesso ad alcune pagine web. La società californiana, infatti, è stata tra le prime al mondo a sottostare al volere di Pechino autocensurando il proprio motore di ricerca locale e lavorando insieme alle autorità cinesi nella lotta al perseguimento del dissenso politico online. Yahoo!, dal canto suo, si difende affermando di aver solo "rispettato la normativa locale". Anche Microsoft e Google si trovano in una posizione simile.

La mobilitazione non è però solo virtuale: a New York cartelloni mobili con una grande mappa del mondo girano per la città, da Times Square a Bryant Park, visualizzando i "buchi neri" della libertà di espressione online. A Parigi le stesse mappe sono invece proiettate sulle facciate di alcuni monumenti e palazzi significativi, tra cui la stazione Saint-Lazare, la sede parigina di Yahoo! e il palazzo dell'Opera. Da oggi, infine, tutti i comunicati stampa di Reporters Senza Frontiere saranno tradotti, oltre che in francese, inglese e spagnolo, anche in arabo, in modo tale da essere diffusi a una più ampia fetta della popolazione. "La libertà di espressione - si legge nei manifesti - non è un lusso, ma un diritto di tutti".     

Articolo del mio amico Daniele Semeraro su Repubblica.it

 
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Alla grande, di Cristiano Cavina - Il libro più bello

Post n°41 pubblicato il 15 Novembre 2006 da eltosco
 
Foto di eltosco

A distanza di tre anni da quando mi è capitato per caso tra le mani, il libro (forse) più bello che io abbia mai letto mi è tornato in mente, per pura casualità... è un libro stupendo, di un autore allora poco conosciuto, che ora si sta guadagnando spazio tra i quasi-big del settore... Un libro semplice, come la vita di Provincia... L'avevo letto, poi regalato con tutto il cuore, e ne avevo dimenticato autore ( Cristiano Cavina) e titolo ("Alla grande")... Eccolo, l'ho ritrovato...e qui di seguito ne propongo una recensione pubblicata da Letture nell'aprile 2003... Da comprare, assolutamente...

"Magico" e puro lo sguardo di Bastiano

Da «Letture» di aprile 2003

Il libro di questo mese è una sorta di scommessa su un giovane autore, Cristiano Cavina, che già si era segnalato per originalità e intensità con un breve racconto inserito nell'antologia Il quarto re magio (Marcos y
Marcos, 2002, pagg. 304, euro 8,80). L'editore aveva coraggiosamente deciso di affiancare il suo nome a quello di autori classici ben più noti, come Maupassant, Clarcke, O. Henry, Pasolini, Tondelli, Bianciardi.
Ora Cavina si cimenta con la prova più impegnativa del romanzo, mantenendo però immutati i protagonisti e l'ambientazione di quel fortunato racconto.
L'io narrante è lo stesso Bastiano Casaccia, un ragazzino turbolento ma simpatico. Il luogo dell'azione è Casola Valsenio, un paese della Romagna, e in particolare l'ambiente degradato delle case popolari. In realtà il paese è lo stesso in cui è nato, nel 1974, Cristiano Cavina e non è difficile individuare nel protagonista l'alter ego dell'autore. Questo spiega anche una caratteristica peculiare del romanzo: l'estrema immediatezza e sincerità del racconto. Sembra davvero di condividere i pensieri, le sensazioni di un ragazzino. Le persone stesse, le vicende, gli oggetti appaiono trasfigurati, ridisegnati dalla sfrenata fantasia di Bastiano. Tanto che a volte è necessario un certo impegno per adeguare la banalità della nostra comprensione del mondo all'occhio "magico" con cui il protagonista lo vede.
Un semplice bidone è per Bastiano un sommergibile con il quale potrà recuperare un tesoro in fondo al lago, in realtà un sacchetto pieno di spiccioli di cui si era sbarazzato il Mago Mammola (un tossicodipendente).
Questa almeno è la voce che corre tra i ragazzi. Bastiano  subito parte con le sue fantasticherie: una volta tornato a casa «le avrei fatte piovere sulla tavola», dice, «indicandole, con il mento, senza dire una parola, come i re. Una pioggia di monete alle case popolari! Mai vista,  roba così. Tutti si sarebbero accalcati sull'uscio di casa, per vederle, anche la vedova Morini con i suoi occhi pesti e Giovannona, che era azzoppata e sarebbe guarita apposta. Ecco cosa ci voleva. Un miracolo in perfetto stile Casaccia».
Bastiano desidera veramente un miracolo, per far tornare il sorriso sul volto silenzioso della mamma, costretta a mille lavoretti per pagare le bollette e condurre una vita dignitosa. Il padre, infatti, non c'è più e Bastiano riesce a fatica a farsi dire che mestiere faceva, per potersene vantare con i compagni. Alla fine trova esaltante anche il mestiere di disoccupato, che la mamma dopo molte insistenze rivela. Il resto della famiglia è composto dal nonno, che passa le giornate al bar, e dalla nonna, sempre seduta nella poltrona di casa. C'è anche  zio Paolo, che ogni tanto fa una capatina. Per Bastiano è un "mito", un modello, benché sia solo un piccolo truffatore.
Alla realizzazione del sommergibile manca anche il silicone per tappare i buchi. Bastiano lo va a rubare nel magazzino della palestra comunale. Solo che, dopo aver quasi compiuto questa "missione da agente segreto", si imbatte in Mone e nella banda dei suoi bulli.  Mone prende in giro lui e i suoi amici chiamandoli "mongoli"; soprattutto Bastiano non sopporta le parole feroci contro una ragazzina handicappata sua amica e spara in faccia a Mone tutto il tubo di silicone. Per Bastiano si apre  così la strada del riformatorio...
Un modo di raccontare semplice e immediato, la capacità di far balenare davanti al lettore la visione fantastica del mondo che ha un ragazzino. Oltre a queste doti già accennate, che rendono il romanzo di Cavina spesso divertente e addirittura esilarante, c'è nel fondo una forte componente morale, un senso di solidarietà e di compartecipazione con la sorte dei poveri di oggi, con gli abitanti dei quartieri popolari e delle periferie degradate della città. C'è anche una specie di triste riflessione sul destino dei ragazzi di questi quartieri, che rischiano di diventare bulli insensibili e amorali come Mone e i suoi amici.
Che cos'è invece che salva Bastiano? Certamente la purezza ingenua del suo sguardo, che sa vedere sempre il bene e il bello; la sua fantasia, la sua costante capacità inventiva, creativa, addirittura "letteraria". Ma c'è anche qualcos'altro. Verso la fine del libro egli sente finalmente una voce, da lungo attesa, che gli dice che può farcela «con tanta pazienza». La voce viene da «una specie di pozza d'olio in fondo allo stomaco». Aveva faticato a liberarsi della robaccia che le ostruiva il passaggio: il «groviglio di aggeggi che avevo rotto... i milioni di cocci di vetri rotti... le urla e i gemiti dei miliardi di patacche che avevo confezionato in anni di carriera». La voce della coscienza, forse la voce di quel Dio che Bastiano chiama familiarmente e di continuo «il mio Signore» e che sembrava non rispondere mai alle sue domande.   

Antonio Rizzolo.

 
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Com.on!

Post n°40 pubblicato il 14 Novembre 2006 da eltosco

 Com.On è il festival di Scienze della Comunicazione dell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma; la sua prima edizione è stata realizzata nel Novembre 2005 da un gruppo di studenti in collaborazione con la presidenza di facoltà ed è riuscita ad ottenere un ottimo risultato in termini di pubblico. La mission del festival è quella di valorizzare le potenzialità creative degli studenti di Scienze della Comunicazione e di spingerli a lavorare concretamente sulla comunicazione; proprio per questo i contenuti dell’evento sono stati le loro opere/performance: musiche, scritti, video, fotografie, lavori grafici.

Com.On è un evento sui generis che riesce ad unire dimensione didattica e ludica in un’unica soluzione creativa, che può rivelare in maniera incisiva all’interno e all’esterno l’identità di una facoltà così innovativa, come quella di Comunicazione; un festival che dà agli studenti un ruolo da protagonisti non solo delle performance, ma anche dell’apparato organizzativo e professionale, fornendo loro l’occasione di un confronto con un’esperienza professionale a trecentosessantagradi che l’organizzazione di un evento così complesso richiede.

Il tutto verrà strutturato in una tre giorni intorno a metà Novembre con una serie di eventi diurni e serali dentro e fuori la facoltà. In particolare la facoltà si trasformerà in uno spazio polivalente pronto ad ospitare le opere degli studenti e ad accogliere i diversi ospiti che verranno invitati.

Com.On è un grande contenitore in cui esprimere tutto le potenzialità comunicative degli studenti, un evento multidisciplinare che si propone di esplicitare tutti i campi che la comunicazione, nelle sue molteplici sfaccettature arriva a comprendere; ci sarà così spazio per linguaggi diversi (fumetto, cinema, pubblicità), sia attraverso l’esposizione delle opere degli studenti, che con l’organizzazione di seminari di approfondimento che possano consentire un contatto diretto tra studenti e professionisti del settore. Com.On, quindi, non vuole essere solamente un’occasione di svago e divertimento, non una semplice festa, ma un vero e proprio festival che sia la risultante del lavoro degli studenti in collaborazione con le cattedre: un vero e proprio laboratorio permanente che si concretizzi in un evento a cadenza annuale e che permetta a studenti e professori di lavorare insieme, tramite la messa in luce delle attività già esistenti e di altre realizzate ad hoc.

(www.comonweb.it)

 
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