Storia del capitalismo di Stato. URSS. – Il crollo dell’URSS – Bruno Bongiovanni; da: “La Storia. Dalla guerra fredda alla dissoluzione dell’URSS”, vol. XIV, Mondadori, 2007.

Il crollo dell’URSS

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Ex repubbliche sovietiche: 1 Armenia, 2 Azerbaigian, 3 Bielorussia, 4 Estonia, 5 Georgia, 6 Kazakistan, 7 Kirghizistan, 8 Lettonia, 9 Lituania, 10 Moldavia, 11 Russia, 12 Tagikistan, 13 Turkmenistan, 14 Ucraina, 16 Uzbekistan

Bruno Bongiovanni

Il lungo regno di Breznev, iniziato nel 1964 si prolungò oltre due anni e mezzo dopo la sua morte. I burosauri della gerontocrazia al potere, sino ad allora eccezionalmente longeva sul piano politico, presero infatti a uscire di scena in rapida successione. Il 26 gennaio 1982 morì Suslov, l’“eminenza grigia”, già ideologo di Chruščëv e artefice principale del di lui affossamento. Il 10 novembre toccò allo stesso Breznev, da tempo gravemente malato e simbolo fisico dell’invecchiamento del sistema sovietico, un sistema che pure proclamava l’avvenuta affermazione dell’“uomo nuovo”. Il 12 novembre Andropov, ex-capo del KGB con fama di riformatore, aveva preso il posto di Breznev. Il nuovo segretario del PCUS era comunque già non più visibile, quando, il primo settembre del 1983, un missile sovietico abbatté un aereo delle linee civili sudcoreane, accusate di effettuare operazioni di spionaggio per conto degli Stati Uniti. Fu questo il momento di maggior tensione diretta tra i due blocchi dopo la crisi di Cuba dell’ottobre 1962. Il presidente Reagan ebbe in questa circostanza l’occasione di definire l’URSS l’“impero del male”, un’espressione che, pur non risultando meno inquietante, pareva più in sintonia con qualche produzione hollywoodiana a basso costo che con la fraseologia della vecchia guerra fredda. Fu comunque ben palpabile il timore che al Cremlino non vi fosse più una mente politica, o la tradizionale e sempre eccellente diplomazia russo-sovietica; una mente militare parve avere assunto in prima persona la facoltà di decidere. Il timore risultò infondato. Nel febbraio del 1984, alla morte dello stesso Andropov, Cernenko, l’ultimo e incolore esponente della gerontocrazia sovietica, ne prese il posto alla segreteria del PCUS. Anche Cernenko, anziano e malato, si vide poco. Durante la sua breve segreteria – meglio sarebbe dire interregno – il novantaquattrenne Molotov, già ministro degli Esteri di Stalin e protagonista della storia politica e diplomatica del sec. XX, risorse dal passato e venne riammesso nel PCUS, da cui, per volontà di Chruščëv, era stato escluso nel 19 5 7. Fu questo un fatto di scarso significato politico, ma di gran portata simbolica; e più il potere, del resto, si chiude in un esclusivo e ristretto spazio claustrofobico più i simboli (insieme “segni” e “sintomi”) diventano importanti. Nel marzo del 198 5 moriva però anche Cernenko. Si apriva, anzi si spalancava, una fase del tutto nuova per la storia dell’URSS e del mondo.

1. Gorbačëv: perestrojka e glasnost’

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Il segretario del PCUS Michail Gorbachev

L’11 marzo 1985 a Cernenko, il fantasma autorecluso nel Cremlino, succedette Gorbačëv. Immediata fu la sensazione, negli ambienti diplomatici occidentali, che grandi mutamenti stessero per verificarsi. Nel giro di pochi mesi, infatti, pur essendo cresciuto politicamente grazie alla protezione di Andropov, e pur essendo stato formalmente eletto nel segno e con gli auspici della continuità, il nuovo segretario del PCUS si qualificò subito come un riformatore.

Nel luglio il ministero degli Esteri venne assunto da un altro riformatore, Ševardnadze, in luogo dell’inamovibile (in carica ininterrottamente dal 1957) Gromyko, peraltro straordinario diplomatico, nel solco della grande tradizione russa, al servizio di tutti i volti assunti storicamente dall’URSS. Rapidi cambiamenti vennero altresì effettuati negli apparati del partito e dello Stato, nel governo e nell’esercito. Era iniziata la “debreznevizzazione”, assai meno ideologica e macchinosa della “destalinizzazione” di Chruščëv, e in compenso assai più rapida e concreta: gli obiettivi erano gli uomini del passato regime e il mezzo per allontanarli era in parecchi casi la denuncia della loro corruzione. È interessante notare che chi si distinse, all’interno del PCUS, nella battaglia contro la corruzione, una battaglia che, a causa dell’enorme ed emotiva popolarità che regala, inevitabilmente genera in ogni parte del mondo tentazioni demagogiche, fu proprio Boris Eltsin.

I primi corposi segnali prima di una volontà, e poi di una necessità, di trasformazione, vennero comunque inviati al mondo sul terreno delle relazioni internazionali, la qual cosa, dopo oltre un quinquennio di coesistenza pacifica messa in forse e di inquietanti trattative e reciproche minacce a base di missili, fu accolta con gran sollievo e contribuì a far subito di Gorbačëv uno statista popolarissimo, certo assai più popolare, a differenza dei suoi predecessori, nel mondo occidentale che in patria. Nel novembre dello stesso 1985 ci fu così il primo incontro tra Reagan e Gorbačëv. Fu da tutti interpretato come il primo passo verso una nuova fase distensiva.

L’impero sovietico, del resto, agli occhi del nuovo gruppo dirigente dell’imperialismo riformatore, si stava rivelando, nella sua estensione planetaria, troppo costoso per l’arcaica base produttiva sovietica, tutta incentrata sull’industria pesante e sull’apparato militare-industriale, e non in grado di soddisfare le aspettative crescenti, e psicologicamente indilazionabili, dei cittadini e dei consumatori sovietici, le cui mentalità collettive erano in trasformazione, come sicuramente dimostreranno gli storici del futuro. La società civile dell’URSS e dei Paesi dell’Europa orientale, una realtà che si stava più o meno silenziosamente, ma certo in modo assai caotico, dando una forma e che si stava altresì, per quanto lentamente, ritagliando spazi concreti di autonomia dal potere politico, era infatti investita dall’offensiva del benessere, commerciale e massmediologica insieme, ancorata cioè sia a merci che a immagini, che proveniva prevalentemente dall’Europa e dagli Stati Uniti, i quali, congiunturalmente, verso la metà degli anni Ottanta, stavano vivendo, insieme con il Giappone, un periodo di relativa prosperità economica e di crescita degli investimenti produttivi. Era soprattutto in atto un’ennesima rivoluzione industriale, segnata questa volta dalla capillare diffusione dell’informatica e di nuove tecniche di comunicazione. Laddove il “comunismo” restava pesante e radicato nel territorio, l’antagonista “capitalistico” pareva diventare agile, quasi aeriforme, comunque inafferrabile e dinamicamente privo di impaccianti subalternità territoriali. Qualcuno avrebbe potuto ritenere che alle due classiche forme di sottomissione del lavoro al capitale, la “formale dell’età della rivoluzione industriale e la “reale” del cosiddetto “capitalismo maturo”, stesse per succedere un terzo stadio, quello della sottomissione “virtuale”. Lo spazio, in altre parole, sembrò essere sconfitto dal tempo. Si pensò a ogni buon conto, nell’URSS, che la ripresa della distensione potesse consentire di stornare risorse dalla insostenibile strategia imperiale, di resistere alle nuove, e più sofisticate, forme della competizione internazionale e di venire incontro alle esigenze popolari, il che avrebbe aperto la società civile in formazione a quella collaborazione con lo Stato che si palesava irrinunciabile e indifferibile.

Se dunque il concetto-chiave del 1985 era stato, in opposizione alla “Stagnazione” brezneviana, l’“accelerazione”, all’inizio del 1986, in occasione del XXVII congresso del PCUS, la parola d’ordine, subito diffusissima, sino a identificarsi con tutta o quasi la parabola politica contrassegnata dalla personalità di Gorbačëv, fu la perestrojka, o “ristrutturazione”, vale a dire una “politica mirante ad attivare i progressi sociali ed economici del Paese e a creare un rinnovamento in tutte le sfere della vita”. Parola d’ordine abbastanza nebulosa, come si può ben vedere, eppure in grado di suscitare, forse anche in questo caso più all’estero che in URSS, grandi speranze, le ultime speranze collegate al “comunismo” storicamente esistito. A partire dal gennaio del 1987, inoltre, ebbe successo, come ulteriore e popolarissima parola d’ordine, anche la glasnost’, subito tradotta “trasparenza” e già presente tra le rivendicazioni degli oppositori antizaristi del sec. XIX: le decisioni del governo, d’ora in poi, non dovevano cioè più restare segrete, ma essere rese pubbliche. Fu comunque subito chiaro che la perestrojka aveva a che fare con l’economia e la glasnost’ con la politica: nel primo caso in particolare si aveva come obiettivo la riforma radicale del meccanismo di piano e una problematica opzione dall’alto per l’efficienza di mercato, nel secondo la liberalizzazione risoluta dei rapporti tra Stato e cittadino. Non si trattava, come in un primo tempo si disse, di una semplice ripetizione delle riforme degli anni di Chruščëv: il rinnovamento, promosso sì dai vertici dello Stato e del partito, ma in sintonia con una società civile che stava diventando consapevole della propria complessità, era sin d’ora molto più profondo.

Nel frattempo, nell’aprile del 1986, la terribile tragedia dell’esplosione accidentale alla centrale termonucleare ucraina di Černobyl aveva rivelato a tutto il mondo la debolezza e la mancanza di sicurezza dell’approvvigionamento energetico della superpotenza sovietica, un gigante dagli impianti tecnologici inaffidabili e quindi potenzialmente dai piedi d’argilla. Si rese così ancora più necessario stringere i tempi. L’incontro sugli euromissili di Reykjavík (ottobre 1986) non sortì sul momento effetto alcuno, ma in seguito la distensione militare e politica fece enormi e concreti passi in avanti. Privo per ora di sbocchi sul terreno internazionale, anche a causa del perdurare senza risultati della rovinosa e sanguinosa guerra in Afghanistan, il moto riformatore, ormai rapidissimo e dotato quasi di una meccanica propria, investì la politica interna. Nel dicembre 1986 venne liberato Sacharov, il più noto all’estero dei dissidenti sovietici. Nel 1987 un’amnistia di ben più ampie proporzioni mise in libertà altri dissidenti. Nel luglio dello stesso anno, mentre la glasnost’ faceva effettivi passi in avanti, il comitato centrale del PCUS cercò di definire i confini e la natura della perestrojka, annunciando un ridimensionamento del ruolo dello Stato e una maggior autonomia finanziaria alle imprese, il che implicava ovviamente una relativa limitazione della natura onnipervasiva del piano e della cosiddetta, e in realtà largamente disattesa, “economia di comando”. In occasione del settantesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, infine, prese vigore la volontà di riscrivere la storia dell’URSS, riconsiderandone le tappe e le svolte: fu questo l’inizio, in qualche modo quasi della storia dell’URSS “ufficiale”, dopo i primi tentativi di Chruščëv, della riabilitazione delle vittime dello stalinismo, fenomeno non privo di risvolti politici attualizzanti – si pensi alla riabilitazione di Bucharin, considerato un “bolscevico democratico” – in quanto le strategie del passato del PCUS e dell’URSS avevano ora una concreta opportunità, non meramente storiografica, di venire alla luce e di alimentare il dibattito in corso. Le critiche, sempre più diffuse, all’età di Stalin si estesero anche agli anni “eroici” della giovane repubblica e a lambire la stessa e fino ad allora intoccabile età di Lenin. La riabilitazione giudiziaria e politica dei vecchi bolscevichi condannati nel corso dei “processi di Mosca” venne comunque effettuata nel 1988. In questo stesso periodo abbastanza facilmente furono sconfitte le voci conservatrici esplicitamente ostili, sul piano ideologico, al nuovo corso. La vera resistenza non riguardava i principi e i valori del “comunismo”, riguardava piuttosto i privilegi e i centri di potere della nomenklatura brezneviana, ancora ben insediata in posizioni di preminenza negli apparati di partito, nello Stato, nei giornali e in genere nei mezzi di comunicazione di massa, nell’esercito, nel mondo della cultura, nella dirigenza e ancor più nei quadri intermedi delle imprese, nelle comunità patriarcali colcosiane. In ogni caso, i segni di rinnovamento interno, assai più clamorosi, del resto, sul piano politico che su quello economico, portarono anche a importantissimi risultati sul piano della distensione internazionale. Nel dicembre del 1987, al termine dell’irripetibile e irripetuto annus mirabilis di Gorbačëv, il segretario generale del PCUS e Reagan firmarono a Washington il trattato per lo smantellamento degli “euromissili”. Il successivo 1988, l’anno delle celebrazioni del millenario della cristianizzazione della Russia, fu anche un anno di svolta nella politica religiosa del regime sovietico, il che, dopo la concreta disponibilità nei confronti della distensione, procurò, sempre all’estero, nuove simpatie a Gorbacev. Il periodo “ascendente” del riformismo gorbaceviano (1985 – 1987) si era comunque concluso. Cominciava ora il drammatico periodo “discendente” (1988- 1991).

Il ripiegamento dell’assetto imperiale, infatti, consustanziale con la libertà di fatto prodotta dalla glasnost’ e con l’impazienza e con la delusione prodotte dalla perestrojka (che al momento aumentava il caos senza migliorare il livello di vita), mise in moto quel processo implosivo che portò l’impero stesso a finire preda di forze centrifughe e a disintegrarsi. Cominciarono le repubbliche baltiche – Estonia, Lettonia e Lituania – sin dall’agosto del 1987, in occasione del quarantottesimo anniversario del patto nazi-sovietico, a ricordare al mondo di essere state annesse nel 1940 – da una potenza che avrebbe ricavato il prestigio mondiale liberando l’Europa centrorientale dal dominio nazionalsocialista – in seguito all’ufficialmente rimosso pactum sceleris del 1939. Il macigno di un passato, in Polonia e nel mondo, era del resto già stato agitato negli anni precedenti, mentre era in atto lo scontro tra il governo polacco e Solidarność. Tutto era stato invocato – e il materiale storicamente incandescente non mancava – per porre fine a un’innaturale sudditanza: la finis Poloniae settecentesca, la fede cattolica, il 1830- 1831, il 1863, la guerra russo-polacca del 1920, la spartizione del 1939, le fosse di Katyn, il governo di Lublino, il 1956 di Poznan, il 1970- 1971 di Danzica e Stettino. Il passato remoto avvelenava ulteriormente il passato prossimo, cui si rivelava peraltro intimamente e forse indissolubilmente collegato. Il gruppo dirigente sovietico aveva infatti probabilmente messo nel conto i problemi economici, e anche politici, ereditati da Lenin e da Stalin, da Chruščëv e da Breznev: a questi, tuttavia, si sommarono, con un effetto moltiplicatore devastante, i problemi ereditati da secoli di colonizzazione e nel Caucaso di dominazione zarista. A partire dal febbraio 1988, infatti, fortissime tensioni nazionalistiche incrinarono l’area meridionale e caucasica dell’impero interno: scontri armati, destinati a prolungarsi ben oltre la dissoluzione dell’URSS e a proiettarsi negli anni Novanta, opposero, neppur mitigati dal tremendo terremoto del dicembre 1988 in Armenia (55.000 morti), la comunità armena e quella azera per il possesso del Nagorno-Karabach, territorio abitato da Armeni incluso neii’Azerbajdžan. Anche la Georgia, la Moldavia, e poi l’Asia centrale, furono attraversate da violente rivendicazioni nazionalistiche e da sanguinose risse interetniche. A ben poco servì la formale rinuncia a estendere ulteriormente l’impero esterno: l’accordo a Ginevra, nell’aprile del 1988, sul ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan – operativo a partire dal 15 maggio – non arrestò la reazione a catena, né a sud, dove il potere centrale si rivelava del tutto impotente a sedare i numerosissimi focolai di guerra civile, né a nord, dove ora le tre repubbliche baltiche chiedevano, come anticipo dell’indipendenza, una maggiore autonomia politica ed economica.

Si insisteva molto, davanti a questo scenario inatteso, sulla caduta verticale dell’autoritarismo centrale e sul conseguente risvegliarsi, in presenza di un Leviatano dimezzato, di antiche tensioni solo temporaneamente narcotizzate dalla paura per il Leviatano sino a poco prima integro: questa constatazione, quasi ovvia, cui si sommavano altrettanto ovvie riflessioni sulla esigua incidenza dell’azione politica del «comunismo» nelle periferie, conteneva certo non pochi elementi di verità. Occorre probabilmente aggiungere che le “Russie” accorpate dall’autocrazia e poi l’URSS, per loro natura, lungo tutta la traiettoria zarista-comunista, o erano imperiali o non erano: giunte intorno al 1980, per una serie di ragioni complesse, al limite “fisico” della loro colossale espansione, hanno cominciato a sbriciolarsi, dando nel contempo vita a un ispido e aggressivo pluralismo geopolitico, cioè a un pluralismo differenzialistico e autoreferenziale in parte morfologicamente arcaico e in parte assolutamente inedito e nuovo.
In tutto il mondo, del resto, ma in quello “Comunista” o “ex-comunista” con particolare virulenza, tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del sec. XX le geografie, soprattutto quelle malate e quelle a bella posta avvelenate, sono sembrate prendere il sopravvento, talvolta presentandosi come fanaticamente “giustiziere”, sulla storia e in particolare sulla storia illuministicamente intesa e apportatrice di valori cosmopolitici e universali. Là dove nel discorso che pone enfaticamente l’accento sullo spazio e sulla “natura” non vi sono che irriducibili differenze che attendono di essere confermate e salvaguardate dall’incubo del meticciato universale, nel discorso che riconosce invece autonomia al tempo e alla storia vi sono essenzialmente diseguaglianze, in quanto tali sociali-artificiali e non naturali, che possono anche essere attenuate, per quanto aspre esse siano, e tendenzialmente eliminate. Il differenzialismo dello spazio, divenuto intollerante e brutalmente xenofobo, si è così preso una secca rivincita, ciò che era impensabile all’inizio degli anni Ottanta, sul percorso uniformatore, e talvolta omogeneizzatore, del tempo.

2. Il collasso dell’impero

Nella bufera dei nazionalismi risorgenti, e davanti alle difficoltà di decollo della perestrojka, Gorbačëv tentò di accentrare su di sé, e intorno a sé, tutte le principali cariche politiche dell’URSS. Il potere centrale su cui si era insediato andava in realtà progressivamente evaporando, mentre il caos economico – frutto anche di misure insieme troppo e troppo poco radicali – incancreniva ulteriormente la situazione. Una riforma elettorale e politica venne comunque votata dal soviet supremo il primo dicembre 1988: il nuovo congresso dei deputati del popolo avrebbe avuto 2250 membri, 1500 dei quali eletti a suffragio universale diretto e i restanti 750 designati dalle organizzazioni sociali dell’URSS. Le elezioni, le prime semidemocratiche dopo quelle che alla fine del 1917 portarono all’assemblea costituente subito sciolta dai bolscevichi, si svolsero il 26 marzo 1989: 2133 dei nuovi eletti nominarono Gorbačëv capo del nuovo soviet supremo e quindi di fatto presidente, con poteri più estesi, dell’URSS. Si tentava, in questo modo, mentre il PCUS sembrava perdere la presa sulla società, di vitalizzare in modo decisivo il ruolo – legislativo ed esecutivo – del parlamento e del governo, quindi dello Stato: dal partito-Stato si passava cioè a uno Stato più autonomo dal partito.

Questo Stato, tuttavia, era l’URSS, un’impalcatura imperiale e multiculturale sempre più minacciata da potenti forze centrifughe. E Gorbačëv, dal canto suo, pur proclamandosi a favore di una repubblica presidenziale, aveva preferito farsi eleggere dai suoi deputati, diffidando della propria popolarità in patria e rimandando l’elezione diretta del presidente, il che favorirà enormemente Boris Eltsin, ritornato in gioco, dopo essere stato allontanato nel 1987 dalla direzione del partito, proprio con un larghissimo successo a Mosca nelle elezioni del 1989. Vennero comunque creati nuovi organismi, a fianco della presidenza, con la funzione di fornire un contrappeso agli organi ufficiali del Partito comunista, il quale stava subendo una vistosissima emorragia: 140.000 membri perduti nel 1989, addirittura 800.000 nel 1990.

La strada era ormai aperta verso una svolta decisiva. Il 22 febbraio 1990 venne allora soppresso il famoso articolo 6 della costituzione che consacrava nel PCUS “la forza che dirige e orienta la società sovietica” e “il nucleo fondamentale del suo sistema politico, degli organismi dello Stato e delle organizzazioni sociali”. Il partito diventava così un po’ più “privato” e lo Stato un po’ più “pubblico”. Alcuni ostacoli, d’ordine anche costituzionale, si frapponevano ancora alla formazione di un pluripartitismo maturo. Il PCUS, peraltro, si era già diviso, come l’intera società sovietica, in un’ala conservatrice, condotta da Ligačëv, in un’ala centrista, condotta dallo stesso Gorbačëv, e in un’ala riformatrice radicale, condotta da Eltsin: quest’ultima, tra le altre cose, chiedeva, dall’interno del PCUS, la trasformazione dello stesso PCUS in un normale partito parlamentare, il che avrebbe comportato di fatto il pluripartitismo.

Rimozione della statua di Lenin
Rimozione della statua di Lenin

Se l’impero interno continuava comunque a dare segni sempre più inquietanti di cedimento, era stato l’impero esterno, nel 1989, anno simbolico in Europa dell’intero processo storico conclusosi con la «caduta del comunismo”, a crollare con sorprendente rapidità e, a parte il caso della Romania, dove la “rivoluzione” fu in parte inventata, senza spargimento di sangue. Sin dal febbraio il Partito comunista polacco, mentre Solidarność nuovamente reso legale, rinunciò al monopolio del potere, già condiviso di fatto con l’esecutivo, l’esercito, il sindacato autonomo e la Chiesa cattolica: nell’estate, in libere elezioni, venne quasi cancellato dal panorama politico.

L’intellettuale cattolico Mazowiecki, già membro della direzione di Solidarność, divenne allora primo ministro. In agosto ebbe poi inizio un grande esodo dalla Germania dell’Est, anche attraverso la frontiera con l’Austria riaperta dall’Ungheria: in settembre ebbero luogo, soprattutto a Lipsia, imponenti manifestazioni antigovernative e a favore del movimento di opposizione Neue Forum. In ottobre Honecker, segretario del SED (il partito comunista al potere), diede le dimissioni. Il 9 novembre, impossibilitato a reagire, privo ormai di potere, oltre che di consenso, e consapevole del fatto che Gorbačëv era risolutamente contrario a un’azione repressiva dagli effetti imprevedibili, il governo della DDR decise di aprire un varco nel muro di Berlino, il più vistoso, e ancora operante, residuo della guerra fredda. Si ebbe immediatamente la sensazione che una rivoluzione democratica si stesse pacificamente affermando e che l’intero sistema politico dell’Europa orientale fosse ormai in agonia.

Istante della caduta del Muro di Berlino, 1989
Istante della caduta del Muro di Berlino, 1989

Iniziò anche il processo di dissoluzione della Germania dell’Est, destinata a riunificarsi con la Germania dell’Ovest – un evento di portata enorme nella storia contemporanea – il 3 ottobre 1990. Il dopoguerra più lungo della storia ebbe così termine. Nell’ordine, tra l’ottobre e il dicembre del 1989, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia e Romania abbandonarono il monopartitismo comunista. In Romania, per abbattere il regime di Ceauşescu, furono necessarie una rivoluzione violenta e l’esecuzione di Ceauşescu e della moglie. Ovunque, tuttavia, mentre, in modo fortunatamente non paragonabile a ciò che avverrà in Iugoslavia, i contrasti “etnici” risorgevano – tra Cechi e Slovacchi, tra Ungheresi e Slovacchi, tra Ungheresi e Romeni, tra Polacchi e Tedeschi, tra Polacchi e Lituani e Russi bianchi, persino tra Bulgari e Turchi – il passaggio a un’economia di mercato, apportatrice di quel benessere materiale per cui, dopo tanti anni di “comunismo”, c’era una spasmodica attesa, si sarebbe rivelato assai più difficile e problematico del passaggio, relativamente indolore, al pluripartitismo e alla democrazia politica.

Nel 1989, a ogni buon conto, scomparve in Europa, oltre che l’impero esterno e occidentale dell’URSS, anche il “Comunismo” sempre eterodiretto del 1944-1 946, il “comunismo” appendice del comunismo-bolscevismo del 1917. Si tenga inoltre presente che, nella notte tra il 3 e il 4 giugno del 1989, l’esercito cinese aveva fatto irruzione a Pechino nella piazza Tian An Men sparando sulla folla, costituita prevalentemente da studenti, che dal 17 maggio si era radunata per protestare contro l’autoritarismo in nome della democrazia e della lotta contro la corruzione. I morti furono circa. 7000. Il secondo comunismo, quello sorto con il processo della decolonizzazione radicale, aveva del resto da tempo smarrito la sua forza propulsiva. La sua strada si era già rivelata essere la compresenza di una rigida dittatura politica di partito con l’apertura sempre più decisa, e pragmaticamente orientata, all’economia di mercato, alla proprietà privata e alle istituzioni economiche specifiche del capitalismo. Restava così, nel 1990, solo il primo comunismo, il bolscevismo russo e sovietico vittorioso nel 1917. La situazione politica confusa, le conseguenze di una perestrojka sostanzialmente in crisi da un biennio e le spinte centrifughe presenti ormai in larga parte dell’impero interno, lo incalzavano ora in modo sempre più minaccioso. Nel corso del 1990 una dopo l’altra, a cominciare da quelle baltiche, le repubbliche dell’URSS proclamavano la loro sovranità rispetto al governo centrale. Nell’agosto 1991 un improvvido colpo di Stato dei comunisti conservatori tentava di deporre Gorbačëv, ma la resistenza di Eltsin e la mobilitazione popolare lo facevano fallire. Era il colpo definitivo all’URSS: l’11 ottobre il PCUS era messo fuori legge e il 25 dicembre l’unione veniva sciolta nelle sue repubbliche federative.

2. URSS, putsch di agosto

[A cura di Massimo Cardellini]

Marxismo libertario. Maximilien Rubel – Karl Marx e il primo partito operaio; da: “Masses (socialisme et liberté)”, n°13, febbraio 1948.

Karl Marx e il primo partito operaio [1]

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Maximilien Rubel

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Il postulato dell’autoemancipazione proletaria attraversa, come un leit-motiv, tutta l’opera di Marx. È l’unica chiave per una giusta comprensione dell’etica marxiana. Ha ispirato tutte le procedure, teoriche e politiche, di Karl Marx, dal 1844, quando, in La Sacra Famiglia, scriveva che “Il proletariato può e deve liberarsi da se stesso”, attraverso le vicissitudini dell’Internazionale operaia la cui massima, proclamata da Marx, era: “L’emancipazione della classe operaia deve essere opera della stessa classe operaia”, sin agli ultimi primi anni della sua vita, quando, preoccupato dalla sorte della rivoluzione russa, pose tutte le sue speranze nella plurisecolare obchtchina e i suoi contadini [2].

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La forza — o la debolezza — dell’etica marxiana, è la sua fede nell’uomo che soffre e nell’uomo che pensa: — nell’uomo medio — tipo umano più numeroso — e nell’uomo eccezionale, pronto a far sua la causa del primo. Tra i due tipi umani si pone la minoranza onnipotente degli oppressori, padroni dei mezzi di vita e di morte, che ha al suo soldo un esercito che si rinnova senza posa di valletti della spada e della penna, che hanno come missione di mantenere lo statu quo o di ristabilirlo ogni volta che coloro che soffrono e coloro che pensano si uniscano per porvi fine, sognando di instaurare non il cielo sulla terra, ma semplicemente la città umana su una terra umana.

L’unione degli esseri sofferenti e degli esseri pensanti non è concepita da Marx come un’alleanza tra degli esseri che si attribuiscono dei compiti differenti, dal punto di vista di una divisione razionale del lavoro, i primi essendo condannati alla miseria e alla rivolta cieca contro la loro condizione inumana, i secondi aventi la vocazione di pensare per i primi, e di fornire a quest’ultimi delle verità bell’e pronte. A questo proposito, Marx si è espresso con una nettezza che esclude ogni ambiguità, sin dal 1843 in una lettera a Ruge: L’intesa di coloro che soffrono e di coloro che pensano è in verità un’intesa tra “l’umanità sofferente che pensa, e l’umanità pensante che è oppressa”. In altri termini i proletari devono elevare l’opinione che essi hanno della loro miseria all’altezza di una coscienza teorica che dia alla miseria proletaria un significato storico e che, allo stesso tempo, permetta alla classe operaia di elevarsi alla comprensione dell’assurdità della sua condizione. Se “l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi”, se “la forza materiale non può essere rovesciata che dalla forza materiale”, non resta tuttavia non meno valido il fatto che “la teoria si muti, essa stessa, in forza materiale, non appena essa ha afferrato le masse”.

L’immagine del movimento rivoluzionario non è quella delle folle sofferenti e prive di coscienza guidate da un’élite di uomini chiaroveggenti, che patiscono la miseria, ma quella di una sola massa di esseri in stato permanente di rivolta e di rifiuto, coscienti di ciò che sono, vogliono e fanno.

Certo le aspirazioni radicali del proletariato nascono, molto spesso, spontaneamente, per il solo effetto di una situazione avvilente. Ma è allora che essi appaiono degli esseri che sentono la degradazione dell’uomo di massa come un’offesa inflitta alla loro propria dignità di uomini pensanti. Essi intravedono e annunciano per primi la possibilità e la necessità di una rivoluzione radicale, che trasformi le fondamenta materiali e il volto spirituale della società. Essi si uniscono al proletariato, di cui sentono i bisogni e gli interessi come i propri, e se ne fanno gli educatori alla maniera socratica, insegnando loro a pensare da sé. Gli insegnano, innanzitutto, che la lotta di classe non è soltanto un fatto storico, e cioè un fenomeno costante della storia passata, ma anche un dovere storico, e cioè un compito da compiere in piena conoscenza di causa, un postulato etico che, coscientemente posto in applicazione, evita all’umanità le miserie ineffabili che una civiltà tecnica giunta all’apogeo della sua potenza materiale non può mancare di generare per quanto a lungo si sviluppi seguendo le sue proprie leggi, e cioè, seguendo le leggi del caso. Mentre i predicatori religiosi o moralizzanti si danno da fare per apportare ai diseredati la consolazione di una redenzione o di una purificazione attraverso la sofferenza volontariamente accettata, i pensatori socialisti insegnano loro che essi sono la vittima di un meccanismo sociale di cui essi stessi sono i principali ingranaggi e che essi possono, di conseguenza, far funzionare per il vantaggio materiale e morale di tutta l’umanità, lo sviluppo storico avendo permesso all’homo faber di accedere a quella “totalità” delle forze produttive che favorisce la comparsa dell'”uomo totale”: “Di tutti gli strumenti di produzione, il più grande produttivo è la classe rivoluzionaria stessa (Anti-Proudhon).

Il carattere etico del postulato dell’auto-emancipazione del proletariato è ampiamente dimostrato dall’idea che Marx si faceva del partito operaio. E’ noto che nessuno dei partiti proletari che Marx ha visto costituirsi o ha aiutato a far nascere gli sembravano corrispondere a quest’idea. Ma ciò che si sa meno, è il fatto, – strano a prima vista – che, anche dopo la dissoluzione della Lega dei comunisti e durante tutto il periodo precedente la fondazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, Marx non ha smesso di parlare del “partito” come di una cosa esistente. La sua corrispondenza con Lassalle e Engels è, a questo proposito, estremamente significativa. In numerose lettere scambiate tra i tre amici, nel corso di questo periodo, si discute del “nostro partito”, mentre nessuna organizzazione politica degli operai esisteva realmente. Ma molto più rivelatrici sono, per il problema evidenziato, le lettere di Marx a Ferdinand Freiligrath, il cantore rivoluzionario degli anni 1848- 1849, al momento dell’affare Vogt. Freiligrath era appartenuto alla Lega dei comunisti e aveva pubblicato i suoi versi incandescenti sulla Nuova Gazzetta Renana diretta da Marx. Viveva, come quest’ultimo, a Londra, dove occupava, in una banca, un impiego “onorevole”. Il suo nome essendo stato associato agli intrighi che si preparavano in rapporto alle calunnie sparsa da Vogt sul conto di Marx e del suo “partito”, Freiligrath intraprese dei tentativi per essere esentato dall’obbligo di figurare come testimone a carico contro contro Vogt, nei processi intentati da Marx a Londra e a Berlino.

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Marx tentò in una lettera il cui tono caloroso non cede in nulla al rigore politico, di convincerlo che i processi contro Vogt erano “decisivi per la rivendicazione storica del partito e per la sua ulteriore posizione in Germania” e che non era possibile lasciare Freiligrath fuori dal gioco, “Vogt”, gli scrisse Marx, “tenta di trarre profitto dal tuo nome e finge di agire con la tua approvazione infangando l’intero partito, si vanta di averti tra i suoi sostenitori… Se abbiamo coscienza entrambi di aver, ognuno a proprio modo e nel disprezzo di tutti i nostri interessi personali, mossi dai moventi più puri, agitato per anni la bandiera al di sopra delle teste dei filistei, nell’interesse della ‘classe la più lavoratrice e la più miserabile’, sarebbe, io credo, un peccato meschino contro la storia, se ci urtassimo per delle bazzecole che poggiano su dei malintesi”.

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Freiligrath, pur assicurando Marx circa la sua amicizia indefettibile, puntualizzerà nella sua risposta che, se egli intendeva rimanere fedele alla causa proletaria, si considerava tuttavia tacitamente disimpegnato da ogni obbligo nei confronti del “partito”, dalla dissoluzione della Lega comunista. “Alla mia natura”, egli scrisse, “così come a quella di ogni poeta, occorre la libertà! Il partito somiglia, anch’esso, a una gabbia, e si può comporre meglio, anche per il partito, dall’esterno piuttosto che dall’interno. Sono stato un poeta del proletariato e della rivoluzione, per molto tempo prima di essere stato membro della Lega e membro della redazione della Nuova Gazzetta Renana! Voglio dunque continuare a volare con le mie ali, non voglio appartenere che a me stesso e voglio io stesso disporre interamente di me!”. Nella parte conclusiva, Freiligrath non mancò di far allusione a “tutti gli elementi dubbiosi e abietti… che si erano accollati al partito” e di evidenziare la sua soddisfazione di non farne più parte, “non fosse che per il gusto della pulizia”.

La replica di Marx, a più di un titolo, presenta un interesse particolare per ciò che costituisce, accanto al Manifesto del partito comunista e alla Critica del programma di Gotha uno dei rari documenti suscettibili di chiarire uno dei problemi più importanti, se non il più importante, dell’insegnamento marxiano, problema sul quale la più grande confusione non smette di regnare negli spiriti marxisti.

Ricordando a Freiligrath che la dissoluzione della Lega comunista aveva avuto luogo (nel 1852) su sua proposta, Marx dichiara che dopo quell’avvenimento non è appartenuto e non appartiene a nessuna organizzazione segreta o pubblica: “Il partito”, egli scrive, ” compreso in senso essenzialmente effimero, ha smesso di esistere per me da otto anni”. In quanto alle discussioni sull’economia politica che egli aveva fatto dopo la pubblicazione del suo Per la critica dell’economia politica (1859), esse erano destinate non a qualche organizzazione chiusa ma a un piccolo numero di operai scelti tra i quali vi erano anche vecchi membri della Lega comunista. Sollecitato da alcuni comunisti americani di riorganizzare la vecchia Lega, egli aveva risposto che dal 1852 non era più in relazione con nessuna organizzazione di alcun genere: “Risposi… che avevo la ferma convinzione che i miei lavori teorici erano più utili alla classe operaia della mia collaborazione con delle organizzazioni, che, sul continente, non avevano più alcuna ragione di essere”. Marx prosegue: “Dunque, dal 1852, non so nulla di un “partito” in senso letterale. Se sei un poeta, io sono un critico e ne avevo veramente abbastanza delle mie esperienze fatte tra il 1849 e il 1852. La Lega, – così come la Società delle stagioni di Parigi e come cento altre società, – non era che un episodio nella storia del partito il quale nasce spontaneamente dal terreno della moderna società [3]”. Poco oltre leggiamo: “La sola azione che ho continuato dopo il 1852 per quanto tempo ciò era necessario, e cioè sino alla fine del 1853…, era il system of mockery and contempt (4)… contro gli inganni democratici dell’emigrazione e le sue velleità rivoluzionarie”… Marx parla allora degli elementi sospetti menzionati da Freiligrath appartenuti alla Lega. Gli individui nominati non erano in realtà mai stati membri di quell’organismo.

E Marx aggiunge: “E’ certo che nelle tempeste, il fango viene agitato, che nessuna era rivoluzionaria profuma di acqua di rose, che in certi momenti si raccolgono ogni genere di rifiuti. Presentemente, quando si pensa agli sforzi giganteschi diretti contro di noi da tutto quel mondo ufficiale che, per rovinarci, non si è accontentato di sfiorare il delitto penale, ma vi si è immerso sino al collo; quando si pensa alle calunnie sparse dalla ‘democrazia dell’imbecillità’ che non ha mai potuto perdonare al nostro partito operaio di aver avuto più intelligenza e carattere di quanto essa non ne avesse mai avuto, quando si conosce la storia contemporanea di tutti gli altri partiti e quando, infine, ci si domanda ciò che si potrebbe realmente rimproverare al partito intero, si deve giungere alla conclusione che questo partito, in questo XIX secolo, si distingue brillantemente per la sua pulizia. Possiamo, con le usanze e i traffici borghesi, sfuggire all’infangamento? E’ proprio nel traffico borghese che essi sono al loro posto naturale… Ai miei occhi, l’onestà della morale solvibile… non è in nulla superiore all’abietta infamia che né le prime comunità cristiane né i club dei giacobini né la nostra defunta Lega non sono riuscite a eliminare dal loro interno. Soltanto che, vivendo nell’ambiente borghese, si prende l’abitudine di perdere il senso dell’infamia rispettabile o dell’infame rispettabilità”.

La lettera, la cui maggior parte è dedicata a delle questioni di dettaglio del processo contro Vogt, termina con queste frasi: “Ho cercato… di dissipare il malinteso a proposito di un ‘partito’: come se, con questo termine, intendessi una ‘Lega’ sparita da otto anni o una redazione di giornale dissolta da dodici anni. Con partito, intendevo il partito in senso eminentemente storico”.

Il partito in senso eminentemente storico, – era per Marx il partito invisibile del sapere reale piuttosto che il sapere dubbio di un partito reale, detto altrimenti, egli non concepiva affatto che un partito operaio, qualunque esso fosse, potesse incarnare, per il semplice fatto della sua esistenza, la “coscienza” o il “sapere” del proletariato [5].

Durante gli anni in cui Marx su teneva ai margini di ogni attività politica dedicandosi esclusivamente a un lavoro scientifico massacrante, non smetteva mai, quando gli si presentava l’occasione, di parlare in nome dell’invisibile partito di cui si sentiva responsabile. Così, nel 1859, ricevendo una delegazione del club operaio di Londra, non temeva di dichiarare loro che si considerava, insieme a Marx, come il rappresentante del “partito proletario”. Lui e Engels diceva, non traevano questo mandato che da se stessi, ma quest’ultimo sarebbe “controfirmato dall’odio esclusivo e generale” che votano loro “tutte le classi del vecchio mondo e tutti i partiti”.

Quando, durante gli anni 60, si assiste alla rinascita del movimento operaio nei paesi dell’occidente, Marx valutava che il movimento era venuto per “riorganizzare politicamente il partito dei lavoratori” e per proclamarne di nuovo apertamente gli scopi rivoluzionari. Nello spirito di Marx, l’Associazione Internazionale dei Lavoratori era la continuazione della Lega dei Comunisti di cui egli aveva, insieme a Engels, definito il ruolo, alla vigilia della rivoluzione di Febbraio. La Lega non doveva essere un partito tra gli altri partiti operai, essa aveva uno scopo più elevato, perché più generale: rappresentare in ogni momento “l’interesse del movimento totale” e “l’avvenire del movimento”, indipendentemente dalle lotte quotidiane condotte su scala nazionale da parte dei partiti operai. L’Internazionale operaia, fondata a Londra nel 1864 in circostanze incomparabilmente più favorevoli nel 1847 della Lega dei Comunisti nella stessa città, doveva essere al contempo l’organo delle aspirazioni comuni dei lavoratori e l’espressione vivente del loro sapere teorico e della loro intelligenza politica. L’Associazione Internazionale dei Lavoratori era, secondo Marx, il partito proletario, la manifestazione concreta della solidarietà degli operai nel mondo. “Gli operai”, scriveva Marx nell’Indirizzo inaugurale, hanno tra le loro mani un elemento di successo: il loro numero. Ma il numero non pesa sulla bilancia se non è unito dall’organizzazione e guidato dal sapere”.

Per Marx, l’Internazionale operaia era il simbolo vivente di quell'”alleanza della scienza e del proletariato” alla quale Ferdinand Lassalle, prima di scomparire, aveva legato il suo nome. L’internazionale non potendo più, dopo la caduta della Comune di Parigi, svolgere il ruolo che gli assegnava il suo protagonista, quest’ultimo preferì una volta di più riprendere il suo lavoro, preso dal desiderio di lasciare alle generazioni operaie future uno strumento perfetto di autoeducazione rivoluzionaria. Marx fu il primo a riconoscere che “le idee non possono mai portare oltre un vecchio stato del mondo” e che “per realizzare le idee, ci vogliono degli uomini che pongano in opera una forza pratica” (La sacra famiglia). Ma se è vero che le idee non possono condurre che “al di là delle idee del vecchio stato del mondo”, ne consegue che la vera metamorfosi del mondo implica al contempo la trasformazione delle cose e quella delle coscienze”, e che il tipo dell’uomo vivente in stato permanente di rivolta e di rifiuto è, in qualche modo, un’anticipazione del tipo umano della città futura, dell'”uomo integrale”.

Maximilien Rubel

[Traduzione di Massimo Cardellini]

NOTE

[1] Articolo di Maximilien Rubel uscito in Masses (socialisme et liberté) N° 13 (febbraio 1948). Il titolo reca una prima nota: Frammento di una Introduzione all’etica marxiana in uscita presso M. Rivière.

[2] Cfr. Karl Marx e il socialismo populista russo, in La Revue socialiste, maggio 1947.

[3] Sottolineato da me (M. R.).

[4] “La beffa e il disprezzo sistematici” (M. R.).

[5] Engels non la pensava d’altronde diversamente, a giudicare dalle lettere che egli indirizzava a Marx durante la crisi attraversata dalla Lega. Eccone un campione: “Cosa abbiamo da cercare in un ‘partito’, noi che fuggiamo come la peste le posizioni ufficiali, che ci importa, a noi che sputiamo sulla popolarità, e che dubitiamo di noi stessi quando cominciamo a diventare popolari – un partito, e cioè una banda di asini che giurano su di noi, perché ci credono nostri simili?” (13 febbraio 1851).

Marxismo libertario. Daniel Guerin – Dall’autogestione alla burocrazia sovietica, 1917-1921; da: “A la recherche d’un communisme libertaire”, 1981.

Dall’autogestione alla burocrazia sovietica, 1917-1921

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Daniel Guérin

Testo dell’intervento di Daniel Guérin durante il colloquio “De Kronstadt à Gdansk”, organizzato nel novembre 1981 e pubblicato in: A la recherche d’un communisme libertaire.

Dopo la rivoluzione di Febbraio 1917, gli operai s’impadroniscono delle fabbriche e si organizzano in comitati o consigli. Essi prendono così alla sprovvista i professionisti della rivoluzione. Per ammissione dello stesso Lenin, le masse operaie e contadine sono allora “cento volte più a sinistra” dei bolscevichi.

Tuttavia il partito bolscevico, benché ancora minoritario, è la principale forza politica rivoluzionaria organizzata. Guarda con sospetto le diverse strutture che gli fanno ombra. La tendenza alla socializzazione è dapprima canalizzata dal controllo operaio. Il decreto del 14 novembre 1917 legalizza la partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese, nel calcolo del prezzo di ricavo, abolisce il segreto commerciale, obbliga i padroni a esibire la loro corrispondenza e i loro conti. I leader della rivoluzione non vogliono andare oltre. Nell’aprile del 1918, prendono in considerazione ancora la costruzione di società miste per azioni, alle quali parteciperebbe, insieme allo Stato sovietico, il capitale russo e straniero.

Tuttavia, sin dalla primavera del 1917, la classe operaia, organizzata nelle sue proprie istituzioni, i comitati di fabbrica, ha affermato concretamente la sua volontà di superare queste misure transitorie e opposte spesso di fatto al controllo operaio dei bolscevichi la sua propria visione dei compiti del momento: la gestione operaia.

Soltanto gli anarchici avanzavano allora delle parole d’ordine di occupazione delle terre e delle fabbriche, di espropriazione della borghesia e di soppressione della proprietà privata.

Il 20 ottobre 1917, alla alla prima Conferenza panrussa dei comitati di fabbrica, una mozione richiede “il controllo della produzione”, precisando: “Le commissioni non devono essere soltanto  delle commissioni di verifica ma […] le cellule del futuro che, sin da ora, preparano il trasferimento della produzione nelle mani degli operai”. In quanto ai capitalisti, essi oppongono la più viva resistenza all’applicazione del decreto sul controllo operaio e continuano  a rifiutare l’ingerenza dei lavoratori nella produzione. Gli operai rispondono a questo boicottaggio impadronendosi della fabbrica e rimettendola in funzione per loro proprio conto. Molto presto il controllo operaio deve cedere il posto alla socializzazione.

Per molti mesi dopo la rivoluzione questo movimento, già impegnato prima di ottobre, va amplificandosi. I lavoratori assumono un ruolo crescente nell’insieme dei problemi di gestione di numerose imprese. In molte di loro, dopo la fuga dei vecchi proprietari o la loro espropriazione, essi sono oramai i soli padroni.

Questo movimento spontaneo della classe operaia è all’opposto dell’ideologia tradizionale di Lenin e del Partito bolscevico. Da lunga data, dopo il Che fare? del 1902, sono degli autoritari, appassionati dalle nozioni di Stato, di dittatore, di centralizzazione, di partito dirigente, di gestione dell’economia dall’alto, tutte cose in contraddizione con una concezione libertaria della democrazia sovietica.

Nel suo libro Stato e Rivoluzione, redatto e non terminato alla vigilia dell’insurrezione d’Ottobre, Lenin prende come modello il capitalismo di Stato tedesco, l’economia di guerra (Kriegswirtschaft). Egli esalta il monopolio delle Poste: “Che meccanismo ammirabilmente perfezionato! Tutta la vita economica organizzata come la Posta […] ecco lo Stato, ecco la base economica che ci occorre”. Fare a meno di “autorità” e di “subordinazione”, sono questi, egli afferma seccamente, dei “sogni anarchici”. Tutti i cittadini diventano “gli impiegati e operai di un solo trust universale di Stato”, tutta la società p convertita in “un grande ufficio e una grande fabbrica”.

Soltanto, dunque, delle considerazioni d’ordine tattico hanno spinto nel 1917 i bolscevichi a sostenere delle pratiche che, come quelle dei comitati di fabbrica, andavano contro le loro convinzioni più profonde. Ma si metteranno contro di loro una volta al potere.

La contraddizione tra il linguaggio formalmente libertario e i tratti autoritari del pensiero leninista è così flagrante che si tradurrà ben presto nei fatti. E’ accelerata dalla disorganizzazione dei trasporti, la penuria di tecnici e, soprattutto, dalle terribili circostanze della guerra civile, dall’intervento straniero. I dirigenti bolscevichi sono spinti ad assumere delle misure eccezionali, la dittatura, la centralizzazione, il ricorso al “pugno di ferro”.

Il potere alla base non durerà di fatto che per qualche mese, dall’ottobre 1917 alla primavera del 1918. Molto presto, i comitati di fabbrica sono spogliati delle loro attribuzioni.

Così, il decreto del 14 novembre 1917, già citato, dopo aver precisato i poteri dei comitati di fabbrica, si affretta di definire i limiti – ristretti –  della loro autonomia. Il controllo operaio “instaurato nell’interesse di una regolamentazione pianificata dell’economia nazionale” (articolo 1) è organizzato su un modello piramidale e gerarchizzato, i comitati di fabbrica sottoposto allo stretto controllo di un “consiglio generale di controllo operaio”, la cui composizione è decisa dal partito.

Nei fatti, le intenzioni dei bolscevichi sono chiare: si tratta per essi di integrare i comitati di fabbrica nell’insieme delle organizzazioni statali, nella loro propria logica di un’economia centralizzata e, di fatto, burocratizzata.

Due concezioni del controllo operaio si oppongono allora: quella dei bolscevichi che pensano a un controllo esercitato dallo Stato, e quello dei comitati di fabbrica che esigono che il controllo sia esercitato dagli stessi operai, e che affermano così la loro volontà autogestionaria.

Il movimento dei comitati di fabbrica è diventato fastidioso. Esso è rapidamente soffocato dai bolscevichi che l’annettono ai sindacati aspettando di sottoporre i sindacati stessi.

Il pretesto invocato è che l’autogestione non terrebbe conto dei bisogni “razionali” dell’economia, che genererebbe un egoismo di impresa che si farebbero l’un l’altra concorrenza, contendendosi magre risorse, volendo ad ogni costo sopravvivere, benché altre fabbriche siano più importanti “per lo Stato” e meglio equipaggiate.

Di fatto i bolscevichi si oppongono a ogni tentativo fatto da parte dei comitati di fabbrica per formare la loro propria organizzazione nazionale, giungendo perfino a vietare, usando i sindacati, che essi già controllavano, la tenuta di un congresso panrussa dei comitati. Questa è l’ipocrisia di un partito che, da una parte, rimprovera ai comitati di fabbrica la loro visione cosiddetta localistica e che dall’altra, vieta loro di federarsi per dedicarsi proprio ai problemi dell’economia su una scala regionale e nazionale.

Ma la centralizzazione non è che un aspetto della concezione bolscevica dell’economia di transizione.  Lenin non tarda a porre in rilievo le sue preferenze per la “volontà di uno solo” nella gestione delle fabbriche. I lavoratori devono obbedire “incondizionatamente” alla volontà unica dei dirigenti del processo del lavoro. Allo stesso tempo preconizza l’introduzione del taylorismo e del salario a cottimo nelle fabbriche sovietiche.

Con il nome di “specialisti”, vecchi membri delle classi sfruttatrici sono reintegrati all’interno delle imprese nelle loro funzioni e loro privilegi.

Si è molto discorso su queste decisioni: per molti, il ricorso agli specialisti borghesi era necessario alla ricostruzione dell’economia. Conviene qui ricordare che il “Manuale pratico per l’esecuzione del controllo operaio nell’industria” una specie di manifesto dei comitati di fabbrica di Pietrogrado, menzionava la possibilità di una partecipazione dei tecnici alle istanze di controllo, con voce consultiva.Ciò che gli operai contestano dunque, non è la presenza di questi specialisti, né l’utilità di alcune loro competenze, ma bensì il ristabilimento delle loro posizioni gerarchiche e dei loro privilegi, soprattutto salariali.

Per di più l’amministrazione è invasa da numerosi elementi piccolo-borghesi, residui dell’antico capitalismo russo, che essendosi adattati velocemente alle istituzioni sovietiche, si sono fatte attribuire dei posti di responsabile nei diversi commissariati in attesa che sia loro affidata la gestione economica.

Si assiste alla crescente immissione della burocrazia di Stato nell’economia. Il Congresso panrusso dei consigli dell’economia (26 maggio – 4 giugno 1918) decide la formazione di direzione d’impresa di cui i due terzi dei membri sono nominati dai consigli regionali o il Consiglio superiore dell’economia e il terzo terzo eletto soltanto sul posto dagli operai. Il decreto del 28 maggio 1918 estende la collettivizzazione all’insieme dell’industria, ma, allo stesso tempo, trasforma le socializzazioni spontanee dei primi mesi della rivoluzione in semplici nazionalizzazioni. È il Consiglio superiore dell’economia che è incaricato di organizzare l’amministrazione delle imprese nazionalizzate. I direttori e quadri tecnici rimangono in funzione in quanto incaricati dallo Stato.

Per la facciata, delle elezioni ai comitati di fabbrica continuano ad aver luogo, ma un membro della cellula comunista dà lettura di una lista di candidati elaborata in anticipo e si procede al voto per alzata di mano, in presenza delle “guardie comuniste”, armate, dell’impresa. Chiunque si dichiara contro i candidati proposti si vede infliggere delle sanzioni pecuniarie (declassamento di salario, ecc.). I rapporti tra gli operai e questo nuovo padrone ridivengono quelli esistiti un tempo tra il lavoro e il capitale.

“Volete diventare le cellule statali di base”, dichiara Lenin il 27 giugno 1918, al Congresso dei comitati di fabbrica. Quest’ultimi non hanno più che l’ombra di un potere. Oramai il “controllo operaio” è esercitato da un organismo burocratico: l’ispezione operaia e contadina.

La classe operaia non reagisce né abbastanza velocemente, né abbastanza vigorosamente. Essa è dispersa, isolata in un immenso paese arretrato e in gran parte rurale, esaurito dalle privazioni e le lotte rivoluzionarie, più ancora, demoralizzata. I suoi migliori elementi l’hanno abbandonata per i fronti della guerra civile o sono stati assorbiti dall’apparato di partito o del governo. Tuttavia, abbastanza numerosi sono i lavoratori che si sentono frustrati dalle loro conquiste rivoluzionarie, privati dei loro diritti, posti sotto tutela, umiliati dall’ignoranza o l’arbitrio dei nuovi padroni, e che cominciano a prendere coscienza, della vera natura del preteso “Stato proletario”.

[Traduzione di Massimo Cardellini]

Marxismo libertario. Maximilien Rubel – Il partito della mistificazione; da: “Le Monde”, 7 maggio 1976.

Il partito della mistificazione
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Maximilien Rubel

Nel dibattito sull’«abbandono» da parte del partito comunista francese della dittatura del proletariato, nessuno sembra aver menzionato un fatto che meriterebbe tuttavia di essere posto in luce. Esso permette di illuminare, infatti, meglio di ogni altro il senso e la natura di questa procedura: è il partito che si arroga il diritto di decidere se il proletariato deve oppure non esercitare la sua dittatura; è il partito, addirittura il suo segretario circondato dai suoi ideologi, che, sostituendosi alla classe e alla massa dei lavoratori, decide di cancellare con un colpo di penna ciò che, secondo Marx, rappresenta un “periodo”, transitorio certo, ma necessario e inevitabile dell’evoluzione della società e affatto un fenomeno accidentale suscettibile di essere abbandonato o accettato a piacere degli imperativi della nuova strategia politica dettata dal programma comune. Il partito si guarda bene dal rimettere in questione l’essenziale, e cioè le sue prerogative, di rappresentante autoproclamato della classe operaia. E’ sempre lui che, attraverso la voce dei suoi capi, decide al posto della classe operaia, è lui che definisce la natura e la forma che deve assumere l’azione di questa classe; e nulla garantisce che l’abbandono della dittatura del proletariato comporti l’abbandono della dittatura sul proletariato, la sola che importa al partito.

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Il concetto di dittatura del proletariato è parte integrante della teoria dello sviluppo del modo di produzione capitalista e della società borghese, sviluppo di cui Marx afferma di aver rivelato “la legge naturale”. Engels colloca questa teoria tra le due grandi scoperte scientifiche del suo amico, dopo la concezione materialistica della storia comparabile alla scoperta di Darwin: “Così come Darwin ha scoperto la legge dell’evoluzione della natura organica, Marx scoprì la legge dello sviluppo della storia umana”. Il postulato politico della dittatura del proletariato si inscrive nella prospettiva di una società capitalista pienamente sviluppata, terreno dello scontro tra una classe possidente fortemente minoritaria, ma al culmine del suo potere, e una classe operaia ampiamente maggioritaria, espropriata economicamente e socialmente, ma intellettualmente e politicamente matura e adatta a stabilire il suo dominio per la “conquista della democrazia” per mezzo del suffragio universale. Giunta a questa posizione dominante, il proletariato non userà la violenza, soltanto nel caso in cui la borghesia lasciasse il terreno della legalità allo scopo di conservare i suoi privilegi di dominio. La dittatura del proletariato è descritta nella conclusione di Il Capitale come “espropriazione degli espropriatori”, detto altrimenti come “espropriazione di alcuni usurpatori da parte della massa”.

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Pur limitate a una determinata tappa dell’evoluzione globale del genere umano, le leggi e le tendenze dello sviluppo dell’economia capitalista “si manifestano e si realizzano con una necessità di ferro”, i paesi sviluppati industrialmente mostrano ai paesi meno sviluppati “l’immagine del loro proprio futuro”. Donando la parola a un critico russo di Il Capitale, Marx sottoscriveva senza riserva una interpretazione che poneva del tutto l’accento sul determinismo implacabile della sua teoria sociale: essa “dimostra”, dichiarava questo critico, “al contempo la necessità dell’attuale organizzazione, la necessità di un’organizzazione nella quale la prima deve necessariamente passare, che l’umanità vi creda creda oppure non, che ne abbia oppure non coscienza”. Marx stesso non è meno categorico: “Quando una società è giunta a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (…) essa non può superare con un salto né abolire attraverso dei decreti le fasi del suo sviluppo; ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i mali del loro parto”. (Il Capitale).

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Cosa si dovrebbe pensare di una società di scienziati che oserebbe proclamare la “rinuncia” alla legge newtoniana dell’attrazione universale o alle leggi mendeliane della ibridazione delle piante e dell’ereditarietà nei vegetali? E chi invocherebbe, per giustificare la sua decisione, il carattere “non dogmatico” di queste leggi, senza preoccuparsi di confutarle con dei metodi scientifici, ma pretendendo un profondo cambiamento dei modi di pensiero nelle classi non intellettuali? Questa società “sapiente” si ricoprirebbe di ridicolo. Questo è tuttavia l’atteggiamento della compagnia sapiente che si proclama comunista e marxista che, pur richiamandosi ad una teoria di cui non cessa di proclamare il carattere scientifico, ne respinge l’insegnamento maggiore, quello stesso che interessa l’esistenza della maggioranza degli uomini: agendo in nome del “socialismo scientifico”, i suoi dirigenti e ideologi non dichiarano che l’evoluzione delle società capitaliste ha reso caduco l’imperativo della dittatura del proletariato, il che equivarrebbe a rimettere in questione una tesi che Marx stesso considerava come il suo principale apporto al socialismo scientifico.

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Importa poco di sapere se “l’abbandono della dittatura del proletariato” risponde a degli imperativi di tattica elettorale o rinvia ad altre preoccupazioni: perché questo “abbandono” significa in fondo che i responsabili della politica del partito eliminando dal dibattito il principale interessato, il proletariato, il solo che abbia come “missione storica” di liberare le società dalla schiavitù del denaro e dello Stato, dunque di esercitare la sua dittatura. Così lo esige la scienza di Marx così come il semplice buon senso non marxista: la dittatura del proletariato non potendo essere altro che affare degli sfruttati – dunque della quasi totalità della specie umana, – la decisione di un partito, qualunque esso sia, di cancellare un postulato la cui portata etica la contende al rivestimento scientifico non potrebbe non avere il minimo effetto sull’evoluzione della società e la vocazione rivoluzionaria ed emancipatrice dei moderni schiavi. Perché se il movimento operaio è, secondo il “Manifesto comunista“il movimento dell’immensa maggioranza”, la dittatura del proletariato può essere definita come il dominio dell’immensa maggioranza nell’interesse dell’immensa maggioranza, detto altrimenti, l’autodeterminazione del proletariato. Insomma, essa è destinata a realizzare le promesse di una democrazia integrale, l’autogoverno del popolo, contrariamente alla democrazia parziale (borghese) di cui le istituzioni assicurano la dittatura dei possidenti – del capitale che controlla il potere politico, dunque di una minoranza di cittadini – sui non possidenti, dunque sull’immensa maggioranza dei cittadini. In queste condizioni, come spiegare che un partito che si richiama a Marx e al comunismo abbandona una concezione della dittatura del proletariato che – a torto o a ragione – annuncia l’avvento della democrazia integrale?

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Quando prima del 1917 Lenin sognava per la Russia un autogoverno degli operai e dei contadini, dopo la presa del potere, si orienterà verso la concezione di una dittatura del proletariato suscettibile di essere esercitata dalla “dittatura di alcune persone”, addirittura “dalla volontà di uno solo”; questa concezione corrispondeva perfettamente allo stato economico e sociale di un paese che poteva tutto “sviluppare” tranne il… socialismo, la dittatura del partito avendo come obiettivo la creazione del proletariato “sovietico” e non l’abolizione di quest’ultimo. Dunque la creazione di rapporti sociali compatibili con lo sfruttamento del lavoro salariato e il dominio dell’uomo sull’uomo. E’ a questa scuola e non a quella di Marx che i dirigenti dei partiti comunisti hanno preso le loro lezioni di uomini politici. E’ essi stessi che condannano prendendo la distanza con un regime che ha saputo costruire per milioni di contadini proletarizzati un arcipelago di gulag la cui descrizione non ha eguali che nell’Inferno di Dante.

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L’imperativo della dittatura del proletariato implica la visione dell’abbreviamento e dell’addolcimento dei mali del parto della società infine umana. Le rivoluzioni “marxiste”, russa e cinese, non hanno fatto che suscitare il male che esse ritenevano di aver soppresso. Questa è la mistificazione della nostra epoca. E se i partiti detti operai possono decretare “l’abbandono della dittatura del proletariato”, non è perché il proletariato non ha (ancora?) questa coscienza rivoluzionaria che la concezione materialista della storia considera come il risultato fatale del divenire-catastrofico del modo di produzione capitalista in piena espansione mondiale?

[Traduzione di Massimo Cardellini]

Marx al cinema. (a cura di L. Pellizzari) – Karl Marx; Da: “Alfabetiere del cinema”, Falsopiano, Alessandria, 2006

KARL MARX

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“I filosofi hanno semplicemente interpretato il mondo; ora si tratta di cambiarlo”. (Epitaffio sulla tomba di Karl Marx al cimitero londinese di Highgate).

Risale al gennaio 1914 il primo contatto tra il cinema e Marx. Il quotidiano francese «l’Humanité» chiede che una serie di documentari divulghi Il Capitale. Dati i tempi, non se ne fa niente. Si deve aspettare il 1918 per vedere in Russia i nomi di Marx e Engels incisi su un monumento, che Lenin inaugura ripreso da un cinegiornale. Nel dopoguerra tedesco, le opere di Marx sono popolari tra i cineasti dell’espressionismo, ma non ne rimane traccia nei loro film. Presto la Germania cede all’Urss il monopolio in questo campo.
L’incunabolo storico è Proletari di tutto il mondo, unitevi! (1919), un cortometraggio di propaganda (anzi d’agitazione, come si diceva allora) di 600 metri. Il film si apre con un ricordo della rivoluzione francese e si chiude con un omaggio ai rivoluzionari russi morti nelle galere dello zar per le loro idee marxiste. Il clou è la parte centrale. Una didascalia spiega: «La rivoluzione francese fu sconfitta perché non c’era una parola d’ordine che unisse veramente i lavoratori. Solo mezzo secolo dopo, Karl Marx lanciò questa parola…». Ed ecco un attore truccato da Marx che scrive nel suo studio «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». L’inquadratura è arricchita da una sovrimpressione con una simbolica stretta di mano. Un certo B. Dobrovolskij e un certo B. Sunkev, furono rispettivamente soggettista e regista, produttore il Comitato cinematografico di Mosca. Non si conosce invece il nome dell’attore, il primo interprete della figura di Marx sullo schermo.
Un fantasma si aggira per l'europa
Falce e martello del 1921 e Un fantasma s’aggirò per l’Europa, filmato in Crimea nel 1922 e uscito a Mosca all’inizio del 1923, sono i primi lungometraggi narrativi. Dovuti entrambi a Vladimir Gardin, già attivo nel cinema prerivoluzionario e piuttosto lontano dal trarre tutte le conseguenze dal nuovo impegno ideologico. Anzi nel secondo film si scopre che il titolo si rifà bensì alle prime parole del Manifesto del partito comunista, ma che poi il soggetto, assai balordo, adatta nel modo peggiore La maschera della morte rossa di Poe! Per fortuna l’influsso del pensiero marxiano si fa sentire negli artisti che rivoluzionano contenuti e linguaggio ponendosi all’avanguardia del cinema mondiale. Lo spirito classista che pervade i film di Vertov e di Ejzenstejn, di Pudovkin e di Dovcenko, l’elaborazione del montaggio a fini dialettici, l’alta tensione intellettuale e politica, l’audacia metaforica delle immagini mute, tutto ciò sgorga da quell’impulso lontano, finalmente espresso nella dinamica della settima arte giunta al suo diapason.La nuova Babilonia, 1929Nel 1929 La nuova Babilonia di Kozincev e Trauberg rende esplicita la dipendenza dai testi. In fase di sceneggiatura il film si chiamava All’assalto del cielo, secondo l’espressione di Marx riferita ai parigini della Comune. Poi si sceglie l’altro titolo, più adatto alla materia narrativa tratta dai romanzi di Zola e allo splendore figurativo ispirato alla pittura dell’epoca. Ma sulla pellicola è scritto che l’impianto storico è quello dei saggi di Marx sulla Comune di Parigi e sulle lotte di classe in Francia.
Nel 1930, in una conferenza alla Sorbona, “Sua Maestà” Ejzenstejn (così ribattezzato dopo La corazzata Potëmkin) annuncia per la prima e ultima volta in pubblico il suo progetto di film dal Capitale. Ci stava pensando da tre anni, accumulando appunti venuti alla luce soltanto nel 1976. In un foglietto incollato al quaderno e datato 12 ottobre 1927 si legge: «Deciso di filmare Il Capitale su sceneggiatura di Karl Marx». Il regista ha appena terminato Ottobre, il film per il decennale della rivoluzione che raccoglie più critiche che consensi. I burocrati del partito lo accusano di intellettualismo e non gli danno tregua quando vedono la prima versione del film successivo sulla politica nelle campagne, La linea generale. Lo obbligano a rimaneggiarlo con Il vecchio e il nuovo, che uscirà nel 1929. Questo è il tormentato triennio in cui il grande cineasta non cessa di meditare in segreto il più ardito dei suoi progetti. Non ne sa niente specialmente Stalin, che lo riceve in una delle sue periodiche udienze cinematografiche, lo striglia sugli ultimi due film e ne spiega gli errori col fatto che i cineasti sovietici conoscono poco e male Marx!
Ora Sergej Michajlovic non solo ha studiato Marx ma anche Freud e Joyce che in Urss sono tabù. Anzi proprio il linguaggio dell’Ulisse lo stimola per il suo Capitale. Se partendo da una scodella di minestra (come Proust da una madeleine) Joyce arriva all’intera flotta britannica, o dall’accensione di una lampada alle vertigini della metafisica, perché un cinema davvero marxista non potrebbe, facendo leva sul dettaglio di una calza di seta, inglobare un intero “tessuto” sociale? Dal concreto all’astratto, dall’oggetto comune alla generalizzazione concettuale, tale il gioco dialettico che il cinema consente e che un film dal Capitale esige.
L’impresa è difficile ma non impossibile. Più d’ogni altro Ejzenstejn ha le carte in regola per tentarla. La sua teoria del cinema “intellettuale” gli ha già suggerito sequenze illuminanti: i leoni di pietra del Potëmkin, che “ruggiscono” a sostegno della rivolta; la sfilata di statue di dèi in Ottobre, che si converte nel concetto di “divinità”; la scrematrice della Linea generale, che fa scattare insieme la meccanica contrapposta del rigetto e dell’entusiasmo, dell’arretratezza e del progresso. Trasmettere idee generali e punti di forza rivoluzionari sulla base di analisi minuziose e oggettive, che cos’altro faceva Marx nel Capitale? Convinzione ferma di Ejzenstejn è che il cinema non solo possa, ma debba trasferire in sé il processo del pensiero dialettico, recuperandone logica, emotività e passione. La scienza e la filosofia del Capitale sono lì pronte a essere incorporate, senza la mediazione del racconto tradizionale, in una serie sinfonica di associazioni e conflitti, di tesi e antitesi capaci di accendere, in equilibrio dinamico, una sintesi multiforme. Il Capitale non è un “libretto” per una melodia all’antica, lineare, schematica e gerarchica, ma sì per una musica concreta e moderna alla Schönberg, per una tessitura ramificata in elementi lontani e diversi e tuttavia in grado di confluire in una conclusione unitaria che è, come in Marx, la conquista della coscienza di classe. Il sogno del regista è però prematuro, passeranno almeno trent’anni prima che il cinema, con Godard, si decida nuovamente a rivoluzionare se stesso. Quando Ejzenstejn rientra in patria dagli Stati Uniti e dal Messico è il 1932, l’anno del decollo ufficiale del “realismo socialista”, che tra l’altro a Marx-Engels sostituisce il binomio Lenin-Stalin. Il progetto del Capitale è ormai definitivamente tramontato.
E d’altronde, chi in Urss sarebbe stato disposto ad appoggiarlo? Basta leggere un passo della storia del cinema muto sovietico del prof. Lebedev per rendersi conto della situazione: «II tema a cui Ejzenstejn mirava ad applicare praticamente la sua teoria era il Capitale di Marx: ma come intendesse realizzare questa grandiosa messa in scena rimase un segreto. Quello che Ejzenstejn scriveva sul cinema intellettuale non era molto comprensibile…».
Invece secondo il suo allievo americano Jay Leyda, il viaggio negli Stati Uniti doveva essere un’occasione privilegiata per dare concretezza al progetto. Ejzenstejn «sentiva di non poter onestamente iniziare quest’impresa senza aver visto il mondo capitalista al suo zenit». Senonché «la partenza avvenne tre mesi prima del crollo della Borsa» a Wall Street. «Se si vuol rappresentare la Borsa – si legge nel quaderno alla data 2 gennaio 1928 – non c’è bisogno della Borsa come nel Mabuse di Lang o nella Fine di San Pietroburgo di Pudovkin» (o, si potrebbe aggiungere oggi, nell’Eclisse di Antonioni). E tuttavia non tanto il crollo finanziario americano, quanto le difficoltà incontrate a Hollywood, dove tutte le sue proposte furono regolarmente respinte, contribuirono non poco a togliergli entusiasmo; senza contare ciò che gli doveva accadere dopo, con la “cattedrale incompiuta” di Que viva Mexico! che fu costretto a lasciare in frammenti, alla mercé del primo venuto. L’Ejzenstejn che rientra a Mosca è un altro uomo, profondamente sfiduciato per gli ostacoli che il mondo intero sembra frapporre alla sua creatività. Oggetto di contestazione generale al congresso dei cineasti del 1935 che gli chiede non un’autocritica, ma un atto di contrizione, non gli rimane che l’insegnamento universitario in cui sfogare la nostalgia di Marx come pensatore e come figura umana. Così nei suoi corsi ricorda sovente, dell’autore del Capitale, il disordine-ordinato (guai a chi si azzardava a mettergli a posto libri e fogli sparsi dovunque), le fiabe narrate alle figlie passeggiando per infinite miglia («raccontaci ancora un miglio!»), il gioco di parole del Diciotto Brumaio (dove le premier vol de l’aigle non significa solo “volo”, ma anche “furto”), ecc.
Nel 1930 a Parigi, mentre l’ospite sovietico parla alla Sorbona, l’ospite spagnolo Bunuel fa esplodere in un cineclub il capolavoro surrealista L’âge d’or. Lo voleva intitolare La palude ghiacciata del calcolo egoista, con un concetto del Manifesto. Intanto in America folleggiano altri anarchici, che a modo loro sparano bordate comiche sul capitalismo. Sono i fratelli Marx, e non sono marxisti. Ma lo stesso Karl Marx aveva assicurato di non esserlo. Nel Sessantotto francese spiccherà l’anonima scritta «Io sono marxista di tendenza Groucho», e alcuni studiosi dei fratelli Marx individueranno strane convergenze con il giovane Marx. E se Brecht, in tutta la sua drammaturgia, non fa che approfondire il proprio marxismo, nel 1983 lo svizzero Dürrenmatt, nella commedia satirica Achterloo, di Marx ne metterà in scena cinque, ciascuno in rappresentanza di un marxismo diverso.
Ma torniamo al percorso cronologico. Nel 1939 il documentario Forty millions people, della pregiata scuola britannica, esordisce con una lunga citazione da Marx: però non la rispetta, dato che la struttura economica della società non vi è per nulla contestata. Nello stesso anno, a Leningrado, gli autori della Nuova Babilonia, freschi del trionfo della loro trilogia sull’operaio Maksim che è uno dei vertici del “realismo socialista”, si accingono a una biografia di Marx. La sceneggiatura li tiene impegnati un anno intero, ma nella copia illustre si insinuano le prime divergenze che alla fine della guerra li porteranno alla separazione. L’impresa viene archiviata, Marx è troppo impervio anche per Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg.
Invece i nazisti ci danno dentro senza alcuna remora. L’ebreo eterno del dottor Fritz Hippler – questo Himmler del cinema – è nel 1940, con licenza parlando, un “documentario” di un’ora, senza dubbio l’ora più nera che la propaganda filmica abbia mai partorito. La sua ideologia è esattamente quella che ha dato origine ai campi di sterminio; e alla testa di tutte le infamie imputate alla razza ebraica, chi può esserci se non Karl Marx?
Malaparte - Das kapital
Nel secondo dopoguerra spetta al teatro il compito di portare alla ribalta il personaggio Marx. Se lo assume, nei tre atti di Das Kapital scritti in francese e rappresentati per la prima volta al Théâtre de Paris il 29 gennaio 1949 (poi ripresi a Parigi e a Milano nel corso del 1951), Curzio Malaparte. Reduce dal successo di pubblico conseguito l’anno precedente con l’atto unico Du côté de chez Proust, lo scrittore italiano allarga le proprie ambizioni: lo spettacolo è accolto con severità dalla critica parigina, ma attrae la gente e risulta il più discusso della stagione. L’azione si svolge a Londra, in un sordido alloggio nel cuore di Soho, all’indomani del colpo di Stato di Luigi Bonaparte a Parigi (2 dicembre 1851). L’alloggio è quello della famiglia Marx, e tutto si concentra nel pomeriggio del giorno dopo e nella mattinata successiva. Nelle povere stanze ingombre di libri e di carte aleggia l’impegno immenso del Capitale. Marx non riesce a prendere sul serio il golpe, e tanto meno il proposito annunciatogli dal principe Orsini di voler attentare all’usurpatore. Il problema che incalza è la sopravvivenza quotidiana: la moglie è esausta e il bimbo gravemente malato. «La miseria costa cara a Londra», dice Jenny, che quasi non ricorda d’esser stata baronessa, in una delle battute di cui l’autore infiora il testo. Le collaborazioni giornalistiche con gli americani, così mal pagate, non permettono a Marx di risollevare le condizioni domestiche. Malaparte ha gran fiuto per il suo pubblico come ne avrà per i lettori dei suoi romanzi. Le frasi che strappano l’applauso sono: «Le rivoluzioni buttano tutto all’aria e spetta a noi, povere donne, rimettere ordine a casa», oppure: «Soltanto gli americani potrebbero fare una rivoluzione: sono i soli ad averne i mezzi». Il dramma sociale irrompe invece in una scena che punta alla commozione: la testimonianza di tre bambine che lavorano nelle miniere e che i padri, per paura di essere licenziati, non hanno potuto difendere dalle brutalità dei sorveglianti. Infine il problema di Dio affiora attraverso l’inquietante e misteriosa presenza di un certo Godson (impersonato da Alain Cuny), simbolico contraltare. all’ateismo di un uomo costretto a piangere la morte anche del suo secondo figlio. Pierre Dux è Marx e insieme regista dello spettacolo.

Год, как жизнь

Un’impostazione analoga a quella del dramma di Malaparte si ritrova nella prima biografia cinematografica realizzata in Unione Sovietica nel 1966. Affidato a Grigorij Rosal, accademico maestro del genere (si era occupato di Pavlov, Musorgskij, Rimskij Korsakov), il film parte come Karl Marx ma poi, data la scelta di un periodo storico ristretto (1848-1849), finisce per chiamarsi Un anno che vale una vita. È la stagione degli eventi rivoluzionari in Europa: Marx e Engels (presente di scorcio anche in Das Kapital) saltano da Bruxelles a Parigi, da Colonia a Vienna, ovunque gli operai si sollevano. Mentre nel testo di Malaparte il ruolo di Jenny è sostanzialmente quello d’una vittima se non d’una martire, nella sceneggiatura scritta con l’anziano regista da una donna, Galina Serebrjakova, la figura femminile acquista il risalto d’una combattente. Così accade quando Marx riceve a Bruxelles l’ordine di espulsione entro ventiquattrore, e Jenny si batte fieramente contro il provvedimento illegale, sfidando le autorità del regno anche nella prigione dove viene gettata, lei baronessa von Westphalen, in mezzo a ladre e a prostitute. Ma la trattazione, per quanto nobile e decorosa, non esce mai dalla convenzionalità illustrativa, e la vita di Marx (impersonato da Igor Kvasa, mentre Jenny è Rufina Nifontova) aspetta ancora il suo vero biografo cinematografico.
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Negli anni Sessanta si verificano altri incontri, sia pure marginali. In Cina la “rivoluzione culturale” punta sui balletti ideologici di massa, come L’Oriente è rosso (1965). Nel secondo quadro coreografico, ai colori oscuri che raffigurano il popolo sotto il giogo del capitalismo, segue un’alba dal cielo rosso, nel cui mezzo è appeso un medaglione col duplice ritratto di Lenin e di Marx. Nel film inglese di Karel Reisz Morgan matto da legare (1966) un brano da antologia è quello del figlio trotzkista e della madre stalinista che portano fiori alla tomba di Marx nel cimitero londinese di Highgate. Era un luogo amato dal padre comunista e il giovanotto, un intellettuale hippie alquanto sbalestrato, rilegge volentieri alla madre vedova (che rifiuta di farsi destalinizzare e si mantiene orgogliosamente lavorando in una tavola calda) il famoso epitaffio: «I filosofi hanno sempre cercato di spiegare il mondo: ora si tratta di cambiarlo». Totalmente “alienato” e proprio in senso marxiano, Morgan ondeggia tra la moglie ricca, la voglia di spaccar tutto e il richiamo della natura che lo rende devoto a Tarzan e a King Kong. Di fronte al faccione marmoreo del monumento, gonfia il petto facendo il gorilla. Non è irriverenza, bensì un omaggio del tutto sincero in quanto espresso con il linguaggio meno convenzionale che si possa immaginare. Euforico, il novello King Kong si prende la mamma sulle spalle, urlando a guisa di Tarzan: «viva la rivoluzione!». A differenza che nel testo televisivo di David Mercer (poi sceneggiatore di altri film importanti come Family life di Loach e Providence di Resnais), Reisz fa finire il film in manicomio, dove il ribelle, apparentemente pacificato, accudisce al giardino. Ma l’ultima inquadratura, ripresa dall’alto, rivela un’enorme aiuola fiorita, a forma di falce e martello.
Nel 1967 La Cinese apre il periodo più radicalmente “politico” del cinema di Jean-Luc Godard, dove Marx ricorre con crescente frequenza: il nome su fondo rosso, una caricatura d’epoca, letture secondo il metodo Althusser in polemica col partito comunista francese, ecc. Ma bisogna dire che in tutti questi anni di contestazione e di nouvelles vagues il fenomeno si estende, e la ricerca di eventuali fonti marxiane dovrebbe spaziare dal Brasile di Rocha al Giappone di Oshima, dalla Germania di Straub alla Grecia di Angelopoulos. Quali limiti estremi si possono citare due film, entrambi di registi jugoslavi e più precisamente serbi. Prime opere di Zelimir AEilnik, che nel ’69 inaugura il festival di Chicago dopo aver vinto l’Orso d’oro a Berlino, scrive nei titoli di testa: «dialoghi aggiunti di Marx e Engels». Di pugno suo l’autore ci tiene a osservare: «Marx sarebbe sorpreso se oggi andasse in Urss, vi troverebbe il più grande paese capitalista del mondo». Nel ’74 Sweet Movie è girato invece da Dusan Makavejev in esilio: se l’altro era un film giovanile (in effetti un’opera prima) dilettantesco, provocatorio e allarmante, questo “dolcefilm” di un maestro già riconosciuto è certamente amarissimo, irridente e disperato. Non si tratta più di chiamare a una rivoluzione vera, ma di constatare le rovine di una rivoluzione fallita. L’arca di Karl Marx accoglie i sopravvissuti del socialismo; il suo testone troneggia sulla prua di un battello carico di zucchero come di cadaveri. La metafora vale per il presente e anche per il futuro; mentre è soltanto evocando le rivoluzioni sia pure domate del passato – come quella contadina del 1640 nel film inglese Winstanley (1975) di Kevin Brownlow e Andrew Mollo – che il cinema può ancora robustamente appigliarsi a un passaggio del Capitale: «Così la popolazione agricola, strappata a forza dalla terra, cacciata dalle sue case, costretta al vagabondaggio e poi anche fustigata a sangue, segnata col marchio e perseguitata da leggi terribili e grottesche, fu piegata ad accettare la disciplina imposta dal sistema del salario».
Il 3 giugno 1977, poco dopo mezzogiorno, muore a Roma Roberto Rossellini lasciando il trattamento di un film su Marx per il quale aveva firmato il contratto pochi giorni prima a Cannes, dove presiedendo la giuria del festival ha fatto premiare Padre padrone dei fratelli Taviani. Due giorni dopo la morte il quotidiano «Paese Sera» pubblica col titolo Il mio Marx la premessa del regista a quel trattamento. Paolo e Vittorio Taviani potrebbero essere i continuatori ideali del progetto ma, per quanto commossi dell’offerta, non se la sentono di accettare l’eredità di un’opera che solo Rossellini avrebbe affrontato con le due molle indispensabili dello “stupore” e dell’audacia”. Sarebbe stata una biografia a colori di due ore e mezza, da girarsi a Parigi e dintorni, in Germania e in Gran Bretagna nel corso dell’estate e da presentare alla fine dell’anno. Titolo scelto Lavorare per l’umanità, poiché «questo era l’ideale di Karl Marx fin da ragazzo». Il film avrebbe raccontato la sua vita dal 1835 al 1848, dalla partenza da Treviri alla elaborazione del Manifesto. In seguito uno o più programmi televisivi si sarebbero occupati del metodo dialettico e del Il Capitale. Nella sua galleria “didattica” di protagonisti della storia e del pensiero, Rossellini ha già allineato Socrate e Agostino d’Ippona, Luigi XIV e la sua presa del potere, Cosimo de’ Medici e la sua età, Pascal e Cartesio. Approda inevitabilmente a Marx, «passaggio obbligato» che «sarebbe disonesto evitare». Ci pensava dagli Atti degli Apostolitelevisivi (1969) e l’idea si concretizza appena ha terminato Il Messia per il cinema (1975). Vuol chiedersi perché il marxismo ha diviso il mondo in due, e la risposta è duplice: perché del mondo ha dato una nuova visione, come quella di Galileo che pure suscitò scandalo ai tempi suoi; e perché in fondo Marx, che non è stato mai un dogmatico, non è conosciuto obiettivamente né dai suoi seguaci né dai suoi avversari; e l’ignoranza, diceva proprio lui, non ha mai giovato a nessuno. Al regista non interessa l’eventuale antitesi con Cristo bensì, al contrario, il parallelismo delle due idee, anzi delle due etiche, e lo sviluppo in senso laico dei valori cristiani. Rossellini sogna evidentemente un mondo meno lacerato, e per contribuire a ottenerlo si dichiara disposto a impegnarsi sul marxismo come si è impegnato sul cristianesimo. Anche perché, nella sua pedagogia, la vera molla segreta è l’educazione di se stesso. E sente che Marx può dargli moltissimo. Dopo Ejzenstejn, un altro grande del cinema voleva misurarsi con lui e non ci è riuscito. È una duplice perdita per la cultura di tutti.
Il contributo della televisione italiana rimane così limitato a una Serata Marx curata (con Pierina Adami) e presentata da Beniamino Placido per la regia di Paolo Gazzarra; andata in onda su Rai Uno il 1° marzo 1983. Introdotta da Cathy Berberian che intona l’Internazionale e chiusa da Milva su motivi brechtiani, la consueta sfilata di esperti discute i vari aspetti (storici, filosofici, economici e artistici) del pensiero e del metodo di Marx, il cui busto incombe nello studio. Un programma più ampio, in sei puntate di 40 minuti, allestito dalla BBC britannica, viene acquistato lo stesso anno da Canale 5, doppiato con l’aggiunta di un capitolo sul comunismo italiano (anzi emiliano), ma poi rimane inutilizzato negli archivi dell’emittente privata. Un presentatore sensatamente laburista ci guida attraverso stampe d’epoca e inserti documentari in un fluviale excursus nella biografia di Marx e nella sua fortuna sul socialismo (ma anche sul capitalismo) del secolo. Con un certo compiacimento si insiste sulle origini e tendenze borghesi del personaggio; e per esempio, in contrasto con Malaparte, si sostiene che i proventi delle sue collaborazioni americane erano dieci volte superiori alla paga di un operaio e gli consentivano di vivere senza ristrettezze. Una parte cospicua del filmato è riservata all’influsso sugli intellettuali britannici tra le due guerre, e non manca la citazione della sequenza al cimitero di Morgan matto da legare.
Quest’ultimo motivo resiste ancora in un film del 1988, Belle speranze di Mike Leigh. Come altri tenaci eredi del free cinema, il regista se la prende con l’establishment thatcheriano, ritraendone gli effetti in un quartiere piccolo-borghese di Londra e nel suo immiserimento materiale e morale. Scrive la Storia del cinema inglese di Emanuela Martini pubblicata nel novembre 1991: «Solo la tomba di Marx a Highgate ha un significato rassicurante e noto; Peccato che nessuno vada più a portargli fiori».

[A cura di Massimo Cardellini]

Marxismo libertario. Yvon Bourdet – Karl Marx e l’autogestione – da: “Autogestion et socialisme”, n°15, marzo 1971.

Karl Marx e l’autogestione

Yvon Bourdet

Prima parte di un articolo uscito su “Autogestion et socialisme” (n° 15, marzo 1971), e ripreso come paragrafo in Pour l’autogestion, (Anthropos, 1974).

La parola autogestione è di uso corrente che da una decina di anni e sembrerebbe anacronistica associarla al nome di Marx [1]. Tuttavia – per coloro che lo ignorassero non vadano ad immaginare che stiamo per dedicarci a non so quale esercizio di scolastica di accostamento artificiale del genere: “Cosa ne penserebbe oggi Platone della televisione?” – precisiamo subito che se Marx non impiega la parola autogestione si interessa (lo proveremo con numerosi testi) a ciò che la parola designa e che si chiamavano allora “le cooperative di produzione”.
Certo, il fatto che questo termine “autogestione” non sia comparso che recentemente non manca di significato. Esso testimonia, sicuramente da una parte, l’ignoranza del passato e possiamo capire che alcuni anarchici, fourrieristi o proudhoniani, ad esempio, si irritino per il fatto che molti “consiliaristi” o “autogestionari” credono di aver trovato qualcosa di nuovo con una nuova parola. Non resta tuttavia meno, in compenso che il bisogno di una nuova terminologia segna almeno l’esigenza di una delimitazione con le dottrine esistenti. Anche se, ora, la maggior parte degli anarchici si mostrano interessati all’azione di massa e dei mezzi economici di transizione per molti, a torto o a ragione, il termine anarchismo evoca soprattutto la volontà di distruggere i poteri esistenti piuttosto che l’esigenza di costruire, a livello nazionale o internazionale, un’organizzazione di nuovo tipo. Sul piano politico, la loro azione appare soprattutto negativa e i loro tentativi di realizzazioni positive sembrano limitarsi alla concentrazione libera di piccoli gruppi che cercano di realizzare in modo marginale, “un aumento immediato del godimento”. Non si tratta qui, tuttavia, sempre, della ricerca di una salvezza egoista; essi credono di essere il fermento o i “detonatori” della rivoluzione universale; ma la loro procedura, fosse anche “esemplare”, resta l’attività di alcuni pionieri.
Il termine autogestione, al contrario, sembra designare un’organizzazione più ampia, più tecnica e che, in tutti i casi, è legata più alla produzione che al godimento. Così, la rivendicazione dell’autogestione sembra più vicina al progetto dei marxisti benché tra di loro si scavi, agli occhi di quasi tutti, un abisso quasi infinito, perché di solito con “autogestione” si intende la concertazione delle autonomie, e con “marxismo” il sin troppo famoso centralismo democratico di Lenin che le sue anomalie, da più di cinquant’anni, non pongono in alcun modo in questione poiché tutti i vizi del sistema sono infaticabilmente spiegati con i pretesi difetti della personalità dei dirigenti. Anche coloro che accettano di dissociare il marxismo dallo stalinismo, dal leninismo o dal trotskysmo non insistono non di meno a ritenere che gli appelli che Marx fa ai “violenti parti della storia” e alla “dittatura del proletariato” sono incomprensibili con i metodi e gli scopi dei sostenitori dell’autogestione.
Per vederci chiaro, è dunque necessario liberare i testi di Marx dallo spesso strato accumulato non tanto dalle glosse dei teorici quanto dalle “ricadute” – per mezzo secolo – della prassi dei partiti comunisti che pretendono di incarnare la teoria di Marx. Quanto ci riproponiamo è dunque, come per altri, una rilettura, ma non per proiettare, tra le righe, ciò che Marx non ha scritto. È al contrario, per dare o ridare a vedere i testi dimenticati, trascurati, respinti o semplicemente mai letti.

I. I mezzi della rivoluzione secondo Marx

L’opera di Marx è una critica della società capitalista e la sua vita una lotta per affrettare l’ora dell’espropriazione degli espropriatori. Tuttavia, per molti il passaggio dalla teoria all’azione politica costituisce un problema. Nel capitolo XXII del libro primo di Il Capitale, si può leggere: “La produzione capitalista genera la sua propria negazione con la fatalità che presiede alle metamorfosi della natura” [2]. Con ciò, d’altronde non faceva che riprendere la conclusione della prima parte di Il manifesto del partito comunista che dava per “inevitabile l’eliminazione della borghesia e il trionfo del proletariato” [3]. Da quel momento il “Che fare?” sembra sprovvisto di senso come è stato spesso notato: “i marxisti che annunciano l’avvento ineluttabile del regime postcapitalista fanno pensare a un partito che lotterebbe per provocare un eclissi di luna” [4]. Allo stesso modo Lenin metteva in bocca ai populisti degli anni 1894-1895 questa riflessione: “Se i marxisti considerano il capitalismo in Russia come un fenomeno inevitabile (…), Si deve far loro aprire un negozio di alcolici…” [5]. Questa “obiezione” non era sfuggita a Marx che l’aveva egli stesso introdotta ad esempio di bufala [6] in una bozza di articolo su Il Capitale che Engels doveva incaricarsi di far pubblicare, sotto un nome fittizio, in un giornale diretto da Karl Mayer: “Quando egli (Marx) dimostra che l’attuale società (…) porta in sé i germi di una nuova forma sociale superiore, non fa che mostrare sul piano sociale lo stesso processo di trasformazione che Darwin ha stabilito nelle scienze della natura (…). L’autore ha, con lo stesso colpo, (…) forse malgrado lui (sottolineato da Marx) suonato la campana a morto di tutto il socialismo professionale…” [7]. La “confutazione” di questa “obiezione” si trovava già nella prefazione di Il Capitale quando Marx spiegava che una società che è giunta “a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (sottolineato da Marx) (…) non può né superare con un salto né abolire con dei decreti le fasi del suo sviluppo naturale, ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i dolori delle loro doglie” [8]. Troviamo qui il celebre tema della violenza concepita come la “levatrice di ogni vecchia società al lavoro” [9], o, come la vulgata della violenza levatrice della storia. Di fatto, precisa Marx, “la forza è un agente economico”. Equivale dunque ad appiattire “il marxismo” ridurlo sia a un’azione politica che ignorasse le fasi dello sviluppo naturale, sia all’economicismo beato del laisser-faire. Certo la forza non può “far girare alla rovescia la ruota della storia” [10], ma i comunisti non dichiarano meno “apertamente che non possono raggiungere i loro obiettivi che distruggendo con la violenza il vecchio ordine sociale” [11]. Ritroviamo così la famosa e controversa questione della “dittatura del proletariato”. Sappiamo che Kautsky, per criticare i bolscevichi, affermò che Marx non aveva mai, per così dire, preconizzato una tale dittatura, che si trattava qui di una battuta, scritta, “di sfuggita” in una lettera [12].
Di fatto, Marx ha parlato diverse volte del ruolo e della necessità di una tale dittatura [13], ma il semplice esame critico e contabilità dei testi non serve a gran cosa se non ci si intende sul senso, in Marx, della parola “dittatura”. In una nota del 20 ottobre 1920, Lenin caratterizza la dittatura come un potere che non riconosce “nessun altro potere, nessuna legge, nessuna norma, da qualunque parte essi provengano (…) il potere illimitato, extralegale, che si appoggia sulla forza, nel senso più stretto della parola, è questa la dittatura” [14]. Ed è una bella dittatura che deve esercitare il proletariato, che esso sia minoritario o maggioritario nella nazione. Max Adler, al contrario distingue accuratamente tra “dittatura maggioritaria” e “dittatura minoritaria” [15]: quando una minoranza opprime una maggioranza, si è in presenza del dispotismo che Marx ha sempre combattuto, in tutte le sue forme; se Marx preconizza la dittatura del proletariato è perché essa non può essere altra cosa che la forza della maggioranza: “Tutti i movimenti del passato sono stati opera delle minoranze o sono andati a vantaggio delle minoranze. Il movimento proletario è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza nell’interesse dell’immensa maggioranza” [16]. Per Marx, la rivoluzione proletaria sarà l’ultima possibile; infatti, quando il proletariato, classe universale, avrà preso il potere, non vi saranno presto più nessuna classe e di conseguenza nessuna lotta tra di esse: “La vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi conflitti, lascia il posto a un’associazione in cui la libera espressione di ognuno è la condizione della libera espressione di tutti” [17]. Facciamo notare di sfuggita che Marx dà così la definizione esatta di una società autogestita. In quanto alle vie e mezzi per il passaggio a questo dominio immensamente maggioritario del proletariato, essi saranno vari a secondo delle circostanze; la violenza, come abbiamo visto, sarà spesso necessaria ma non sempre; nel suo discorso dell’8 settembre 1872 agli operai di Amsterdam, Marx dichiarò che “l’America e l’Inghilterra (potevano) giungere al socialismo attraverso mezzi pacifici” [18]. Nella prefazione all’edizione inglese di Il capitale, nel 1886, Engels assicura che non fu questa una dichiarazione di circostanza, e che Marx aveva espresso il suo vero pensiero. D’altronde, Engels scrisse egli stesso, un po’ più tardi nel 1991, che “si può concepire che la vecchia società potrà evolvere pacificamente verso la nuova nei paesi in cui la rappresentazione popolare concentra in essa tutti i poteri” e anche più esplicitamente, che “la repubblica democratica (…) è la forma specifica della dittatura del proletariato” [19]). Precisando il suo pensiero, nella Introduzione, scritta nel 1895, a Le lotte di classe in Francia, Engels affermava che l’uso illegale della forza armata non era più un buon mezzo per il proletariato di impadronirsi del potere e che anche “la borghesia e il governo” erano un po’ giunti “ad aver più paura dell’azione legale che dell’azione illegale del partito operaio” [20].
Dicendo ciò, Engels aveva indubbiamente dato troppa importanza alla celebre dichiarazione di Odilon Barrot: “La legalità ci uccide!” e all’esperimento della Comune di Parigi che era terminata con una catastrofica carneficina del proletariato. Il suo punto di vista fu in seguito generalmente abbastanza contestato dai marxisti [21].
Sia quel che sia, resta dalla lettura di tutti questi testi che Marx e Engels non hanno sempre avuto la stessa teoria per quel che riguarda i mezzi di passaggio al socialismo e meglio ancora che essi avevano sostenuto esplicitamente che ci si doveva adattare alle circostanze.
Ciò non vuol dir affatto che basta secondo loro aspettare, come abbiamo già detto e come la polemica di Marx contro Bakunin l’ha dimostrato. Non si tratta qui di trattare a fondo la comparazione tra marxismo e anarchismo [22], ma soltanto nella prospettiva della presente messa a punto. Ciò che ci interessa, infatti, è di precisare come Marx concepisce la società, una volta spezzata l’oppressione capitalista, e con quali mezzi si può accelerare questa liberazione. Ora, le note scritte nel 1874 da Marx, in margine al libro di Bakunin Stato e Anarchia, sono, a questo riguardo, molto chiarificatrici [23]. A partire da queste note, si può restituire il seguente dialogo (senza cambiare una parola, naturalmente, al testo dell’uno e dell’altro):

Bakunin. – “I Tedeschi sono circa 40 milioni. Tutti i 40 milioni, ad esempio, saranno membri del governo?”.

Marx. – “Certainly! Perché la cosa inizia con il self-governement della comune”.

Bakunin. – “Allora, non vi sarà nessun governo, nessun Stato, ma, se vi è uno Stato, vi saranno dei governi e degli schiavi (…). Questo dilemma nella teoria marxista si risolve facilmente. Con governo del popolo essi (i marxisti – no! interrompe Marx, è Bakunin che lo pretende) intendono il governo del popolo con l’aiuto di un piccolo numero di dirigenti eletti dal popolo”.

Marx. – “Asino! Si tratta di sproloquio democratico, di chiacchiera politica! L‘elezione è una forma politica (…) che dipende (…) dai rapporti economici tra gli elettori; non appena le funzioni hanno cessato di essere politiche: 1. – non esiste più funzione governativa; 2 – la ripartizione delle funzioni generali è diventata una cosa di mestiere e non conferisce nessun potere; 3 – l’elezione non ha nulla del carattere politico attuale.”.

Bakunin. – “Il suffragio universale di tutto il popolo. …”.

Marx. – “Tutto il popolo nel senso attuale della parola è una pura chimera”.

Bakunin. – “La nozione di «rappresentanti del popolo» costituisce «una menzogna sotto la quale si nasconde il dispotismo della minoranza governate (sottolineato da Bakunin) tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo»”.

Marx. – “Sotto la proprietà collettiva, la sedicente volontà del popolo fa posto alla volontà reale del cooperativo”.

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest’ultimo ammette molto bene che l’organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, – attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo”.

D’altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l’autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un’inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (…) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla…, che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest’ultimo ammette molto bene che l’organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, – attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo”.

D’altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l’autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un’inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (…) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla…, che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Va da sé che Bakunin, a sua volta, griderebbe allo scandalo davanti a questa deduzione di Marx [24].

Sono queste le leggi della polemica. Ciò che ci interessa soltanto qui, è la contraddizione evidenziata da Bakunin tra lo scopo ultimo di Marx (società omogenea senza classi) e i mezzi spuri che egli crede indispensabili utilizzare per distruggere la macchina oppressiva della borghesia. Le colombe non possono né convincere né vincere gli avvoltoi con la violenza degli avvoltoi. Colui che conserva le mani pulite non ha mani. Marx si pone così all’opposto dell’assioma evangelico: i mansueti erediteranno la terra che è stato ripreso dagli attuali sostenitori della non-violenza, coloro che non hanno che fiori (amore e pace) come armi o che, radunati intorno al Pentagono, speravano farlo espellere dalla terra con i loro pensieri associati nella fede che solleva le montagne. Sono questi, si dirà, dei sognatori gentili, ma resta il fatto che Marx non era nemmeno lui, soddisfatto dall’obbligo politico di lottare contro i borghesi con delle armi simili alle loro. È per questo, d’altronde, che egli non raccomandava esattamente una tale imitazione. Non voleva che il suo “partito” fosse un partito come gli altri, né la sua azione un insieme di piccole astuzie architettate nel segreto degli apparati “direttivi”. I lavoratori dovevano, secondo Marx, autogestire le loro lotte.
È un tema costante che riaffiora, ad intervalli, nei suoi scritti e nei suoi atti. Si giudichi attraverso questi brevi richiami: nel 1848, “il movimento proletario è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza” [25]; nel 1864, “l’emancipazione della classe operaia deve essere opera degli stessi lavoratori” [26]; nel 1866 “l’opera dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori è di generalizzare e di unificare i movimenti spontanei della classe operaia, ma non di prescrivere loro o imporre loro un sistema dottrinario qualunque” [27]; nel 1868 “l’Associazione Internazionale dei Lavoratori (…) non è figlia né di una setta né di una teoria. Essa è il prodotto spontaneo della classe proletaria [28]; nel 1871, dopo la Comune, “sarebbe disconoscere del tutto la natura dell’Internazionale parlare di istruzioni segrete provenienti da Londra (…) di qualche centro pontificale di dominio e d’intrigo (…). Di fatto, l’Internazionale non è affatto il governo della classe operaia, è un legame, non è un potere” [29]. Il 17 settembre 1879: “Abbiamo formulato, durante la creazione dell’Internazionale, la massima della nostra lotta: l’emancipazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa. Non possiamo, di conseguenza, far rotta comune con della gente che dichiarano apertamente che gli operai sono troppo incolti per liberarsi da sé, e che devono essere liberati dall’alto, e cioè da grandi e piccolo borghesi filantropi” [30].
Marx non ha mai voluto essere alla testa di un partito settario che non rappresentasse che una parte della classe operaia; sin dal 1848, precisava: “I comunisti non formano un partito distinto di fronte agli altri partiti operai. Non hanno interessi distinti da quelli del proletariato nel suo insieme” [31]. In una lettera a Freiligraph, Marx aggiunge: “con il termine partito, intendo partito nel grande senso storico”, e cioè la causa dell’insieme del proletariato. Non si tratta di pavoneggiarsi sui podi o durante i convegni, ma di comprendere, di far comprendere, e, con questo, sollecitare il movimento storico della società di classe verso il suo superamento. I pettegolezzi e i piccoli intrighi della vita politica dei partiti sono sempre risultati sgraditi da Marx; come scriveva a Engels, l’11 febbraio 1851, era irritato di essere portato ad avallare indirettamente delle prese di posizione, a sentirsi legato da delle dichiarazioni ‘di somari’ e a subirne il ridicolo. Due giorni più tardi, il 13 febbraio 1851, Engels risponde: “Abbiamo l’occasione di mostrare che non abbiamo bisogno né di popolarità né del ‘sostegno’ di qualunque partito (…). Come potrebbero delle persone come noi, che fuggono come la peste dalle situazioni ufficiali, essere di un partito? Cosa importa a noi di un partito, noi che sputiamo sulla popolarità?”. Non si vuole spesso vedere, in queste lettere, che il segno di un’irritazione passeggera. La prova si dice, che non si tratta che di accessi di cattivo umore, è che Marx ha aderito in seguito, nel 1864, all’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ecco appunto ciò che ne pensava Marx, in una lettera a Engels, del 26 dicembre 1865: “In quanto all’Associazione Internazionale, essa mi pesa come un incubo e sarei contento di potermene sbarazzare”. Marx non assiste al congresso di Bruxelles del 1868, pensando di essere più utile alla classe operaia continuando la sua opera teorica. Applicava così la consegna data da Engels, diciasette anni prima: “l’essenziale è di farci stampare” [32]. Non verrà in mente a nessuno che, così dicendo, Marx o Engels miravano a una gloria letteraria qualunque. Ma il movimento autonomo dell’emancipazione proletaria è, allo stesso tempo, una prtesa di coscienza e quest’ultima diventa presto un fattore complementare del movimento di emancipazione. Certo, “l’arma della critica non potrebbe sostituire la critica delle armi, la forza materiale deve essere rovesciata dalla forza materiale. Ma la teoria si trasforma, anch’essa, in forza materiale non appena afferra le masse” [33]. È dunque sui luoghi di lavoro stessi che gli operai devono capire concretamente le modalità di sfruttamento della loro forza lavoro da parte della classe dominante. Il ruolo del teorico è di rendere visibile quest’invisibile quotidiano così come Galilei ha spiegato il movimento apparente del sole, scardinando per sempre al contempo la mitologia religiosa precedente. Chi non capisce, da allora, che per Marx, militare non è giocare allo stratega negli stati maggiori del comitato federale o del comitato centrale, con la pretesa di comandare, dall’esterno, la manovra. Sono i lavoratori i soli capaci non soltanto di organizzare, autogestire le loro lotte, ma anche d’instaurare, all’interno stesso della vecchia società, le nuove strutture di una cooperazione egualitaria e fraterna che non ha nulla a che fare con capi e dirigenti. Nel suo Speech on the Anniversary of the People’s Paper, il 19 aprile 1856, Marx metteva in risalto che le rivoluzioni risultano dia da cause economiche e scoperte scientifiche e tecniche che dall’azione dei cosiddetti “agitatori”; diceva, infatti: “Vapore, elettricità e macchine tessili avevano un carattere altrettanto pericoloso quanto gli stessi cittadini Barbès, Raspail e Blanqui” [34].
Quindici anni più tardi, a Kugelmann che contestava, in una lettera del 15 aprile 1871, lopportunità dell’insurrezione della Comune perché la sconfitta priverebbe “di nuovo gli operai dei loro capi”, Marx rispose, il 17 dello stesso mese: “La smobilitazione della classe operaia sarebbe stata una sciagura ben più grande della perdita di un qualunque numero di ‘capi’”. (le virgolette sulla parola capo sono di Marx). Così non si può insistere ulteriormente sul fatto che Marx non lo faccia sulle capacità di auto-emancipazione della classe operaia che può, non soltanto autogestire la sua lotta, ma autogestire la produzione, il che è inoltre il mezzo più radicale di sopprimere l’alienazione e lo sfruttamento. Così, in questa dialettica, la realizzazione dello scopo finale non si separa dalla creazione di mezzi specifici per raggiungerlo. L’autogestione delle lotte è una condizione dell’autogestione della produzione e viceversa. Certo questa conquista dell’autonomia attiva non può essere che progressiva e spuria come Marx spiegava a Bakunin, ma il compito del rivoluzionario è di chiarire quest’impresa, di “aderire” e di “aderirvi”. Non appena l’organizzazione ha pretesa liberatrice diventa una specie di istituzione esterna, che funziona in quanto strumento di lotta per gli operai invece di essere una bozza di nuova organizzazione della produzione stessa, Marx se ne disinteressa e soffre di farne parte. Non vi è nemmeno da distinguere tra autogestione delle lotte e autogestione della produzione perché queste due forme di emancipazione si condizionano reciprocamente.
Ma si obietterà, forse, che queste non sono che deduzioni a partire dal “montaggio abile” di alcuni testi. Si deve dunque vedere, più precisamente ciò che Marx dice egli stesso dal fondo del dibattito poiché egli lo ha affrontato in un gran numero di testi che le interpretazioni dei diversi apparati dei partiti politici marxisti hanno lasciato nell’ombra.

NOTE

[1] Eppure, Pero Damjanovic ha già pubblicato sulla rivista Praxis (1962, 1, pp. 39-54) un articolo intitolato: “Le concezioni di Marx sull’autogestione sociale”. L’autore sostiene che “L’autogestione è immanente alla classe operaia me al suo movimento di liberazione”. Si riferisce a Marx che gli sembra – dai suoi scritti di giovinezza in cui denuncia l’individuo astratto livellato dallo Stato – aver sempre pensato che soltanto le associazioni autonome dei produttori potranno realizzare la vera libertà. Sfortunatamente, nel suo articolo, Pero Damjanovic rimane allusivo e non dà dei riferimenti precisi dei testi sui quali dice di appoggiarsi. Ci sembra anche che egli abbia lasciato da parte degli aspetti importanti.

[2] Editions Sociales, Libero I, tomo III, p. 205. Vedere anche 1.1, p.19.

[3] Bibliothèque de la Pléiade, Économie, I, p. 173.

[4] Boukharine, L’Économie mondiale et l’impérialisme, p. 131. Va da sé che Bucharin presenta questo “argomento” come un sofisma.

[5] L’impérialisme, stade suprême du capitalisme, œuvres complètes, t. XXII, p. 291.

[6] “Per quel che riguarda questa chiacchiera” sveva, sarebbe un colpo divertente ingannare l’amico di Vogt, questo Mayer svevo” (Lettera di Marx a Engels del 7 dicembre 1867).

[7] Ibid.

[8] Pléiade, t. I, p. 550.

[9] Ibid., (cap. XXXI) p. 1213.

[10] Manifeste communiste. Pléiade, p. 171. (…) 204-205. Per questo fatto le forze, dette reazionarie, non possono svolgere chje un ruolo di freno.

[11] Ultimo paragrafo di Il Manifesto comunista. Vedere anche la lettera di Engels a Marx del 23 ottobre 1846.

(12) Karl Kautsky, Die Diktatur des des Proletariats, Vienna, 1918, p. 20. La “lettera” di cui parla Kautsky designa 

« lettre » dont parle Kautsky désigne les « Gloses marginales au programme du Parti ouvrier allemand », dit Programme de Gotha, envoyées à W. Bracke le 5 mai 1875.

(13) H. Draper a rassemblé onze textes – et même quatorze si on compte à part les variantes – qui se rapportent à cette question (« Marx and the Dictatorship of the Proletariat », in Cahiers de l’ISEA, série S (6) sept. 1962, pp. 5-73).

(14) Contribution à l’histoire de la question de la dictature, œuvres complètes, Moscou, 1961, t. 31, p. 363.

(15) Max Adler, Démocratie politique et démocratie sociale, Paris, Ed. Anthropos, 1970, p. 140.

(16) Manifeste communiste, Pléiade, p. 172

(18) Lénine fait allusion à ce texte dans sa polémique contre Kautsky et il essaye de l’expliquer par l’absence « du militarisme et de la bureaucratie », dans les années 70, en Angleterre et en Amérique (…)

(20) Ed. sociales, p. 17.

(21) Voir Rosa Luxemburg dans Le programme de la ligue Spartacus ; Kautsky, dans Le chemin du pouvoiréd. Anthropos, 1969, p. 162 ; Otto Bauer divers textes, in : Otto Bauer et la Révolution Paris.

(22) Pour un aperçu d’ensemble voir notre livre : Communisme et marxisme, chapitre 3.

(23) Konspekt von Bakunin Buch, « Staatlichkeit und Anarchie», in Marx . Engels Werke, Dietz, Berlin, t. 18, p.634 et sq., partiellement traduit par Rubel dans Pages de Karl Marx… Paris, Payot, 1970, t. 2.

[24] Zola mette in bocca a Souvarine una delle possibili “risposte” degli anarchici, “Il vostro Karl Marx vuole ancora lasciar agire le forze le forze naturali. Niente politica, niente cospirazione, non è così? [Tutto alla luce del giorno, e unicamente attraverso l’aumento dei salari… Lasciatemi in pace con la vostra evoluzione! Incendiate i quattro angoli delle città…”, Emile Zola, Germinal.

(25) – (29) note mancanti.

[30] Lettera circolare indirizzata da Marx e Engels ai dirigenti della socialdemocrazia tedesca (citata da Rubel, in Cahiers de l’ISEA., nov. 1970, p. 2013.)

[31] Le Manifeste communiste, La Pléiade, p. 174

[32] Lettera del 13 febbraio 1851, Costes, Parigi, t. 2, p. 48.

[33] Introduzione a Per la critica della filosofia hegeliana del diritto.

[34] Traduzione di Rubel in “La Nef”, n.43, giugno 1948, p. 67.

Marxismo libertario. L’agonia postuma di Karl Marx – Maximilien Rubel intervistato da Olivier Corpet e Thierry Paquot, Le Monde dimanche, 10 aprile 1983.

L’agonia postuma di Karl Marx

In quest’anno (1983), del centenario della morte di Marx, le commemorazioni, colloqui, pubblicazioni, fioriscono, sia a Parigi che sulla piazza Rossa. Ma cosa si sta per celebrare esattamente: l’opera di Marx o ciò che ne hanno fatto dei marxismi differenti? Qual è, di fronte a questo nuovo funerale, la reazione di un marxologo, familiare dell’opera in questione, ma che si riconosce anche nel progetto etico e rivoluzionario di Marx di una autoemancipazione delle classi oppresse?

Quando avremo fatto il bilancio delle manifestazioni e delle mascherate di ogni genere alle quali questa celebrazione avrà dato luogo, in quest’anno memorabile, potremo constatare che il messaggio rivoluzionario dell’autore di Il Capitalesarà stato soffocato in tre diversi modi: Primo, attraverso la glorificazione eccessiva del preteso fondatore del marxismo, fandazione alla quale i fedeli del culto marxista associano, come regola generale, l’alter ego di Marx: Friedrich Engels. Secundo, attraverso la messa a morte postuma del pensatore le cui dottrine, lungi dall’essere scientifiche, sarebbero state comprovate o smentite dalla storia economica, politica e sociale degli ultimi cento anni e sarebbero erronee da capo a piedi. Tertio, attraverso l’apprezzamento detto oggettivo che sa separare il grano dall’oglio degno, il primo, di essere immagazzinato per l’arricchimento delle scienze umane.

Di queste tre maniere di evacuare la sostanza emancipatrice dell’opera marxiana, la terza mi sembra la meno riprovevole. Essa può rendere giustizia allo spirito scientifico che impregna la teoria sociale di Marx, senza deformare sistematicamente la sua opera. Il marxologo che mi sforzo di essere assume un compito difficile: far rispettare l’ultimo desiderio di Marx che protestava contro l’usurpazione del suo nome a fini ideologici e politici, ma che si solleva anche contro l’identificazione quasi religiosa della coscienza supposta degli schiavi moderni con una teoria abusivamente battezzata “marxismo”.

Un difensore “borghese” dei diritti dell’uomo.

Questa doppia usurpazione ha finito con l’assumere la forma di un vero culto onomastico. E’ la ragione dell’insistenza che pongo nel ricordare l’ultimo avvertimento di Marx: “Ciò che vi è di certo, è che io non sono marxista”. Non si tratta di una battuta, ma di un divieto assoluto, conforme a un insegnamento scientifico e a una convinzione etica che hanno la loro fonte nel movimento emancipatore autonomo del proletariato moderno, e non nell’opera di quell’individuo cosmo-storico come gli ammiratori di Hegel, quell’anti-Marx, chiamavano  Marx quando egli era ancora vivo.

Da qualche anno, vediamo numerosi intellettuali dedicarsi a una critica severa di Marx e del marxismo. Alcuni hanno creduto vedere in Marx un “borghese tedesco”, prigioniero dello “spirito” del suo tempo; per altri, Marx non avrebbe pensato il politico. Da cui il gulag. L’opera di Marx vi sembra totalmente innocente da tutte queste derive, deviazioni, peggio, da questi crimini di cui la si rende responsabile?

– La vostra domanda riguarda soprattutto i due ultimi modi di soffocare l’appello rivoluzionario e emancipatore di Marx. Il primo consiste nell’opporre alla sua teoria la smentita dell’esperienza storica. Da questo punto di vista, quest’ cento anni sarebbero stati segnati da un progresso immenso, inimmaginabile per i più grandi pensatori del diciannovesimo secolo, compreso Marx. Malgrado terribili catastrofi e regressioni di ogni ordine, il bilancio sarebbe “globalmente positivo”, La storia del ventesimo secolo avrebbe dunque sventato tutte le speculazioni di Marx sulla sparizione del capitalismo e la sua sostituzione con il socialismo nei paesi industrialmente sviluppati; in compenso, dei paesi industrialmente e politicamente arretrati sarebbero riusciti ad avviarsi sulla via del comunismo. In breve: naufragio della teoria dell’uomo di scienza, inefficacia totale della politica dell’uomo di partito!

In quanto agli affossatori accademici, va fatta una distinzione netta. Non è questione, infatti, di rifiutare di ascoltare coloro la cui critica utile, necessaria, prende in conto lo stato di incompiutezza dell’opera scientifica di Marx per separare gli elementi teorici, la cui validità permanente deve essere riconosciuta, dagli errori storicamente e psicologicamente spiegabili. Al contrario! Ma cosa dire quando quelli che, ieri, non giuravano che sul padre fondatore lo rendono oggi responsabile degli errori di una posterità intellettuale e politica la cui perversità rileva della patologia più elementare?

Questi apostati del marxismo sospettano il padre ripudiato di aver di proposito omesso o sottovalutato il “politico” e di non aver risposto alla domanda essenziale del perché della messa in tutela della società civile da parte del potere dello Stato. Altri lo accusano di “accecamento di fronte ai diritti dell’uomo”. Ora, i fatti parlano da sé: Marx ha passato i quattro decenni della sua carriera di comunista militante a vituperare, come difensore “borghese” dei diritti dell’uomo, le tre maggiori forme del “totalitarismo” del suo tempo: il bonapartismo, lo zarismo e l’assolutismo prussiano.

È questo nemico accanito del Leviatano moderno che tutta questa letteratura accademica antimarxista assocerà al “gulag”! Aggiungiamo che è per scelta che egli si è collocato nel campo della democrazia “borghese”: vittima sin dai suoi esordi letterari della violazione dei diritti dell’uomo in Germania, in Francia e in Belgio, si è rifugiato in Inghilterra, questa metropoli del capitale che gli ha offerto un rifugio sicuro dove poteva non soltanto continuare a scrivere liberamente, ma anche condurre campagna per il diritto di associazione e il suffragio universale.

Su questo Marx democratico e liberale, ma anche democratico rivoluzionario, mi è stato dato di dire l’essenziale nei miei lavori come nei miei commenti degli scritti di Marx pubblicati nella Pleiade: mi applico a demolire la leggenda di Marx costruita sia da degli adepti zelanti che da avversari ottusi. In questo stesso momento, preferisco tenermi lontano dalla mischia e dal baccano provocati dalle celebrazioni ufficiali e ufficiose. Ho in cantiere un opuscolo dedicato a questa leggenda, di cui i misfatti ideologici, tanto intollerabili possano essi essere, sono poca cosa in confronto alla miseria reale del mondo, che nessuna teoria, fosse essa marxiana o marxista, non potrebbe far scomparire. Sarà il mio contributo a un omaggio di cui il defunto celebrato e maledetto può certo fare a mano, ma che si collocherà fuori dalla triplice impresa di sotterramento ricordato.

Ma riaffermando che si deve considerare Marx come il primo – e il più efficace – critico del marxismo, ci si può domandare se, a vostra volta, non contribuite anche a una certa mistificazione di Marx, ad esempio scaricandolo totalmente dal peso dei suoi “discepoli”, caricando Engels di tutti i mali e in particolare quello di aver inaugurato il culto del suo amico, il giorno stesso del suo funerale?

– Mi sono accontentato di mostrare che una intelligentsia affetta da ideologia consolatrice si sforza nel ridurre, spesso per pura piccola gloria, in qualche specie come l’investimento più redditizio del suo capitale intellettuale, la potenza demistificatrice dell’opera di Marx. Soltanto la sua carriera di autore marginale e privo di mezzi ha impedito Marx di elaborare sistematicamente il progetto di una triplice critica scientifica delle istituzioni borghesi.

Ma basta leggere la sua opera per capire che, lungi dal rifiutare di “pensare il politico”, egli ha posto il “politico” al centro delle sue preoccupazioni. Sicché la sua Economia è rimasta incompiuta, che non ha potuto che a fatica porre l’ultima mano all’unico libro del Capitale, mentre l’insieme dei suoi scritti storico-politici, di fatto, la sua critica del politico, appariva come un insieme relativamente compiuto. Essa si impone oggi alla nostra riflessione con più pertinenza convincente della Critica della filosofia e la Critica dell’economia politica, come l’opera del primo teorico dell’anarchismo, dunque del critico e denunciatore senza concessione sia del vero capitalismo quanto del falso socialismo.

È su questo punto essenziale che dovrebbe aver luogo il dibattito riguardante il ruolo di Engels. Contrariamente a ciò che si pretende a volte, non lo ritengo affatto come responsabile di tutte le metamorfosi e distorsioni subite dal pensiero marxiano – soprattutto dopo l’istituzione del marxismo-leninismo come religione di Stato – nella fondazione di ciò che ha vincolato, suo malgrado, sotto il concetto di “marxismo”.

Ma come rimanere indifferenti di fronte alle conseguenze, oggi chiaramente percettibili, di questo gesto di consacrazione elevato presto alla dignità di un dogma indiscutibile? Come disconoscere il fatto che specializzandosi nelle questioni militari Engels ha lasciato, senza sospettarlo, alla posterità marxista un’eredità ambigua e alienante che, battezzato “marxismo-leninismo”, costituirà la negazione assoluta della causa emancipatrice per la quale Marx ha vissuto e combattuto?

Tuttavia, quest’ambiguità può volgersi contro gli eredi alienati: Engels avrebbe senza difficoltà riconosciuto in loro i continuatori arrabbiati e ciechi della politica zarista. Non dimentichiamo che Marx stesso non ha cessato di predicare “la guerra rivoluzionaria”. A prezzo di una concessione volgarmente “riformista” alla vocazione civilizzatrice dell’Occidente borghese, contro il dispotismo asiatico, e specialmente contro la Russia, questo “ultimo bastione della reazione europea”.

Siamo seri! Engels sarebbe stato l’ultimo a farsi prendere in trappola da una ideologia politica accomodata in salsa “marxista”, e nulla di ciò che ha detto o fatto, in quanto legatario spirituale del suo amico, può servire a legittimare quel marxismo.

Il monopolio della Mecca marxista

In quali condizioni e in quale spirito avete intrapreso la pubblicazione delle opere di Marx nella “Pléiade”? Con quali ostacoli e critiche, sopratutto politiche, vi siete dovuto confrontare? Non pensate di essere oggi meglio recepito e capito? In fin dei conti, vi è, a vostro parere, un uso possibile, fecondo, di Marx? O si tratta di un pensiero superato?

Accettando la pesante responsabilità di un’edizione delle opere di Marx nella “Bibliothèque de la Pléiade”, conoscevo i rischi di un’impresa concepita a controcorrente di una tradizione radicata. Essa urtava un’usanza editoriale diventata per così dire una legge non scritta, affrontando il mito della doppia fondazione di una scienzia nova chiamata “marxismo”. Inoltre, essa spezzava il monopolio che la Mecca marxista possiede nel campo delle edizioni che si pretendono scientifiche dei “classici del marxismo”.

Se oggi ho la convinzione di essere riuscito, malgrado le difficoltà e gli ostacoli che è facile immaginare, in compenso, ho fallito in una simile impresa, ma molto più ambiziosa: il progetto di un’edizione del giubileo delle opere di Marx nel testo originale. La storica di questo scacco formerà indubbiamente un capitolo della Leggenda di Marx che ho in cantiere. Il mio progetto doveva conformarsi al desiderio dell’autore di far udire un appello sempre ricominciato e sempre attuale, una requisitoria eticamente giustificato.

L’edizione del giubileo doveva soprattutto far apparire perché quest’opera, non appena essa si afferma in simbiosi con le sue fonti apertamente o tacitamente riconosciute, ripugna a presentarsi come un tutto compiuto, il compimento non essendo concepibile in questo continuo processo di teoria e di prassi, orientato verso una fine chiaramente enunciata: la generazione della società umana o dell’umanità sociale, compimento delle concezioni degli utopisti, dei riformatori e dei rivoluzionari.

Non avendo mai ricercato l’approvazione o brigato il verdetto della confraternita degli specialisti, la disapprovazione dei Magister scholarum della teologia marxista non è affatto riuscita ad ostacolare la ricezione più che favorevole del mio lavoro di editore e di commentatore dell’insegnamento marxiano. Ciò che mi importava innanzitutto, è che questa edizione possa raggiungere gli ambienti ai quali Marx destinava le sue opere.

La classe operaia è rivoluzionaria o non è nulla“, ha dichiarato Marx, cosciente che tutti i prestigi del verbo dialettico rimangono vani davanti all’atteggiamento di rassegnazione o di sottomissione degli iloti moderni. A rischio di urtare l’opinione universalmente ammessa, affermo che la vita postuma dell’autore di Il Capitale è lungi dall’aver cominciato. Se è vero, come credeva Nietzsche, che “alcuni individui nascono postumi”, questa proposizione non si applica ancora a Marx.

In verità, i cento anni di marxismo trionfante dimostrano il contrario di una resurrezione spirituale di questo pensatore che si riconosceva essenzialmente nella sua attività di educatore in situazione di apprendimento permanente. Il trionfo del marxismo come ideologia del socialismo realmente inesistente dissimula di fatto una sconfitta flagrante: la carriera postuma del pensatore e pratico dell’etica proletaria somiglia a una lunga agonia piuttosto che a una presenza rivoluzionaria.

[Traduzione di Massimo Cardellini]

MARX al cinema. Il giovane Karl Marx – film (2017) – [Selezione di testi a cura di Massimo Cardellini].

Riteniamo sia piuttosto interessante riportare alcune recensioni o articoli che trattano sulla stampa italiana dell’uscita oggi 5 aprile 2018 del film sui giovani Marx ed Engels. Il lettore anche lievemente acculturato in generale e meglio ancora quello che posseggono dei rudimenti di storia e di filosofia e di critica ideologica non potranno che trarne giovamento e soprattutto diletto.
La lettura dei commenti sui cosiddetti social ne costituiscono un complemento di spasso ulteriore da cui, superato il primo inevitabile sbigottimento, non può che subentrare una forma di godimento per l’avversione alla figura di Marx e del suo pensiero, indice di una abissale ignoranza verso una tematica a dir poco fondamentale del pensiero e della storia mondiale.

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SCHEDA del film:

Il Giovane Karl Marx – Le jeune Karl Marx

FRANCIA, GERMANIA, BELGIO – 2017
CAST:
Regia: Raoul Peck
  • Attori: August Diehl – Karl Marx
    Stefan Konarske  – Friedrich Engels
    Vicky Krieps  – Jenny von Westphalen-Marx
    Hannah Steele  – Mary Burns
    Olivier Gourmet  – Pierre-Joseph Proudhon
    Alexander Scheer  – Wilhelm Weitling
    Michael Brandner  – Joseph Moll
    Niels Bruno Schmidt  – Karl Grün
  • Sceneggiatura: Pascal Bonitzer, Raoul Peck
  • Fotografia: Kolja Brandt
  • Musiche: Alexei Aigui
  • Montaggio: Frédérique Broos
  • Scenografia: Benoît Barouh
  • Costumi: Paule Mangenot
PRESENTATO AL 67. FESTIVAL DI BERLINO (2017) NELLA SEZIONE ‘BERLINALE SPECIAL GALA’.

Quando Marx baciò Engels

Luca Cangianti

da: Carmilla. Letteratura, immaginario e cultura d’opposizione

 7 novembre 2017

La spiaggia di Ostenda è costeggiata dalla Galleria Reale, un porticato di quattrocento metri che unisce l’ippodromo con il parco e la villa del re dei belgi. Poi ci sono i ristoranti, i caffè, i negozi turistici, i complessi condominiali dallo stile accettabile e quelli decisamente orribili. Lì, davanti al mare delle Fiandre, oltre 170 anni fa, un Karl Marx ancora ventenne, in equilibrio sui frangiflutti di pietra, discuteva ispirato con Friedrich Engels di una rivoluzione che sarebbe stata al tempo stesso esistenziale, filosofica e sociale. “Der junge Karl Marx” (Il giovane Karl Marx), il film del regista haitiano Raoul Peck abbonda di scene a forte impatto visivo e simbolico. In questo modo riesce a sintetizzare con notevole abilità concetti filosofici complessi e sentimenti di grande intensità.
La famosa XI Tesi su Feuerbach (“I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo”) è ad esempio enunciata dal filosofo tedesco dopo uno sbocco di vomito causato da una sbornia colossale; i manoscritti di critica ai giovani hegeliani sono riletti a lume di candela in un’atmosfera calda e sensuale da Karl, dall’amico Friedrich e dalla moglie Jenny von Westphalen. Di tenore erotico è lo stesso sviluppo del rapporto tra Marx ed Engels; prima caratterizzato da reciproca antipatia, poi da conflitto e corteggiamento intellettuale, infine da passione travolgente: una corsa a perdifiato tra vicoli e anfratti per sfuggire alle grinfie degli sbirri, i fili della vita e della filosofia che si riannodano in un pub fumoso, un abbraccio forte come l’amore che spazza via i tiranni e la tristezza, e perfino un bacio (sulla fronte, però). È qui che Peck raggiunge il suo massimo, perché alla base della rivoluzione c’è una forma d’amore, di desiderio di vivere e lottare insieme. La rivoluzione è la fuoriuscita degli individui dalla solitudine, è il loro divenire comunità cosciente di un destino. Il bacio tra Marx ed Engels è l’annuncio della primavera insurrezionale del 1848.“Der junge Karl Marx” è girato in tre lingue (tedesco, francese e inglese) e dallo scorso marzo è nei cinema tedeschi, francesi e belgi. Da ottobre è anche disponibile in dvd in edizione tedesca, ma ancora non è noto quando e se arriverà nelle sale italiane. In un primo momento può sembrare un biopic piuttosto mainstream, ma solo perché è una produzione di qualità, con un’ambientazione curata e attori che recitano bene. È sorprendente come in poco meno di due ore Peck riesca a disegnare con grande verosimiglianza la personalità di Marx: l’intransigenza teorica, la trasandatezza nell’abbigliamento, la predilezione suicida per i sigari puzzolenti, l’assoluto deficit pragmatico, le mani bucate come arrivavano un po’ di soldi, la passione per i crostacei, i sensi di colpa (e forse d’inferiorità) nei confronti della sua compagna, l’investire tutta la libido nei confronti di una palingenesi basata sullo smascheramento scientifico della falsa apparenza. Nasce così l’ossessione che perseguita il filosofo per tutta la vita: scrivere un libro che porti alla luce il mostro invisibile del capitalismo, ricostruendone il complesso metabolismo. Marx iniziò a lavorare al Capitale già negli anni ’40, scrivendolo e riscrivendolo in varie forme, pubblicandone ogni tanto una parte senza mai completarlo, perché in fondo il suo oggetto era infinito e mutante [1].
Ben caratterizzata è anche la figura di Engels, in conflitto con il padre industriale tessile, e dunque con la sua classe d’appartenenza. Risultato di questo attrito è una personalità simpaticamente contraddittoria e umanissima. Il giovane Friedrich è anticonformista, frequentatore di ambienti operai e irlandesi, ma anche profondamente borghese, amante del buon vino e degli agi vittoriani.
Gli altri personaggi storici che nella narrazione hanno un ruolo secondario non sono mai delle comparse anodine. Ognuno conserva infatti un tratto saliente: Proudhon sorride bonariamente, Weitling ha gli occhi da pazzo e fa discorsi incendiari, Ruge ha paura della propria ombra, Bakunin parla già d’anarchia e diffida del socialismo autoritario.
Tuttavia, a guardar bene, c’è ancora di più in questo film: allusioni subliminali al presente, microscopiche (e probabilmente volute) divergenze dalle fonti storiche che conferiscono alla narrazione un’autenticità che nessuna pignoleria sarebbe capace di restituire. Da questo punto di vista si possono citare: Jenny von Westphalen che dà del “tu” a Engels e alla sua compagna Mary Burns, Marx fluente in inglese già nel 1845, ma soprattutto il falso storico più colossale, eccitante e azzeccato: il filosofo di Treviri più bello e affascinante del suo amico biondo, grazie al fisico e all’interpretazione dell’attore tedesco August Diehl. Insomma, se il film è adatto a qualsiasi tipo di pubblico, i conoscitori della vita e del pensiero di Marx ne trarranno un piacere supplementare grazie alle brillanti soluzioni narrative utilizzate per mettere in evidenza dettagli storici e snodi teorici.
Il Karl Marx di Raoul Peck è l’esatto contrario del vecchio profeta barbuto, adorato e imbalsamato dal socialismo reale. È un ventenne pieno di passione, arroganza, fragilità caratteriale e fisica. Lo vediamo fare l’amore con Jenny, supplicare per un posto di lavoro, cambiare idea più volte, sentirsi in colpa verso la famiglia, frequentare centri sociali del tempo come il Red Lion di Londra, studiare voracemente, entusiasmarsi, deprimersi, ubriacarsi e combattere come un leone. Questo giovane Marx non è un cavaliere senza macchia e neanche un noioso topo di biblioteca, è un uomo profondamente ferito che si dedica a un’avventura disperata, nobile e ambiziosa. Nel film, che copre l’arco temporale che va dal 1842 al 1848, non si rivelano le cause della sua ferita e la battaglia finale contro l’antagonista è lasciata ai titoli di coda, quando le immagini delle rivoluzioni novecentesche, delle lotte anticoloniali, di Che Guevara e Nelson Mandela, sono accompagnate dalle note di Like a rolling stone: “When you ain’t got nothing, you got nothing to lose”, canta Bob Dylan. Similmente Marx scrive nelle parole conclusive del Manifesto del partito comunista: “I proletari non hanno da perdere che le loro catene. Hanno da guadagnarci tutto un mondo.”

[1]

  1. Cfr. Francis Wheen, Il Capitale. Una biografia, Newton Compton, 2007.

Il giovane Marx: un film

da: “Le Parole e le cose” Letteratura e realtà

Federica Gregoratto

Sono già passati circa dieci anni dall’inizio dell’ultima crisi finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia mondiale, soprattutto occidentale. Una delle trasformazioni sociali, politiche e culturali più evidenti che sta segnando la fase attuale (e terminale?) [1] della società capitalista è la presa di coscienza dei limiti, intrascendibili, e dei fallimenti, irreversibili, del progetto social-democratico e liberale. Le procedure democratiche e il sistema dei diritti non sembrano più soluzioni adeguate, o quantomeno sufficienti, per domare la volontà di potenza e violenza delle classi dominanti, mediare le relazioni con il “diverso”, godere delle libertà rese disponibili dal capitalismo tenendone sotto controllo, allo stesso tempo, le derive (auto)-distruttrici.

A destra, si cercano nuove ricette appellandosi a rozzi demagoghi o a nuove ladies di ferro. L’obiettivo principale è quello di rimuovere tutto ciò che appare sopraggiunto solo di recente: nuove forme di vita e religione arrivate con gli ultimi copiosi flussi migratori, nuove preoccupazioni, per esempio sul futuro del pianeta, cui la scienza ci mette ora di fronte, o nuovi generi sessuali, fluidi, aperti, negoziabili. A sinistra, invece, gli abbozzi di soluzione più interessanti – gli esperimenti di cooperazione di Occupy Wall Street o dei recenti movimenti di lotta contro le nuove destre neoliberali, da Washington a Budapest, da Istanbul a Londra, le forme di solidarietà mediterranea nei confronti di profughi e profughe, le prove con il reddito di base e con la riduzione della giornata lavorativa – non possono fare a meno che appigliarsi teoricamente a certi concetti base formulati molto tempo fa nel solco delle tradizioni socialiste e comuniste. Marx è un, o meglio il riferimento obbligato.

Le jeune Karl Marx (o, in tedesco, Der Junge Karl Marx), diretto dal regista haitiano Raoul Peck e mostrato per la prima volta all’ultima Berlinale, narra la formazione del pensiero marxista negli anni cruciali dal 1842 al 1848 in un modo che, sullo sfondo del contesto appena tratteggiato, acquista una particolare rilevanza. Due scritti sono associati a queste due date, uno sconosciuto ai più, l’altro conosciuto da tutti. Il primo, che il regista sceglie di trasporre nelle immagini dell’ouverture del film, è l’articolo “Debatten über das Holzdiebstahlsgesetz”, pubblicato nella Reinische Zeitung: in queste pagine, il giovane Marx critica la legge, emanata solo pochi anni prima dal governo prussiano, che condanna la raccolta di legna nelle foreste “private”. Ben cinque sesti delle accuse penali in Prussia interessavano “furti” di questo genere, commessi dai poveri contadini alla disperata ricerca di materiale per riscaldarsi. Il secondo testo, ovviamente, è il Manifesto del Partito comunista, redatto da Marx e Engels con l’intento di mettere nero su bianco le basi del neonato movimento.

Le jeune Karl Marx è un film filosofico e letterario, perché mette in primo piano la produzione teorica dei due padri fondatori del comunismo. Altri sono i testi non semplicemente citati, ma la cui stesura diventa parte integrante del plot: per esempio Le tesi su Feuerbach (scritto nel 1845), che Marx e Engels avrebbero buttato giù per sancire la loro nuova amicizia al termine di una notte di eccessi alcolici; o Miseria della filosofia (1947), cui Jenny Marx avrebbe dato un titolo molto più ironico e sibillino. Proprio la scelta dello scritto iniziale e di quello finale, tuttavia, mostrano che la strategia di Peck non è semplicemente storica, ma piuttosto sistematica. Il primo riferimento pone l’accento sulla tematica della cosiddetta accumulazione primitiva, formulata ancora acerbamente negli anni ’40, facendone una chiave di lettura per l’intero pensiero marxiano. Peck sembra qui raccogliere la tesi di quei critici marxisti, come Rosa Luxembourg, o più recentemente Silvia Federici o David Harvey, secondo i quali la violenta espropriazione da parte del capitale delle risorse condivise collettivamente, come i rami caduti dagli alberi, non stia semplicemente all’origine del capitalismo, ma ne rappresenti la condizione fondamentale e costante di riproduzione. Per quanto riguarda la divulgazione delle idee portanti del comunismo, affidata alle pagine del Manifesto più famoso della storia, è evidente che il regista vuole stabilire una continuità tra il momento storico delle sue origini europee e le lotte più recenti che possono dirsi, in qualche modo, ispirate da questa tradizione.

 La prova più evidente di una tale continuità la si trova nei titoli di coda, in cui le note di Bob Dylan accompagnano una carrellata gioiosa di scene che ritraggono alcuni degli eventi o personaggi simbolo dell’emancipazione socio-politica nel ventesimo secolo: Che Guevara, il Muro di Berlino, Nelson Mandela, #Occupy. Ma non è tutto. Nel corso del film, altri temi vengono toccati il cui potenziale riflessivo non ha perso affatto di attualità. Due in particolare mi pare importante rilevare: la natura agonistica del movimento, o del partito, e il ruolo della teoria in relazione alla prassi rivoluzionaria.

Il primo punto è probabilmente, se letto in chiave di attualità, il più problematico. Le scene centrali del film sono dedicate alla sofferta mossa politica di Marx e Engels di trasformare la Lega dei Giusti in una decisamente più combattiva, la Lega dei Comunisti. Nel suo discorso durante il congresso di Londra nel giugno 1847, Engels espone gli argomenti in favore della nuova Lega criticando soprattutto il punto di vista astrattamente morale e l’ideologia orientata alla conciliazione universale, all’amore e alla fratellanza che avevano caratterizzato il movimento fino a quel momento. Alla luce di quello che oggi sappiamo sui cosiddetti “socialismi reali”, queste critiche possono apparire problematiche se interpretate semplicemente come rifiuto della morale tout court e giustificazione della violenza. Ma Peck sembra qui piuttosto presentare i propositi di Engels e Marx come il tentativo di fondare la prassi trasformatrice non su astratti punti di vista morali, sull’ideale cristiano della fratellanza o dell’agape, o sulla volontà di raggiungere un’intesa con l’umanità intera. I principi troppo generali e gli ideali non sono infatti in grado di afferrare le condizioni materiali esistenti; le emozioni positive generalizzate, d’altra parte, non possono che tradire un’inefficace ingenuità di fronte alle brutture, nefandezze e sofferenze dell’ordine sociale dato. La conoscenza, innanzitutto empirica, della complessità in cui ci si trova ad agire, l’attenzione strategica per le conseguenze possibili delle azioni, la capacità di sopportare dissenso e incomprensione, la comprensione delle differenze costitutive di un “soggetto” rivoluzionario in trasformazione: queste le caratteristiche necessarie, secondo Peck, per una prassi socio-politica che potremmo anche chiamare, con Dewey, un “comunismo dell’intelligenza” [2].

   Ma quale il ruolo degli intellettuali – e degli scienziati e dei filosofi – in tutto questo? La posizione di Le jeune Karl Marx rispetto a questa annosa questione è chiara. Nessuna lotta socio-politica può rinunciare all’impegno teorico. Uno dei pregi della pellicola, tra l’altro, è l’accurata ricostruzione delle tre fonti principali del pensiero marxiano: l’idealismo tedesco, la teoria economica inglese e il socialismo francese. Il lavoro teorico non è semplicemente un’emanazione, un prodotto o una funzione secondaria della lotta: una certa autonomia della teoria è necessaria affinché essa possa svolgere il suo compito di fornire indicazioni e immagini più o meno dettagliate che orientino l’azione. Allo stesso tempo, la teoria non può arrogarsi nessuna funziona di guida, non può credere di essere superiore all’azione concreta. In una delle scene chiave e centrali del film, Marx e Engels si devono recare umilmente di fronte ad un comitato di lavoratori e cercare di convincerli che sanno di che cosa stanno parlando. Tutto quello che riescono a farsi concedere, giustamente, è di essere messi alla prova: la validità di un impianto teorico può emergere solo grazie al confronto diretto con la realtà – quella realtà che la teoria stessa vuole trasformare. Anche qui si avverte un’eco del pensiero (socialista) deweyano: se vogliamo una teoria al servizio della prassi trasformatrice, essa non può che porsi come fallibile e pertanto rivedibile. Ecco perché, ci dice Raoul Peck poco prima dei titoli di coda nella schermata riassuntiva delle tappe bi(bli)ografiche successive del suo protagonista, Marx non poteva terminare la sua opera magna: l’evoluzione delle condizioni materiali, sociali, politiche e culturali sollecita allo stesso tempo un’evoluzione della teoria, e a Il Capitale si devono aggiungere sempre nuovi capitoli.

  Nel suo ultimo libro, Axel Honneth si ripromette di rivitalizzare il progetto socialista riprendendone l’idea chiave, quella di “libertà sociale”, ma anche criticando gli errori commessi dai primi socialisti [3]. Tre sono i retaggi, secondo Honneth, da cui il pensiero socialista dovrebbe prendere congedo per riguadagnare attualità, e dunque riuscire a incanalare la rabbia diffusa contro le condizioni di vita presenti: primo, l’idea che il progresso storico verso l’emancipazione, e dunque il superamento del capitalismo, sia un progresso necessario; secondo, la convinzione che l’esistenza di una classe particolare, il proletariato, sia di sé legata a certi interessi socialisti e comunisti; [4] terzo, la fissazione sull’economico e il disinteresse nei confronti di altre due sfere fondamentali per la condizione umana moderna, ovvero quella politica e quella delle relazioni intime, famigliari, di amore e amicizia. Il film di Peck sembra voler contraddire su tutti i punti l’analisi di Honneth.

  Fino ad ora ho cercato in effetti di mostrare come Le jeune Karl Marx rigetti con decisione una visione anacronistica di materialismo storico, facendo della dimensione politica un nodo cruciale della lotta sociale. Come notato in precedenza, il nodo centrale del film, ma anche della formazione di Marx (e Engels), è data dalla sconfitta della corrente moralista all’interno della Lega dei Giusti e la costituzione della Lega Comunista. Uno dei pregi maggiori del film, non emerso fino ad ora, risiede inoltre nell’ampio spazio dedicato alle relazioni intime tra i protagonisti, costitutive per l’attività teorica e politica: il sostegno di Jenny Marx, che va ben oltre il semplice ruolo di moglie devota, [5] la passione di Engels per Mary Burns, che lo spinge a studiare più da vicino le condizioni di lavoro e vita dei lavoratori inglesi, l’affetto, ammirazione e dipendenza reciproca, non scevra di conflitti, tra Marx e Engels, ma anche i complicati sentimenti di Marx per Proudhon, nel film descritto quale mentore che seduce e allo stesso tempo respinge, incoraggia e allo stesso tempo delude. In L’idea di socialismo, e in altre opere, Honneth pensa alla sfera delle relazioni intime come al luogo in cui la libertà sociale – quella forma di libertà di cui gli altri e le altre non sono un limite ma una condizione – si manifesta in modo più immediato e concreto, fornendo in un certo senso un modello da applicare anche altrove. In Le jeune Karl Marx, questa idea è presa sul serio. La vita privata e affettiva di Marx ed Engels non è mostrata come un semplice complemento al, o peggio, come ad un rifugio dalla pubblicità del conflitto intellettuale e politico, ma, al contrario, come al laboratorio in cui idee e strategie vedono la luce, si raffinano e in un certo senso vengono messe alla prova. Il privato non è ridotto immediatamente al politico, ma i due sono intrecciati: non solo le condizioni sociali ed economiche e l’impegno politico influenzano e limitano la sfera affettiva; allo stesso tempo, quest’ultima nutre, mantiene vive, incanala le energie e le forze, sia intellettuali che emotive, che si dispiegano nella lotta. L’accento sul ruolo costitutivo delle relazioni intime non significa però, daccapo, riabilitare un’ideale di amore/amicizia improntato all’armonia, o vincolato a certe istituzioni. In una delle ultime scene, la lavoratrice Mary spiega a Jenny von Westphalen che la libertà, anche quella individuale, è per lei la condizione per continuare a lottare. Per questo non può che rifiutare gli agi, anche economici, che una relazione ufficializzata e socialmente riconosciuta con Engels potrebbe concederle. Così facendo, non solo non si lascia ingabbiare dal ruolo di madre, ma neppure dal modello romantico tradizionale [6]. Così come Marx aveva dichiarato, in faccia al borghese che giustificava il lavoro minorile, “quello che voi chiamate profitto, io lo chiamo sfruttamento”, Mary potrebbe ora dire, prendendo a prestito le parole di Silvia Federici: “loro lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato.”[7]

Note

[1] Secondo Wolfgang Streeck si tratta per l’appunto di una fase terminale: cfr. il suo “How Will Capitalism End?”, New Left Review 87, May-June 2014, pp. 35-64.

[2] Cfr. J. Dewey, Filosofia sociale e politica. Lezioni in Cina (1919-1920), a cura di F. Gregoratto, trad. di C. Piroddi, Rosenberg & Sellier, Torino 2017.

[3] A. Honneth, L’idea di socialismo, trad. di M. Solinas, Feltrinelli, Milano 2016.

[4] La premessa di un legame intimo e necessario tra classe proletaria – che designa quel gruppo di persone che dipendono dal loro lavoro per vivere, e che dunque sono estremamente vulnerabili al potere di coloro che controllano le condizioni di lavoro – e interesse al superamento del sistema capitalistico viene messa efficacemente in discussione anche nel libro di Didier Eribon Ritorno a Reims, in uscita per Bompiani nel 2017.

[5] Il coinvolgimento in prima persona delle donne nella prassi politica in quegli anni era già qualcosa di rivoluzionario, anche tra i socialisti. Sul ruolo di Jenny Marx si veda il bel libro di Mary Gabriel, Love and Capital. Karl and Jenny Marx and the Birth of a Revolution, Back Bay Books, New York/London 2011.

[6] Nel film la posizione di Mary circa questa questione non è posta come necessariamente superiore ad altre alternative. Se la sua scelta di non diventare madre e l’accenno al modello poliamoroso sono esplicitamente presentati come forme di libertà, altrettanto libero è lo stile di vita di Jenny von Westphalen, il cui matrimonio con Marx le ha permesso di rompere con le convenzioni dell’aristocrazia tedesca.

[7] S. Federici, Il punto zero della rivoluzione, a cura di A. Curcio, Ombre Corte, 2014.

«Il giovane Karl Marx», l’uomo, l’azione politica e il lavoro teorico

Eugenio Renzi

“Il Manifesto”, 03.04.2018

Esce giovedì il film di Raoul Peck dedicato al filosofo tedesco, ambientato negli anni dell’incontro con EngelsEsce infine in Italia, giovedì prossimo, il film di Raoul Peck su Karl Marx. Questo piccolo evento non può non intrigare il proletariato italiano. Ma che cosa ha da attendersi da un film uno spettatore di sinistra che ancora non conosce il pensiero del padre della filosofia della prassi? La difficoltà di ogni biografo del genio di Treviri è data dal fatto che la maniera di presentare i vari aspetti della sua esistenza è inevitabilmente anche un modo di interpretare il rapporto tra la vita privata, l’azione politica e il lavoro teorico.
Ora, in un film in costume, dove l’intreccio ha tendenza a dominare la scena, il rischio è di dare la priorità al romanzo, e quindi di cadere, colore a parte, in un’operetta borghese. Rischio accentuato dalla biografia del fondatore del socialismo scientifico che, in particolare in gioventù, non manca di avventure di ogni genere.
Quando il film comincia, il redattore della «Gazzetta renana» è già sposato con Jenny von Westphalen, l’aristocratica che ha scelto la ribellione alla sua classe, sposando il figlio di un ebreo convertito. La loro storia non evolverà d’un millimetro. Il film racconta invece le circostanze dell’incontro con Engels a Parigi.
I due sono già convinti ammiratori l’uno dell’altro. Devono solo confessarselo. Per il resto, Peck, e il suo sceneggiatore Pascal Bonitzer (ex dei «Cahiers» «époque Mao» e regista a sua volta) hanno cercato di evitare lo schema classico dei biopic: l’ascesa, la disgrazia, la redenzione.
Certo, il futuro fondatore dell’Internazionale passa attraverso vari naufragi economici e politici. È sempre sull’orlo della fame, alla ricerca di qualche soldo per il pane, braccato dalla polizia, costretto all’esilio. Ma la costanza della situazione di povertà e di precarietà è un altro modo per togliere al lato dickensiano il ruolo di trazione del film e dare più spazio agli aspetti teorici. Ma come si filma la teoria? Peck non ha voluto fare un film pedante. Ha cercato di concentrare lo specifico del pensiero di Marx in un concetto unico che irriga tutto: l’idea del conflitto.

IL GIOVANE KARL MARX. Intervista a Raoul Peck

 IL GIOVANE KARL MARX, LA RIVINCITA DI UN GRANDE SCONFITTO

A 30 anni dalla caduta del muro, complice l’aggressività del capitalismo globale, non sembra più un tabù professarsi apertamente marxisti. Dal 5 aprile al cinema.

Mymovies

Roy Menarini, mercoledì 4 aprile 2018

Magari non è uno spettro quello che si aggira per l’Europa e per il mondo negli ultimi anni, e forse è più che altro simile a un morto vivente. Eppure il marxismo, magari con un “neo-” davanti, è una delle correnti di pensiero politico e filosofico più in auge in questo periodo. Filosofi del calibro di Slavoj Zizek o Alain Badiou, che possiamo tranquillamente considerare superstar dell’editoria e del dibattito internazionale, si professano apertamente marxisti, e oggi – a ormai trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino – non è più tabù professarsi tali, anche a causa dell’aggressività del capitalismo globale e l’evidente arretramento delle democrazie occidentali.

Questo clima culturale, dunque, non deve essere stato estraneo alla decisione di mettere in cantiere Il giovane Karl Marx, curioso caso di film storico in costume di produzione indipendente (e internazionale), dove il budget limitato non impedisce la passione biografica.

E del resto non è un caso che a trovarsi dietro la macchina da presa sia Raoul Peck, regista militante haitiano che dopo anni di clandestinità cinematografica e militanza documentaristica dirige ora un affresco storico. Nato ad Haiti, cresciuto a Berlino, vissuto in Congo, poi cosmopolita, e ancora ministro della cultura del suo paese, poi spesso negli Stati Uniti, Peck ha una biografia movimentata e coraggiosa, e una filmografia altrettanto imprevedibile. Giusto lo scorso anno, con I Am Not Your Negro, ci aveva riportato la voce e la scrittura di un gigante (da noi poco noto) della narrativa come James Baldwin, intervenendo con forza nel dibattito sul razzismo e la diseguaglianza tra bianchi e neri nella nuova America degli anni Duemila.

Meno consueto vederlo alla regia di un dramma come questo, che però sembra andare all’origine dell’attivismo politico grazie a Karl Marx, verso il quale – e qui torniamo all’aporia di partenza: una figura sconfitta dalla storia che oggi riceve attenzioni sorprendenti – nutre una simpatia indiscutibile. Qui si cela anche la mossa più astuta di Peck e degli sceneggiatori: il racconto di giovinezza. Rappresentando Karl Marx come un rivoluzionario puro, e immergendolo nei furori giovanili, ne viene stemperata la carica più attuale (che sarebbe forse diventata indigesta a una larga fetta di pubblico) per immergerla nel contesto delle ingiustizie ottocentesche dove si trova a operare. È da questo scenario che poi gli spettatori decideranno se – come Peck suggerisce – le motivazioni profonde e le sperequazioni di classe da cui l’attività di Marx e Engels prese forza si ripresentano ancora oggi, o se invece limitare l’efficacia del racconto alla sua storicizzazione.

In ogni caso, anche ad accontentarsi della ricostruzione d’epoca, Il giovane Karl Marx fornisce indicazioni utili ai dibattiti e alle sofferte decisioni del periodo, per esempio intorno alla galassia socialista e alle indecisioni di Proudhon o al ruolo più borghese e dialogante di Engels.

E se è vero che talvolta sembra di trovarsi di fronte a “period drama” da piccolo schermo, è anche innegabile che il budget ristretto ha spinto Peck a concentrare tutto l’apparato emotivo e politico sui volti e sui dialoghi, lavorando in set claustrali e privilegiando gli interni. Anche le rivoluzioni nascono in una stanza.

Ecco la bella vita del giovane Karl Marx prima di scrivere il manuale comunista

Il film di Peck sugli anni «scatenati» del filosofo insieme con Engels

Cinzia Romani

“Libero” – Mar, 03/04/2018

Mentre la sinistra italiana subisce una Caporetto epocale e rischia di sparire, ecco Il giovane Karl Marx (dal 5, distribuisce Wanted), film drammatico dell’haitiano Raoul Peck, ex-ministro della cultura nella Haiti post-regime e autore noto per il documentario I’m not your Negro (2016), biopic antirazzista sull’intellettuale afroamericano James Baldwin: premio Bafta e Oscar 2017 come miglior documentario.

Alle vicende storicizzanti, che richiamano l’attualità, Peck è allenato. Stavolta, intanto che in Europa libertà, uguaglianza e diritti dei cittadini non sono più bandiere dei partiti comunisti, è di Karl Marx che egli tratta. Del Marx ventenne, in particolare, ritratto come un ragazzo pieno di vita, che fa l’amore a Parigi, beve birra a Londra e si scapiglia come si deve insieme all’amico Friedrich Engels, lui pure sexy quanto basta per parlare al cuore delle platee non bacucche.

«Voglio mostrare alle giovani generazioni la forza del pensiero rivoluzionario: oggi ci manca il modo di pensare di Karl Marx», spiega il regista, che ha ingaggiato August Diehl, uno degli attori tedeschi contemporanei più famosi al mondo, per incarnare il filosofo di Treviri. E se siamo abituati a pensare a Marx come lo raffigura l’unica foto che gira di lui, con la lunga barba bianca da vecchio, dovremo ricrederci. L’economista che nell’Ottocento ha profetizzato quanto si avvera nel mondo globalizzato («i poveri sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi»), ha viaggiato come un hippy on the road, ha patito la fame, ha accettato ogni lavoro pur di sostentare la sua famiglia. E’ stato ragazzo nel periodo 1844-1848, quando, non ancora trentenne, doveva ancora affermarsi come punto di riferimento di sinistra dell’epoca.

Per quanto singolare sembri, finora nessuno aveva pensato a un film sugli anni prima che Marx scrivesse il Manifesto del Partito Comunista, pubblicato a Londra il 21 febbraio 1848, in tedesco e in forma di opuscolo. Una pubblicazione che, nei Settanta, campeggiava nelle biblioteche degli studenti «Revoluzzer» e degli studiosi impegnati, con la traduzione di Palmiro Togliatti (Edizioni Rinascita), poi caduta nel dimenticatoio, fino alla recente riproposizione nell’Economica Laterza.

Del giovane Marx, in Italia, soltanto Croce e Gentile, alla fine dell’Ottocento, avevano parlato via epistolario. E se Andy Warhol ha capito il lato pop di Marx, nato nel 1818 e morto a Londra il 14 marzo 1883, riproducendone serialmente l’icona barbuta, quale impatto avrà Il giovane Marx sui giovani ai quali è indirizzato? «Sarebbe bello poter guardare il mondo di oggi attraverso gli occhi di Marx», si è augurato il direttore della Berlinale Dieter Kosslick, quando, l’anno scorso tale cineromanzo di formazione di due ore, è passato al festival dividendo la critica. Troppo cerebrale per lo Hollywood Reporter, il film auspica una «Marx Renaissance», nel peggior momento delle sinistre europee. Non a caso finisce sulle note di Like a Rolling Stone, cantata da Bob Dylan.

[Selezione dei testi dalla rete a cura di Massimo Cardellini]

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BUON NUOVO SECOLO DI VITA KARL MARX

Tra poche settimane ricorrerà il 200° anno della nascita di Karl Marx, una figura senz’altro molto controversa e non soltanto tra i suoi detrattori quanto soprattutto, e peggio ancora, tra i suoi ancor più numerosi sostenitori nel corso delle varie epoche storiche che si sono succedute da quanto questa concezione è nata.
 
Poiché il nostro paese, come d’altronde tanti altri in Europa e nel mondo, ha avuto storicamente dei cosiddetti partiti e organizzazioni sindacali e leghe di cooperative “di sinistra”, che si dicevano addirittura marxisti, (e che forse nel loro piccolo, in origine lo sono anche stati per un poco), questo blog, attraverso presentazione di materiale storico e critico, vorrebbe che si giungesse infine ad una conoscenza adeguata di ciò che genericamente è stato chiamato “marxismo”, e cioè essenzialmente una mera strategia ideologica elettoralistica nel corso della sua storia primitiva o un totalitarismo in una successiva fase leninista.
Ribadire ancora una volta, e in modo meticoloso e circostanziato, cosa sia e ancor più cosa sia stato realmente il “marxismo” o se si preferisce la concezione materialistica della storia, per distinguerlo dalle ideologie collaborazionistiche con il sistema capitalistico avanzato occidentale oppure dalla prassi totalitaria delle ex semicolonie, come la Russia zarista o la Cina imperiale, che sbarazzandosi del dominio occidentale hanno creduto di poter instaurare dall’alto, gerarchicamente e militarmente il “comunismo”, è uno dei compiti di Marx201.
Un’altra esigenza, anch’essa di natura storica ma anche di critica ideologica autenticamente marxiana, sarà quella di contribuire alla conoscenza delle organizzazioni e delle figure teoriche che mantenendosi fedeli allo spirito del pensiero marxiano si sono opposte alle derive politiche e ideologiche dello pseudomarxismo imperante e lo hanno combattuto senza tanti compromessi e giri di parole, come invece è stato per la frazioni dissidenti all’interno sia della socialdemocrazia (revisionismo) sia del bolscevismo leninismo (Trotskysmo; bordighismo e altre derivazioni leniniste).
 
Il blog quindi presenterà molto materiale reperibile in rete e non, adatti a delineare una critica storica e ideologica dello pseudomarxismo e dei suoi crimini, e soprattutto adatti a far un bilancio storico e portare alla conoscenza di molti la grandezza di eventi, figure e concezioni che si sono mantenuti al livello del creatore del loro ispiratore che è stato un uomo e non certo un icona.
Massimo Cardellini