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Proposte contro gli sprechi e i privilegi delle caste

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La mappa delle zone franche

Post n°933 pubblicato il 13 Agosto 2009 da albert.z

Le tasse sulle società /2 La tesoreria di diversi gruppi italiani è in Lussemburgo. Il Paese è uscito dalla lista di proscrizione compilata dall’OcseDalle Cayman al Delaware. Le piazze del fisco facile ormai sono sotto tiro

I l Delaware non è uno Stato degli Stati Uniti? E nel Delaware non sono domiciliate decine di migliaia di finanziarie a proprietà straniera attratte da una legislazione fiscale particolarmente favorevole? Gibilterra, Jersey e Guernsey non sono «dipendenze della Corona britannica» e contestualmente tra le mete preferite di chi nasconde patrimoni? Le famigerate British Virgin Islands, non sono, appunto, British? E Madeira non è territorio portoghese? Le Bahamas insieme a Bermuda non sono una sorta di sponda finanziaria degli Usa, tollerata e quasi protetta? Hong Kong e Singapore non sono un rifugio dei capitali «comunisti» cinesi? A Cayman, prototipo dell’anonimato e simbolo delle peggiori nefandezze della finanza criminale, non hanno società e filiali i più blasonati gruppi bancari del mondo, italiani compresi? E se hanno filiali lì è per fare raccolta con i pescatori dell’isola? E sempre a Cayman non sono domiciliati quasi tutti i grandi hedge fund, quelli che hanno come investitori Stati, fondazioni, fondi pensione, enti, chiese eccetera? San Marino, pur nella sua autonomia di Repubblica indipendente, non è un’anomalia finanziaria e bancaria nel cuore della Romagna e dell’Italia? Perché Montecarlo è la residenza ideale di chi ha un reddito da favola ma vive altrove (piloti, ciclisti, calciatori, finanzieri, assicuratori)? Come mai in Lussemburgo ci sono più holding che abitanti, gli italiani in giacca e cravatta sono migliaia (e non fanno pizze) e chi parla russo ha il posto assicurato in banche e fiduciarie? E la civilissima Svizzera con la sua «prolunga» Liechtenstein (i collaudati schemi prevedono fondazione nel principato di Hans-Adam II e conto bancario in un istituto rossocrociato), non sono icone del segreto bancario e della riservatezza e proprio per questo naturale approdo dell’evasione fiscale, se non peggio?
Sono, ovviamente, tutte domande retoriche. E altrettanto ovviamente c’è una bella differenza tra chi offre poche o zero tasse (purché attragga lavoro e produzione e non solo caselle postali di comodo) ma rispetta e applica le regole sull’antiriciclaggio e sulla trasparenza e chi invece vive e prospera sull’assenza di regole, di collaborazione internazionale, offrendo di fatto copertura alla criminalità e agli evasori.
Detto questo non si può non cogliere un’ipocrisia di fondo: alcune delle cosiddette piazze off-shore sono parte integrante di un sistema politico di riferimento che magari è lo stesso che tuona contro i paradisi. Insomma, è come se il fisco «ufficiale» e intransigente fosse la moglie e il paradiso fiscale l’amante, ufficiosa e tollerata.
Ma per non fare di tutta l’erba un fascio, per non confondere chi rispetta le norme da chi invece cerca di dribblarle, un’idea potrebbe essere quella di porre ufficialmente una domanda a chi, imprenditore, finanziere, ha attività o patrimoni nei paradisi fiscali. Perché lei signor X che è italiano (francese, spagnolo) ha la proprietà della sua azienda alle Isole Vergini (Lussemburgo, San Marino, Cayman)?
Poi la risposta potrebbe diventare pubblica nel bilancio. E per cominciare si potrebbe partire da chi si quota in Borsa o da chi al listino c’è già.
Perché le autorità di vigilanza non chiedono conto delle strutture proprietarie che transitano o approdano nei paradisi fiscali? E perché non invitano i gruppi a spiegare il motivo per cui la tale controllata ha sede a Bermuda o in Lussemburgo o a Madeira, in modo che la trasparenza tolga spazio ai dubbi? Del resto la gran parte delle multinazionali quotate ha filiali in vari paradisi fiscali. In Francia, per esempio, è stato stimato che le principali imprese del Cac 40 possiedono quasi 1.500 filiali off-shore. In Italia, secondo calcoli recenti, oltre il 50% delle aziende di Piazza Affari e il 25% dei gruppi bancari possiedono una partecipata in un paradiso fiscale.
Il Lussemburgo, il più gettonato (e ormai fuori dalle liste di proscrizione dell’Ocse anche grazie all’opera del primo ministro Jean-Claude Juncker), generalmente è sede della tesoreria dei gruppi o è sponda per le emissioni obbligazionarie o è subholding di partecipazioni estere. Mediaset Investment, controllata da Mediaset, raccoglie infatti una serie di partecipazioni estere (ma non solo) del gruppo (e Trefinance fa lo stesso per Fininvest). Storicamente il Granducato Lussemburgo è un Paese ad alta densità di interessi italiani.
Colossi a controllo statale come Eni, Enel, Finmeccanica hanno molte attività e partecipazioni sparse tra Lussemburgo (tutte), Jersey, Mauritius (Finmeccanica), Bermuda, Bahamas, Singapore, Bermuda, Isole del Canale (Eni), Panama, Cayman (Enel), ognuna sicuramente con la sua logica industriale e commerciale, spesso poi sono un residuo di acquisizioni. Stesse tracce di partecipazioni off-shore anche in molti grandi gruppi privati. Perché proprio lì? Un risposta può essere utile a chi decide di investire.
Se qualche anno fa fosse arrivata a Collecchio la seguente formale domanda: «Caro Calisto ci dici che cos’è la Bonlat? Il bilancio indica la sede a Cayman, perché? Ma (soprattutto) ci spieghi dove e come sono investiti i 4 miliardi di liquidità (falsa, ndr) che dichiara di avere?», forse il crac della Parmalat dei ragionieri si sarebbe fermato qualche miliardo prima.

 
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