Storia del capitalismo di Stato. URSS. – Il crollo dell’URSS – Bruno Bongiovanni; da: “La Storia. Dalla guerra fredda alla dissoluzione dell’URSS”, vol. XIV, Mondadori, 2007.

Il crollo dell’URSS

1.USSR_Republics_Numbered_Alphabetically

Ex repubbliche sovietiche: 1 Armenia, 2 Azerbaigian, 3 Bielorussia, 4 Estonia, 5 Georgia, 6 Kazakistan, 7 Kirghizistan, 8 Lettonia, 9 Lituania, 10 Moldavia, 11 Russia, 12 Tagikistan, 13 Turkmenistan, 14 Ucraina, 16 Uzbekistan

Bruno Bongiovanni

Il lungo regno di Breznev, iniziato nel 1964 si prolungò oltre due anni e mezzo dopo la sua morte. I burosauri della gerontocrazia al potere, sino ad allora eccezionalmente longeva sul piano politico, presero infatti a uscire di scena in rapida successione. Il 26 gennaio 1982 morì Suslov, l’“eminenza grigia”, già ideologo di Chruščëv e artefice principale del di lui affossamento. Il 10 novembre toccò allo stesso Breznev, da tempo gravemente malato e simbolo fisico dell’invecchiamento del sistema sovietico, un sistema che pure proclamava l’avvenuta affermazione dell’“uomo nuovo”. Il 12 novembre Andropov, ex-capo del KGB con fama di riformatore, aveva preso il posto di Breznev. Il nuovo segretario del PCUS era comunque già non più visibile, quando, il primo settembre del 1983, un missile sovietico abbatté un aereo delle linee civili sudcoreane, accusate di effettuare operazioni di spionaggio per conto degli Stati Uniti. Fu questo il momento di maggior tensione diretta tra i due blocchi dopo la crisi di Cuba dell’ottobre 1962. Il presidente Reagan ebbe in questa circostanza l’occasione di definire l’URSS l’“impero del male”, un’espressione che, pur non risultando meno inquietante, pareva più in sintonia con qualche produzione hollywoodiana a basso costo che con la fraseologia della vecchia guerra fredda. Fu comunque ben palpabile il timore che al Cremlino non vi fosse più una mente politica, o la tradizionale e sempre eccellente diplomazia russo-sovietica; una mente militare parve avere assunto in prima persona la facoltà di decidere. Il timore risultò infondato. Nel febbraio del 1984, alla morte dello stesso Andropov, Cernenko, l’ultimo e incolore esponente della gerontocrazia sovietica, ne prese il posto alla segreteria del PCUS. Anche Cernenko, anziano e malato, si vide poco. Durante la sua breve segreteria – meglio sarebbe dire interregno – il novantaquattrenne Molotov, già ministro degli Esteri di Stalin e protagonista della storia politica e diplomatica del sec. XX, risorse dal passato e venne riammesso nel PCUS, da cui, per volontà di Chruščëv, era stato escluso nel 19 5 7. Fu questo un fatto di scarso significato politico, ma di gran portata simbolica; e più il potere, del resto, si chiude in un esclusivo e ristretto spazio claustrofobico più i simboli (insieme “segni” e “sintomi”) diventano importanti. Nel marzo del 198 5 moriva però anche Cernenko. Si apriva, anzi si spalancava, una fase del tutto nuova per la storia dell’URSS e del mondo.

1. Gorbačëv: perestrojka e glasnost’

Gorbachev
Il segretario del PCUS Michail Gorbachev

L’11 marzo 1985 a Cernenko, il fantasma autorecluso nel Cremlino, succedette Gorbačëv. Immediata fu la sensazione, negli ambienti diplomatici occidentali, che grandi mutamenti stessero per verificarsi. Nel giro di pochi mesi, infatti, pur essendo cresciuto politicamente grazie alla protezione di Andropov, e pur essendo stato formalmente eletto nel segno e con gli auspici della continuità, il nuovo segretario del PCUS si qualificò subito come un riformatore.

Nel luglio il ministero degli Esteri venne assunto da un altro riformatore, Ševardnadze, in luogo dell’inamovibile (in carica ininterrottamente dal 1957) Gromyko, peraltro straordinario diplomatico, nel solco della grande tradizione russa, al servizio di tutti i volti assunti storicamente dall’URSS. Rapidi cambiamenti vennero altresì effettuati negli apparati del partito e dello Stato, nel governo e nell’esercito. Era iniziata la “debreznevizzazione”, assai meno ideologica e macchinosa della “destalinizzazione” di Chruščëv, e in compenso assai più rapida e concreta: gli obiettivi erano gli uomini del passato regime e il mezzo per allontanarli era in parecchi casi la denuncia della loro corruzione. È interessante notare che chi si distinse, all’interno del PCUS, nella battaglia contro la corruzione, una battaglia che, a causa dell’enorme ed emotiva popolarità che regala, inevitabilmente genera in ogni parte del mondo tentazioni demagogiche, fu proprio Boris Eltsin.

I primi corposi segnali prima di una volontà, e poi di una necessità, di trasformazione, vennero comunque inviati al mondo sul terreno delle relazioni internazionali, la qual cosa, dopo oltre un quinquennio di coesistenza pacifica messa in forse e di inquietanti trattative e reciproche minacce a base di missili, fu accolta con gran sollievo e contribuì a far subito di Gorbačëv uno statista popolarissimo, certo assai più popolare, a differenza dei suoi predecessori, nel mondo occidentale che in patria. Nel novembre dello stesso 1985 ci fu così il primo incontro tra Reagan e Gorbačëv. Fu da tutti interpretato come il primo passo verso una nuova fase distensiva.

L’impero sovietico, del resto, agli occhi del nuovo gruppo dirigente dell’imperialismo riformatore, si stava rivelando, nella sua estensione planetaria, troppo costoso per l’arcaica base produttiva sovietica, tutta incentrata sull’industria pesante e sull’apparato militare-industriale, e non in grado di soddisfare le aspettative crescenti, e psicologicamente indilazionabili, dei cittadini e dei consumatori sovietici, le cui mentalità collettive erano in trasformazione, come sicuramente dimostreranno gli storici del futuro. La società civile dell’URSS e dei Paesi dell’Europa orientale, una realtà che si stava più o meno silenziosamente, ma certo in modo assai caotico, dando una forma e che si stava altresì, per quanto lentamente, ritagliando spazi concreti di autonomia dal potere politico, era infatti investita dall’offensiva del benessere, commerciale e massmediologica insieme, ancorata cioè sia a merci che a immagini, che proveniva prevalentemente dall’Europa e dagli Stati Uniti, i quali, congiunturalmente, verso la metà degli anni Ottanta, stavano vivendo, insieme con il Giappone, un periodo di relativa prosperità economica e di crescita degli investimenti produttivi. Era soprattutto in atto un’ennesima rivoluzione industriale, segnata questa volta dalla capillare diffusione dell’informatica e di nuove tecniche di comunicazione. Laddove il “comunismo” restava pesante e radicato nel territorio, l’antagonista “capitalistico” pareva diventare agile, quasi aeriforme, comunque inafferrabile e dinamicamente privo di impaccianti subalternità territoriali. Qualcuno avrebbe potuto ritenere che alle due classiche forme di sottomissione del lavoro al capitale, la “formale dell’età della rivoluzione industriale e la “reale” del cosiddetto “capitalismo maturo”, stesse per succedere un terzo stadio, quello della sottomissione “virtuale”. Lo spazio, in altre parole, sembrò essere sconfitto dal tempo. Si pensò a ogni buon conto, nell’URSS, che la ripresa della distensione potesse consentire di stornare risorse dalla insostenibile strategia imperiale, di resistere alle nuove, e più sofisticate, forme della competizione internazionale e di venire incontro alle esigenze popolari, il che avrebbe aperto la società civile in formazione a quella collaborazione con lo Stato che si palesava irrinunciabile e indifferibile.

Se dunque il concetto-chiave del 1985 era stato, in opposizione alla “Stagnazione” brezneviana, l’“accelerazione”, all’inizio del 1986, in occasione del XXVII congresso del PCUS, la parola d’ordine, subito diffusissima, sino a identificarsi con tutta o quasi la parabola politica contrassegnata dalla personalità di Gorbačëv, fu la perestrojka, o “ristrutturazione”, vale a dire una “politica mirante ad attivare i progressi sociali ed economici del Paese e a creare un rinnovamento in tutte le sfere della vita”. Parola d’ordine abbastanza nebulosa, come si può ben vedere, eppure in grado di suscitare, forse anche in questo caso più all’estero che in URSS, grandi speranze, le ultime speranze collegate al “comunismo” storicamente esistito. A partire dal gennaio del 1987, inoltre, ebbe successo, come ulteriore e popolarissima parola d’ordine, anche la glasnost’, subito tradotta “trasparenza” e già presente tra le rivendicazioni degli oppositori antizaristi del sec. XIX: le decisioni del governo, d’ora in poi, non dovevano cioè più restare segrete, ma essere rese pubbliche. Fu comunque subito chiaro che la perestrojka aveva a che fare con l’economia e la glasnost’ con la politica: nel primo caso in particolare si aveva come obiettivo la riforma radicale del meccanismo di piano e una problematica opzione dall’alto per l’efficienza di mercato, nel secondo la liberalizzazione risoluta dei rapporti tra Stato e cittadino. Non si trattava, come in un primo tempo si disse, di una semplice ripetizione delle riforme degli anni di Chruščëv: il rinnovamento, promosso sì dai vertici dello Stato e del partito, ma in sintonia con una società civile che stava diventando consapevole della propria complessità, era sin d’ora molto più profondo.

Nel frattempo, nell’aprile del 1986, la terribile tragedia dell’esplosione accidentale alla centrale termonucleare ucraina di Černobyl aveva rivelato a tutto il mondo la debolezza e la mancanza di sicurezza dell’approvvigionamento energetico della superpotenza sovietica, un gigante dagli impianti tecnologici inaffidabili e quindi potenzialmente dai piedi d’argilla. Si rese così ancora più necessario stringere i tempi. L’incontro sugli euromissili di Reykjavík (ottobre 1986) non sortì sul momento effetto alcuno, ma in seguito la distensione militare e politica fece enormi e concreti passi in avanti. Privo per ora di sbocchi sul terreno internazionale, anche a causa del perdurare senza risultati della rovinosa e sanguinosa guerra in Afghanistan, il moto riformatore, ormai rapidissimo e dotato quasi di una meccanica propria, investì la politica interna. Nel dicembre 1986 venne liberato Sacharov, il più noto all’estero dei dissidenti sovietici. Nel 1987 un’amnistia di ben più ampie proporzioni mise in libertà altri dissidenti. Nel luglio dello stesso anno, mentre la glasnost’ faceva effettivi passi in avanti, il comitato centrale del PCUS cercò di definire i confini e la natura della perestrojka, annunciando un ridimensionamento del ruolo dello Stato e una maggior autonomia finanziaria alle imprese, il che implicava ovviamente una relativa limitazione della natura onnipervasiva del piano e della cosiddetta, e in realtà largamente disattesa, “economia di comando”. In occasione del settantesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, infine, prese vigore la volontà di riscrivere la storia dell’URSS, riconsiderandone le tappe e le svolte: fu questo l’inizio, in qualche modo quasi della storia dell’URSS “ufficiale”, dopo i primi tentativi di Chruščëv, della riabilitazione delle vittime dello stalinismo, fenomeno non privo di risvolti politici attualizzanti – si pensi alla riabilitazione di Bucharin, considerato un “bolscevico democratico” – in quanto le strategie del passato del PCUS e dell’URSS avevano ora una concreta opportunità, non meramente storiografica, di venire alla luce e di alimentare il dibattito in corso. Le critiche, sempre più diffuse, all’età di Stalin si estesero anche agli anni “eroici” della giovane repubblica e a lambire la stessa e fino ad allora intoccabile età di Lenin. La riabilitazione giudiziaria e politica dei vecchi bolscevichi condannati nel corso dei “processi di Mosca” venne comunque effettuata nel 1988. In questo stesso periodo abbastanza facilmente furono sconfitte le voci conservatrici esplicitamente ostili, sul piano ideologico, al nuovo corso. La vera resistenza non riguardava i principi e i valori del “comunismo”, riguardava piuttosto i privilegi e i centri di potere della nomenklatura brezneviana, ancora ben insediata in posizioni di preminenza negli apparati di partito, nello Stato, nei giornali e in genere nei mezzi di comunicazione di massa, nell’esercito, nel mondo della cultura, nella dirigenza e ancor più nei quadri intermedi delle imprese, nelle comunità patriarcali colcosiane. In ogni caso, i segni di rinnovamento interno, assai più clamorosi, del resto, sul piano politico che su quello economico, portarono anche a importantissimi risultati sul piano della distensione internazionale. Nel dicembre del 1987, al termine dell’irripetibile e irripetuto annus mirabilis di Gorbačëv, il segretario generale del PCUS e Reagan firmarono a Washington il trattato per lo smantellamento degli “euromissili”. Il successivo 1988, l’anno delle celebrazioni del millenario della cristianizzazione della Russia, fu anche un anno di svolta nella politica religiosa del regime sovietico, il che, dopo la concreta disponibilità nei confronti della distensione, procurò, sempre all’estero, nuove simpatie a Gorbacev. Il periodo “ascendente” del riformismo gorbaceviano (1985 – 1987) si era comunque concluso. Cominciava ora il drammatico periodo “discendente” (1988- 1991).

Il ripiegamento dell’assetto imperiale, infatti, consustanziale con la libertà di fatto prodotta dalla glasnost’ e con l’impazienza e con la delusione prodotte dalla perestrojka (che al momento aumentava il caos senza migliorare il livello di vita), mise in moto quel processo implosivo che portò l’impero stesso a finire preda di forze centrifughe e a disintegrarsi. Cominciarono le repubbliche baltiche – Estonia, Lettonia e Lituania – sin dall’agosto del 1987, in occasione del quarantottesimo anniversario del patto nazi-sovietico, a ricordare al mondo di essere state annesse nel 1940 – da una potenza che avrebbe ricavato il prestigio mondiale liberando l’Europa centrorientale dal dominio nazionalsocialista – in seguito all’ufficialmente rimosso pactum sceleris del 1939. Il macigno di un passato, in Polonia e nel mondo, era del resto già stato agitato negli anni precedenti, mentre era in atto lo scontro tra il governo polacco e Solidarność. Tutto era stato invocato – e il materiale storicamente incandescente non mancava – per porre fine a un’innaturale sudditanza: la finis Poloniae settecentesca, la fede cattolica, il 1830- 1831, il 1863, la guerra russo-polacca del 1920, la spartizione del 1939, le fosse di Katyn, il governo di Lublino, il 1956 di Poznan, il 1970- 1971 di Danzica e Stettino. Il passato remoto avvelenava ulteriormente il passato prossimo, cui si rivelava peraltro intimamente e forse indissolubilmente collegato. Il gruppo dirigente sovietico aveva infatti probabilmente messo nel conto i problemi economici, e anche politici, ereditati da Lenin e da Stalin, da Chruščëv e da Breznev: a questi, tuttavia, si sommarono, con un effetto moltiplicatore devastante, i problemi ereditati da secoli di colonizzazione e nel Caucaso di dominazione zarista. A partire dal febbraio 1988, infatti, fortissime tensioni nazionalistiche incrinarono l’area meridionale e caucasica dell’impero interno: scontri armati, destinati a prolungarsi ben oltre la dissoluzione dell’URSS e a proiettarsi negli anni Novanta, opposero, neppur mitigati dal tremendo terremoto del dicembre 1988 in Armenia (55.000 morti), la comunità armena e quella azera per il possesso del Nagorno-Karabach, territorio abitato da Armeni incluso neii’Azerbajdžan. Anche la Georgia, la Moldavia, e poi l’Asia centrale, furono attraversate da violente rivendicazioni nazionalistiche e da sanguinose risse interetniche. A ben poco servì la formale rinuncia a estendere ulteriormente l’impero esterno: l’accordo a Ginevra, nell’aprile del 1988, sul ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan – operativo a partire dal 15 maggio – non arrestò la reazione a catena, né a sud, dove il potere centrale si rivelava del tutto impotente a sedare i numerosissimi focolai di guerra civile, né a nord, dove ora le tre repubbliche baltiche chiedevano, come anticipo dell’indipendenza, una maggiore autonomia politica ed economica.

Si insisteva molto, davanti a questo scenario inatteso, sulla caduta verticale dell’autoritarismo centrale e sul conseguente risvegliarsi, in presenza di un Leviatano dimezzato, di antiche tensioni solo temporaneamente narcotizzate dalla paura per il Leviatano sino a poco prima integro: questa constatazione, quasi ovvia, cui si sommavano altrettanto ovvie riflessioni sulla esigua incidenza dell’azione politica del «comunismo» nelle periferie, conteneva certo non pochi elementi di verità. Occorre probabilmente aggiungere che le “Russie” accorpate dall’autocrazia e poi l’URSS, per loro natura, lungo tutta la traiettoria zarista-comunista, o erano imperiali o non erano: giunte intorno al 1980, per una serie di ragioni complesse, al limite “fisico” della loro colossale espansione, hanno cominciato a sbriciolarsi, dando nel contempo vita a un ispido e aggressivo pluralismo geopolitico, cioè a un pluralismo differenzialistico e autoreferenziale in parte morfologicamente arcaico e in parte assolutamente inedito e nuovo.
In tutto il mondo, del resto, ma in quello “Comunista” o “ex-comunista” con particolare virulenza, tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del sec. XX le geografie, soprattutto quelle malate e quelle a bella posta avvelenate, sono sembrate prendere il sopravvento, talvolta presentandosi come fanaticamente “giustiziere”, sulla storia e in particolare sulla storia illuministicamente intesa e apportatrice di valori cosmopolitici e universali. Là dove nel discorso che pone enfaticamente l’accento sullo spazio e sulla “natura” non vi sono che irriducibili differenze che attendono di essere confermate e salvaguardate dall’incubo del meticciato universale, nel discorso che riconosce invece autonomia al tempo e alla storia vi sono essenzialmente diseguaglianze, in quanto tali sociali-artificiali e non naturali, che possono anche essere attenuate, per quanto aspre esse siano, e tendenzialmente eliminate. Il differenzialismo dello spazio, divenuto intollerante e brutalmente xenofobo, si è così preso una secca rivincita, ciò che era impensabile all’inizio degli anni Ottanta, sul percorso uniformatore, e talvolta omogeneizzatore, del tempo.

2. Il collasso dell’impero

Nella bufera dei nazionalismi risorgenti, e davanti alle difficoltà di decollo della perestrojka, Gorbačëv tentò di accentrare su di sé, e intorno a sé, tutte le principali cariche politiche dell’URSS. Il potere centrale su cui si era insediato andava in realtà progressivamente evaporando, mentre il caos economico – frutto anche di misure insieme troppo e troppo poco radicali – incancreniva ulteriormente la situazione. Una riforma elettorale e politica venne comunque votata dal soviet supremo il primo dicembre 1988: il nuovo congresso dei deputati del popolo avrebbe avuto 2250 membri, 1500 dei quali eletti a suffragio universale diretto e i restanti 750 designati dalle organizzazioni sociali dell’URSS. Le elezioni, le prime semidemocratiche dopo quelle che alla fine del 1917 portarono all’assemblea costituente subito sciolta dai bolscevichi, si svolsero il 26 marzo 1989: 2133 dei nuovi eletti nominarono Gorbačëv capo del nuovo soviet supremo e quindi di fatto presidente, con poteri più estesi, dell’URSS. Si tentava, in questo modo, mentre il PCUS sembrava perdere la presa sulla società, di vitalizzare in modo decisivo il ruolo – legislativo ed esecutivo – del parlamento e del governo, quindi dello Stato: dal partito-Stato si passava cioè a uno Stato più autonomo dal partito.

Questo Stato, tuttavia, era l’URSS, un’impalcatura imperiale e multiculturale sempre più minacciata da potenti forze centrifughe. E Gorbačëv, dal canto suo, pur proclamandosi a favore di una repubblica presidenziale, aveva preferito farsi eleggere dai suoi deputati, diffidando della propria popolarità in patria e rimandando l’elezione diretta del presidente, il che favorirà enormemente Boris Eltsin, ritornato in gioco, dopo essere stato allontanato nel 1987 dalla direzione del partito, proprio con un larghissimo successo a Mosca nelle elezioni del 1989. Vennero comunque creati nuovi organismi, a fianco della presidenza, con la funzione di fornire un contrappeso agli organi ufficiali del Partito comunista, il quale stava subendo una vistosissima emorragia: 140.000 membri perduti nel 1989, addirittura 800.000 nel 1990.

La strada era ormai aperta verso una svolta decisiva. Il 22 febbraio 1990 venne allora soppresso il famoso articolo 6 della costituzione che consacrava nel PCUS “la forza che dirige e orienta la società sovietica” e “il nucleo fondamentale del suo sistema politico, degli organismi dello Stato e delle organizzazioni sociali”. Il partito diventava così un po’ più “privato” e lo Stato un po’ più “pubblico”. Alcuni ostacoli, d’ordine anche costituzionale, si frapponevano ancora alla formazione di un pluripartitismo maturo. Il PCUS, peraltro, si era già diviso, come l’intera società sovietica, in un’ala conservatrice, condotta da Ligačëv, in un’ala centrista, condotta dallo stesso Gorbačëv, e in un’ala riformatrice radicale, condotta da Eltsin: quest’ultima, tra le altre cose, chiedeva, dall’interno del PCUS, la trasformazione dello stesso PCUS in un normale partito parlamentare, il che avrebbe comportato di fatto il pluripartitismo.

Rimozione della statua di Lenin
Rimozione della statua di Lenin

Se l’impero interno continuava comunque a dare segni sempre più inquietanti di cedimento, era stato l’impero esterno, nel 1989, anno simbolico in Europa dell’intero processo storico conclusosi con la «caduta del comunismo”, a crollare con sorprendente rapidità e, a parte il caso della Romania, dove la “rivoluzione” fu in parte inventata, senza spargimento di sangue. Sin dal febbraio il Partito comunista polacco, mentre Solidarność nuovamente reso legale, rinunciò al monopolio del potere, già condiviso di fatto con l’esecutivo, l’esercito, il sindacato autonomo e la Chiesa cattolica: nell’estate, in libere elezioni, venne quasi cancellato dal panorama politico.

L’intellettuale cattolico Mazowiecki, già membro della direzione di Solidarność, divenne allora primo ministro. In agosto ebbe poi inizio un grande esodo dalla Germania dell’Est, anche attraverso la frontiera con l’Austria riaperta dall’Ungheria: in settembre ebbero luogo, soprattutto a Lipsia, imponenti manifestazioni antigovernative e a favore del movimento di opposizione Neue Forum. In ottobre Honecker, segretario del SED (il partito comunista al potere), diede le dimissioni. Il 9 novembre, impossibilitato a reagire, privo ormai di potere, oltre che di consenso, e consapevole del fatto che Gorbačëv era risolutamente contrario a un’azione repressiva dagli effetti imprevedibili, il governo della DDR decise di aprire un varco nel muro di Berlino, il più vistoso, e ancora operante, residuo della guerra fredda. Si ebbe immediatamente la sensazione che una rivoluzione democratica si stesse pacificamente affermando e che l’intero sistema politico dell’Europa orientale fosse ormai in agonia.

Istante della caduta del Muro di Berlino, 1989
Istante della caduta del Muro di Berlino, 1989

Iniziò anche il processo di dissoluzione della Germania dell’Est, destinata a riunificarsi con la Germania dell’Ovest – un evento di portata enorme nella storia contemporanea – il 3 ottobre 1990. Il dopoguerra più lungo della storia ebbe così termine. Nell’ordine, tra l’ottobre e il dicembre del 1989, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia e Romania abbandonarono il monopartitismo comunista. In Romania, per abbattere il regime di Ceauşescu, furono necessarie una rivoluzione violenta e l’esecuzione di Ceauşescu e della moglie. Ovunque, tuttavia, mentre, in modo fortunatamente non paragonabile a ciò che avverrà in Iugoslavia, i contrasti “etnici” risorgevano – tra Cechi e Slovacchi, tra Ungheresi e Slovacchi, tra Ungheresi e Romeni, tra Polacchi e Tedeschi, tra Polacchi e Lituani e Russi bianchi, persino tra Bulgari e Turchi – il passaggio a un’economia di mercato, apportatrice di quel benessere materiale per cui, dopo tanti anni di “comunismo”, c’era una spasmodica attesa, si sarebbe rivelato assai più difficile e problematico del passaggio, relativamente indolore, al pluripartitismo e alla democrazia politica.

Nel 1989, a ogni buon conto, scomparve in Europa, oltre che l’impero esterno e occidentale dell’URSS, anche il “Comunismo” sempre eterodiretto del 1944-1 946, il “comunismo” appendice del comunismo-bolscevismo del 1917. Si tenga inoltre presente che, nella notte tra il 3 e il 4 giugno del 1989, l’esercito cinese aveva fatto irruzione a Pechino nella piazza Tian An Men sparando sulla folla, costituita prevalentemente da studenti, che dal 17 maggio si era radunata per protestare contro l’autoritarismo in nome della democrazia e della lotta contro la corruzione. I morti furono circa. 7000. Il secondo comunismo, quello sorto con il processo della decolonizzazione radicale, aveva del resto da tempo smarrito la sua forza propulsiva. La sua strada si era già rivelata essere la compresenza di una rigida dittatura politica di partito con l’apertura sempre più decisa, e pragmaticamente orientata, all’economia di mercato, alla proprietà privata e alle istituzioni economiche specifiche del capitalismo. Restava così, nel 1990, solo il primo comunismo, il bolscevismo russo e sovietico vittorioso nel 1917. La situazione politica confusa, le conseguenze di una perestrojka sostanzialmente in crisi da un biennio e le spinte centrifughe presenti ormai in larga parte dell’impero interno, lo incalzavano ora in modo sempre più minaccioso. Nel corso del 1990 una dopo l’altra, a cominciare da quelle baltiche, le repubbliche dell’URSS proclamavano la loro sovranità rispetto al governo centrale. Nell’agosto 1991 un improvvido colpo di Stato dei comunisti conservatori tentava di deporre Gorbačëv, ma la resistenza di Eltsin e la mobilitazione popolare lo facevano fallire. Era il colpo definitivo all’URSS: l’11 ottobre il PCUS era messo fuori legge e il 25 dicembre l’unione veniva sciolta nelle sue repubbliche federative.

2. URSS, putsch di agosto

[A cura di Massimo Cardellini]