Marxismo libertario. Yvon Bourdet – Karl Marx e l’autogestione; da: “Autogestion et socialisme”, n°15, marzo 1971

Karl Marx e l’autogestione

Yvon Bourdet

Prima parte di un articolo uscito su “Autogestion et socialisme” (n° 15, marzo 1971), e ripreso come paragrafo in Pour l’autogestion, (Anthropos, 1974).

N° 15 della rivista Autogestion et Socialisme, marzo 1971
N° 15 della rivista Autogestion et Socialisme, marzo 1971

La parola autogestione è di uso corrente soltanto da una decina di anni e sembrerebbe anacronistico associarla al nome di Marx [1]. Tuttavia – coloro che lo ignorassero – non vadano a immaginare che stiamo per dedicarci a non so quale esercizio di scolastica di accostamento artificiale del genere: “Cosa ne penserebbe oggi Platone della televisione?” – precisiamo subito che se Marx non impiega la parola autogestione si interessa (lo proveremo con numerosi testi) a ciò che la parola designa e che si chiamavano allora “le cooperative di produzione”.

Certo, il fatto che questo termine “autogestione” non sia apparso che recentemente non manca di significato. Esso testimonia, sicuramente da una parte, l’ignoranza del passato e possiamo capire che alcuni anarchici, fourrieristi o proudhoniani, ad esempio, si irritino per il fatto che molti “consiliaristi” o “autogestionari” credono di aver trovato qualcosa di nuovo con una nuova parola. Non resta tuttavia meno, in compenso, che il bisogno di una nuova terminologia segna almeno l’esigenza di una delimitazione con le dottrine esistenti. Anche se, ora, la maggior parte degli anarchici si mostrano interessati all’azione di massa e dei mezzi economici di transizione per molti, a torto o a ragione, il termine anarchismo evoca soprattutto la volontà di distruggere i poteri esistenti piuttosto che l’esigenza di costruire, a livello nazionale o internazionale, un’organizzazione di nuovo tipo. Sul piano politico, la loro azione appare soprattutto negativa e i loro tentativi di realizzazioni positive sembrano limitarsi alla concentrazione libera di piccoli gruppi che cercano di realizzare in modo marginale, “un aumento immediato del godimento”. Non si tratta qui, tuttavia, sempre, della ricerca di una salvezza egoistica; essi credono di essere il fermento o i “detonatori” della rivoluzione universale; ma la loro procedura, fosse anche “esemplare”, resta l’attività di alcuni pionieri.

Il termine autogestione, al contrario, sembra designare un’organizzazione più ampia, più tecnica e che, in tutti i casi, è legata più alla produzione che al godimento. Così, la rivendicazione dell’autogestione sembra più vicina al progetto dei marxisti benché tra di loro si scavi, agli occhi di quasi tutti, un abisso quasi infinito, perché di solito con “autogestione” si intende la concertazione delle autonomie, e con “marxismo” il sin troppo famoso centralismo democratico di Lenin che le sue anomalie, da più di cinquant’anni, non pongono in alcun modo in questione poiché tutti i vizi del sistema sono infaticabilmente spiegati con i pretesi difetti della personalità dei dirigenti. Anche coloro che accettano di dissociare il marxismo dallo stalinismo, dal leninismo o dal trotskysmo non insistono non di meno a ritenere che gli appelli che Marx fa ai “violenti parti della storia” e alla “dittatura del proletariato” sono incomprensibili con i metodi e gli scopi dei sostenitori dell’autogestione.

Per vederci chiaro, è dunque necessario liberare i testi di Marx dallo spesso strato accumulato non tanto dalle glosse dei teorici quanto dalle “ricadute” – per mezzo secolo – della prassi dei partiti comunisti che pretendono di incarnare la teoria di Marx. Quanto ci riproponiamo è dunque, come per altri, una rilettura, ma non per proiettare, tra le righe, ciò che Marx non ha scritto. È al contrario, per dare o ridare a vedere i testi dimenticati, trascurati, respinti o semplicemente mai letti.

I. I mezzi della rivoluzione secondo Marx

L’opera di Marx è una critica della società capitalista e la sua vita una lotta per affrettare l’ora dell’espropriazione degli espropriatori. Tuttavia, per molti il passaggio dalla teoria all’azione politica costituisce un problema. Nel capitolo XXII del libro primo di Il Capitale, si può leggere: “La produzione capitalista genera la sua propria negazione con la fatalità che presiede alle metamorfosi della natura” [2]. Con ciò, d’altronde non faceva che riprendere la conclusione della prima parte di Il manifesto del partito comunista che dava per “inevitabile l’eliminazione della borghesia e il trionfo del proletariato” [3]. Da quel momento il “Che fare?” sembra sprovvisto di senso come è stato spesso notato: “i marxisti che annunciano l’avvento ineluttabile del regime postcapitalista fanno pensare a un partito che lotterebbe per provocare un eclissi di luna” [4]. Allo stesso modo Lenin metteva in bocca ai populisti degli anni 1894-1895 questa riflessione: “Se i marxisti considerano il capitalismo in Russia come un fenomeno inevitabile (…), Si deve far loro aprire un negozio di alcolici…” [5]. Questa “obiezione” non era sfuggita a Marx che l’aveva egli stesso introdotta ad esempio di bufala [6] in una bozza di articolo su Il Capitale che Engels doveva incaricarsi di far pubblicare, sotto un nome fittizio, in un giornale diretto da Karl Mayer: “Quando egli (Marx) dimostra che l’attuale società (…) porta in sé i germi di una nuova forma sociale superiore, non fa che mostrare sul piano sociale lo stesso processo di trasformazione che Darwin ha stabilito nelle scienze della natura (…). L’autore ha, con lo stesso colpo, (…) forse malgrado lui (sottolineato da Marx) suonato la campana a morto di tutto il socialismo professionale…” [7]. La “confutazione” di questa “obiezione” si trovava già nella prefazione di Il Capitale quando Marx spiegava che una società che è giunta “a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (sottolineato da Marx) (…) non può né superare con un salto né abolire con dei decreti le fasi del suo sviluppo naturale, ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i dolori delle loro doglie” [8]. Troviamo qui il celebre tema della violenza concepita come la “levatrice di ogni vecchia società al lavoro” [9], o, come la vulgata della violenza levatrice della storia. Di fatto, precisa Marx, “la forza è un agente economico”. Equivale dunque ad appiattire “il marxismo” ridurlo sia a un’azione politica che ignorasse le fasi dello sviluppo naturale, sia all’economicismo beato del laisser-faire. Certo la forza non può “far girare alla rovescia la ruota della storia” [10], ma i comunisti non dichiarano meno “apertamente che non possono raggiungere i loro obiettivi che distruggendo con la violenza il vecchio ordine sociale” [11]. Ritroviamo così la famosa e controversa questione della “dittatura del proletariato”. Sappiamo che Kautsky, per criticare i bolscevichi, affermò che Marx non aveva mai, per così dire, preconizzato una tale dittatura, che si trattava qui di una battuta, scritta, “di sfuggita” in una lettera [12].

Di fatto, Marx ha parlato diverse volte del ruolo e della necessità di una tale dittatura [13], ma il semplice esame critico e contabilità dei testi non serve a gran cosa se non ci si intende sul senso, in Marx, della parola “dittatura”. In una nota del 20 ottobre 1920, Lenin caratterizza la dittatura come un potere che non riconosce “nessun altro potere, nessuna legge, nessuna norma, da qualunque parte essi provengano (…) il potere illimitato, extralegale, che si appoggia sulla forza, nel senso più stretto della parola, è questa la dittatura” [14].

Ed è una bella dittatura che deve esercitare il proletariato, che esso sia minoritario o maggioritario nella nazione. Max Adler, al contrario distingue accuratamente tra “dittatura maggioritaria” e “dittatura minoritaria” [15]: quando una minoranza opprime una maggioranza, si è in presenza del dispotismo che Marx ha sempre combattuto, in tutte le sue forme; se Marx preconizza la dittatura del proletariato è perché essa non può essere altra cosa che la forza della maggioranza: “Tutti i movimenti del passato sono stati opera delle minoranze o sono andati a vantaggio delle minoranze. Il movimento proletario è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza nell’interesse dell’immensa maggioranza” [16]. Per Marx, la rivoluzione proletaria sarà l’ultima possibile; infatti, quando il proletariato, classe universale, avrà preso il potere, non vi saranno presto più nessuna classe e di conseguenza nessuna lotta tra di esse: “La vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi conflitti, lascia il posto a un’associazione in cui la libera espressione di ognuno è la condizione della libera espressione di tutti” [17]. Facciamo notare di sfuggita che Marx dà così la definizione esatta di una società autogestita. In quanto alle vie e mezzi per il passaggio a questo dominio immensamente maggioritario del proletariato, essi saranno vari a secondo delle circostanze; la violenza, come abbiamo visto, sarà spesso necessaria ma non sempre; nel suo discorso dell’8 settembre 1872 agli operai di Amsterdam, Marx dichiarò che “l’America e l’Inghilterra (potevano) giungere al socialismo attraverso mezzi pacifici” [18]. Nella prefazione all’edizione inglese di Il capitale, nel 1886, Engels assicura che non fu questa una dichiarazione di circostanza, e che Marx aveva espresso il suo vero pensiero. D’altronde, Engels scrisse egli stesso, un po’ più tardi nel 1991, che “si può concepire che la vecchia società potrà evolvere pacificamente verso la nuova nei paesi in cui la rappresentazione popolare concentra in essa tutti i poteri” e anche più esplicitamente, che “la repubblica democratica (…) è la forma specifica della dittatura del proletariato” [19]). Precisando il suo pensiero, nella Introduzione, scritta nel 1895, a Le lotte di classe in Francia, Engels affermava che l’uso illegale della forza armata non era più un buon mezzo per il proletariato di impadronirsi del potere e che anche “la borghesia e il governo” erano un po’ giunti “ad aver più paura dell’azione legale che dell’azione illegale del partito operaio” [20].

Dicendo ciò, Engels aveva indubbiamente dato troppa importanza alla celebre dichiarazione di Odilon Barrot: “La legalità ci uccide!” e all’esperimento della Comune di Parigi che era terminata con una catastrofica carneficina del proletariato. Il suo punto di vista fu in seguito generalmente abbastanza contestato dai marxisti [21].

Sia quel che sia, resta dalla lettura di tutti questi testi che Marx e Engels non hanno sempre avuto la stessa teoria per quel che riguarda i mezzi di passaggio al socialismo e meglio ancora che essi avevano sostenuto esplicitamente che ci si doveva adattare alle circostanze.

Ciò non vuol dir affatto che basta secondo loro aspettare, come abbiamo già detto e come la polemica di Marx contro Bakunin l’ha dimostrato. Non si tratta qui di trattare a fondo la comparazione tra marxismo e anarchismo [22], ma soltanto nella prospettiva della presente messa a punto. Ciò che ci interessa, infatti, è di precisare come Marx concepisce la società, una volta spezzata l’oppressione capitalista, e con quali mezzi si può accelerare questa liberazione. Ora, le note scritte nel 1874 da Marx, in margine al libro di Bakunin Stato e Anarchia, sono, a questo riguardo, molto chiarificatrici [23]. A partire da queste note, si può restituire il seguente dialogo (senza cambiare una parola, naturalmente, al testo dell’uno e dell’altro):

Bakunin. – “I Tedeschi sono circa 40 milioni. Tutti i 40 milioni, ad esempio, saranno membri del governo?”.

Marx. – “Certainly! Perché la cosa inizia con il self-governement della comune”.

Bakunin. – “Allora, non vi sarà nessun governo, nessun Stato, ma, se vi è uno Stato, vi saranno dei governi e degli schiavi (…). Questo dilemma nella teoria marxista si risolve facilmente. Con governo del popolo essi (i marxisti – no! interrompe Marx, è Bakunin che lo pretende) intendono il governo del popolo con l’aiuto di un piccolo numero di dirigenti eletti dal popolo”.

Marx. – “Asino! Si tratta di sproloquio democratico, di chiacchiera politica! L’elezione è una forma politica (…) che dipende (…) dai rapporti economici tra gli elettori; non appena le funzioni hanno cessato di essere politiche: 1. – non esiste più funzione governativa; 2 – la ripartizione delle funzioni generali è diventata una cosa di mestiere e non conferisce nessun potere; 3 – l’elezione non ha nulla del carattere politico attuale.”.

Bakunin. – “Il suffragio universale di tutto il popolo. …”.

Marx. – “Tutto il popolo nel senso attuale della parola è una pura chimera”.

Bakunin. – “La nozione di «rappresentanti del popolo» costituisce «una menzogna sotto la quale si nasconde il dispotismo della minoranza governate (sottolineato da Bakunin) tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo»”.

Marx. – “Sotto la proprietà collettiva, la sedicente volontà del popolo fa posto alla volontà reale del cooperativo”.

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest’ultimo ammette molto bene che l’organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, – attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo”.

D’altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l’autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un’inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (…) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla…, che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest’ultimo ammette molto bene che l’organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, – attraverso il centralismo democratico –realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo”.

Va da sé che Bakunin, a sua volta, griderebbe allo scandalo davanti a questa deduzione di Marx [24].

Sono queste le leggi della polemica. Ciò che ci interessa soltanto qui, è la contraddizione evidenziata da Bakunin tra lo scopo ultimo di Marx (società omogenea senza classi) e i mezzi spuri che egli crede indispensabili utilizzare per distruggere la macchina oppressiva della borghesia. Le colombe non possono né convincere né vincere gli avvoltoi con la violenza degli avvoltoi. Colui che conserva le mani pulite non ha mani. Marx si pone così all’opposto dell’assioma evangelico: i mansueti erediteranno la terra che è stato ripreso dagli attuali sostenitori della non-violenza, coloro che non hanno che fiori (amore e pace) come armi o che, radunati intorno al Pentagono, speravano farlo espellere dalla terra con i loro pensieri associati nella fede che solleva le montagne. Sono questi, si dirà, dei sognatori gentili, ma resta il fatto che Marx non era nemmeno lui, soddisfatto dall’obbligo politico di lottare contro i borghesi con delle armi simili alle loro. È per questo, d’altronde, che egli non raccomandava esattamente una tale imitazione. Non voleva che il suo “partito” fosse un partito come gli altri, né la sua azione un insieme di piccole astuzie architettate nel segreto degli apparati “direttivi”. I lavoratori dovevano, secondo Marx, autogestire le loro lotte.

È un tema costante che riaffiora, ad intervalli, nei suoi scritti e nei suoi atti. Si giudichi attraverso questi brevi richiami: nel 1848, “il movimento proletario è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza” [25]; nel 1864, “l’emancipazione della classe operaia deve essere opera degli stessi lavoratori” [26]; nel 1866 “l’opera dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori è di generalizzare e di unificare i movimenti spontanei della classe operaia, ma non di prescrivere loro o imporre loro un sistema dottrinario qualunque” [27]; nel 1868 “l’Associazione Internazionale dei Lavoratori (…) non è figlia né di una setta né di una teoria. Essa è il prodotto spontaneo della classe proletaria [28]; nel 1871, dopo la Comune, “sarebbe disconoscere del tutto la natura dell’Internazionale parlare di istruzioni segrete provenienti da Londra (…) di qualche centro pontificale di dominio e d’intrigo (…). Di fatto, l’Internazionale non è affatto il governo della classe operaia, è un legame, non è un potere” [29]. Il 17 settembre 1879: “Abbiamo formulato, durante la creazione dell’Internazionale, la massima della nostra lotta: l’emancipazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa. Non possiamo, di conseguenza, far rotta comune con della gente che dichiarano apertamente che gli operai sono troppo incolti per liberarsi da sé, e che devono essere liberati dall’alto, e cioè da grandi e piccolo borghesi filantropi” [30].

Marx non ha mai voluto essere alla testa di un partito settario che non rappresentasse che una parte della classe operaia; sin dal 1848, precisava: “I comunisti non formano un partito distinto di fronte agli altri partiti operai. Non hanno interessi distinti da quelli del proletariato nel suo insieme” [31]. In una lettera a Freiligraph, Marx aggiunge: “con il termine partito, intendo partito nel grande senso storico”, e cioè la causa dell’insieme del proletariato. Non si tratta di pavoneggiarsi sui podi o durante i convegni, ma di comprendere, di far comprendere, e, con questo, sollecitare il movimento storico della società di classe verso il suo superamento. I pettegolezzi e i piccoli intrighi della vita politica dei partiti sono sempre risultati sgradita Marx; come scriveva a Engels, l’11 febbraio 1851, era irritato di essere portato ad avallare indirettamente delle prese di posizione, a sentirsi legato da delle dichiarazioni ‘di somari’ e a subirne il ridicolo. Due giorni più tardi, il 13 febbraio 1851, Engels risponde: “Abbiamo l’occasione di mostrare che non abbiamo bisogno né di popolarità né del ‘sostegno’ di qualunque partito (…). Come potrebbero delle persone come noi, che fuggono come la peste dalle situazioni ufficiali, essere di un partito? Cosa importa a noi di un partito, noi che sputiamo sulla popolarità?”. Non si vuole spesso vedere, in queste lettere, che il segno di un’irritazione passeggera. La prova si dice, che non si tratta che di accessi di cattivo umore, è che Marx ha aderito in seguito, nel 1864, all’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ecco appunto ciò che ne pensava Marx, in una lettera a Engels, del 26 dicembre 1865: “In quanto all’Associazione Internazionale, essa mi pesa come un incubo e sarei contento di potermene sbarazzare”. Marx non assiste al congresso di Bruxelles del 1868, pensando di essere più utile alla classe operaia continuando la sua opera teorica. Applicava così la consegna data da Engels, diciasette anni prima: “l’essenziale è di farci stampare” [32]. Non verrà in mente a nessuno che, così dicendo, Marx o Engels miravano a una gloria letteraria qualunque. Ma il movimento autonomo dell’emancipazione proletaria è, allo stesso tempo, una presa di coscienza e quest’ultima diventa presto un fattore complementare del movimento di emancipazione. Certo, “l’arma della critica non potrebbe sostituire la critica delle armi, la forza materiale deve essere rovesciata dalla forza materiale. Ma la teoria si trasforma, anch’essa, in forza materiale non appena afferra le masse” [33]. È dunque sui luoghi di lavoro stessi che gli operai devono capire concretamente le modalità di sfruttamento della loro forza lavoro da parte della classe dominante. Il ruolo del teorico è di rendere visibile quest’invisibile quotidiano così come Galilei ha spiegato il movimento apparente del sole, scardinando per sempre al contempo la mitologia religiosa precedente. Chi non capisce, da allora, che per Marx, militare non è giocare allo stratega negli stati maggiori del comitato federale o del comitato centrale, con la pretesa di comandare, dall’esterno, la manovra. Sono i lavoratori i soli capaci non soltanto di organizzare, autogestire le loro lotte, ma anche d’instaurare, all’interno stesso della vecchia società, le nuove strutture di una cooperazione egualitaria e fraterna che non ha nulla a che fare con capi e dirigenti. Nel suo Speech on the Anniversary of the People’s Paper, il 19 aprile 1856, Marx metteva in risalto che le rivoluzioni risultano dia da cause economiche e scoperte scientifiche e tecniche che dall’azione dei cosiddetti “agitatori”; diceva, infatti: “Vapore, elettricità e macchine tessili avevano un carattere altrettanto pericoloso quanto gli stessi cittadini Barbès, Raspail e Blanqui” [34].

Quindici anni più tardi, a Kugelmann che contestava, in una lettera del 15 aprile 1871, l’opportunitàdell’insurrezione della Comune perché la sconfittapriverebbe “di nuovo gli operai dei loro capi”, Marx rispose, il 17 dello stesso mese: “La smobilitazione della classe operaia sarebbe stata una sciagura ben più grande della perdita di un qualunque numero di ‘capi’”. (le virgolette sulla parola capo sono di Marx). Così non si può insistere ulteriormente sul fatto che Marx non lo faccia sulle capacità di auto-emancipazione della classe operaia che può, non soltanto autogestire la sua lotta, ma autogestire la produzione, il che è inoltre il mezzo più radicale di sopprimere l’alienazione e lo sfruttamento. Così, in questa dialettica, la realizzazione dello scopo finale non si separa dalla creazione di mezzi specifici per raggiungerlo. L’autogestione delle lotte è una condizione dell’autogestione della produzione e viceversa. Certo questa conquista dell’autonomia attiva non può essere che progressiva e spuria come Marx spiegava a Bakunin, ma il compito del rivoluzionario è di chiarire quest’impresa, di “aderire” e di “aderirvi”. Non appena l’organizzazione ha pretesa liberatrice diventa una specie di istituzione esterna, che funziona in quanto strumento di lotta per gli operai invece di essere una bozza di nuova organizzazione della produzione stessa, Marx se ne disinteressa e soffre di farne parte. Non vi è nemmeno da distinguere tra autogestione delle lotte e autogestione della produzione perché queste due forme di emancipazione si condizionano reciprocamente.

Ma si obietterà, forse, che queste non sono che deduzioni a partire dal “montaggio abile” di alcuni testi. Si deve dunque vedere, più precisamente ciò che Marx dice egli stesso dal fondo del dibattito poiché egli lo ha affrontatoin un gran numero di testi che le interpretazioni dei diversi apparati dei partiti politici marxisti hanno lasciato nell’ombra.

NOTE

[1] Tuttavia, Pero Damjanovic ha già pubblicato sulla rivista Praxis (1962, 1, pp. 39-54) un articolo intitolato: “Le concezioni di Marx sull’autogestione sociale”. L’autore sostiene che “l’autogestione è immanente alla classe operaia

l’autogestion est immanente à la classe ouvrière et à son mouvement de libération ». Il se réfère à Marx qui lui semble – depuis ses écrits de jeunesse où il dénonce l’individu abstrait laminé par l’État – avoir toujours pensé que seules les associations autonomes des producteurs pourront réaliser la vraie liberté. Malheureusement, dans son article, Pero Damjanovic reste allusif et ne donne pas les références précises des textes sur lesquels il s’appuie. Il nous paraît également avoir laissé de côté des aspects importants.

(2) Ed. Sociales, livre I, tome III, p. 205. Voir aussi 1. 1, p. 19.

(3) Bibliothèque de la Pléiade, Économie, I, p. 173.

(4) Boukharine, L’Économie mondiale et l’impérialisme, p. 131. Il va sans dire que Boukharine présente cet « argument » comme un « sophisme ».

(5) L’impérialisme, stade suprême du capitalisme, œuvres complètes, t. XXII, p. 291.

(6) « Pour ce qui est du « canard » souabe, ce serait un coup amusant que de duper l’ami de Vogt, ce Mayer souabe » (lettre de Marx à Engels du 7 décembre 1867).

(7) Ibid.

(8) Pléiade, t. I, p. 550.

(9) Ibid., (chap. XXXI) p. 1213.

(10) Manifeste communiste. Pléiade, p. 171. (…) 204-205. De ce fait les forces, dites réactionnaires, ne peuvent jouer qu’un rôle de frein.

(11) Dernier paragraphe du Manifeste communiste. Voir également la lettre d’Engels à Marx du 23 octobre 1846.

(12) Karl Kautsky, Die Diktatur des des Proletariats, Vienne, 1918, p. 20. La « lettre » dont parle Kautsky désigne les « Gloses marginales au programme du Parti ouvrier allemand », dit Programme de Gotha, envoyées à W. Bracke le 5 mai 1875.

(13) H. Draper a rassemblé onze textes – et même quatorze si on compte à part les variantes – qui se rapportent à cette question (« Marx and the Dictatorship of the Proletariat », in Cahiers de l’ISEA (Etudes de marxologie), série S (6) sept. 1962, pp. 5-73).

(14) Contribution à l’histoire de la question de la dictature, œuvres complètes, Moscou, 1961, t. 31, p. 363.

(15) Max Adler, Démocratie politique et démocratie sociale, Paris, Ed. Anthropos, 1970, p. 140.

(16) Manifeste communiste, Pléiade, p. 172.

(17) Manifeste communiste, Pléiade, p. 183.

(18) Lénine fait allusion à ce texte dans sa polémique contre Kautsky et il essaye de l’expliquer par l’absence « du militarisme et de la bureaucratie », dans les années 70, en Angleterre et en Amérique (…)

(20) Ed. sociales, p. 17.

(21) Voir Rosa Luxemburg dans Le programme de la ligue Spartacus ; Kautsky, dans Le chemin du pouvoir éd. Anthropos, 1969, p. 162 ; Otto Bauer divers textes, in : Otto Bauer et la Révolution Paris.

(22) Pour un aperçu d’ensemble voir notre livre : Communisme et marxisme, chapitre 3.

(23) Konspekt von Bakunin Buch, « Staatlichkeit und Anarchie», in Marx . Engels Werke, Dietz, Berlin, t. 18, p.634 et sq., partiellement traduit par Rubel dans Pages de Karl Marx… Paris, Payot, 1970, t. 2.

[24] Zola mette in bocca a Souvarine una delle possibili “risposte” degli anarchici, “Il vostro Karl Marx vuole ancora lasciar agire le forze naturali. Niente politica, niente cospirazione, non è così? [Tutto alla luce del giorno, e unicamente attraverso l’aumento dei salari… Lasciatemi in pace con la vostra evoluzione! Incendiate i quattro angoli delle città…”, Emile Zola, Germinal.

(25) Manifeste communiste, Pléiade, p. 172.

(26) Statuts de l’AIT, ibid., p. 469.

(27) Résolutions du premier congrès de l’AIT, Pléiade, tome 1, p. 1469.

(28) Cité par M. Rubel, Etudes de marxologie, août 1964, p. 4.

(29) Ibid., p. 4.

[30] Lettera circolare indirizzata da Marx e Engels ai dirigenti della socialdemocrazia tedesca (citata da Rubel, in Cahiers de l’ISEA., nov. 1970, p. 2013.)

[31] Le Manifeste communiste, La Pléiade, p. 174

[32] Lettera del 13 febbraio 1851, Costes, Parigi, t. 2, p. 48.

[33] Introduzione a Per la critica della filosofia hegeliana del diritto.

[34] Traduzione di Rubel in “La Nef”, n.43, giugno 1948, p. 67.

(30) Lettre circulaire adressée par Marx et Engels aux chefs de la social-démocratie allemande (citée par M. Rubel, in Cahiers de l’ISEA (Etudes de marxologie), nov. 1970, p. 2013.)

(31) Le Manifeste communiste, La Pléiade, p. 174. Sur la conception marxienne du parti, voir Maximilien Rubel, « Remarques sur le concept du parti prolétarien chez Marx », 1961.

(32) Lettre du 13 février 1851, Costes, Paris, t. 2, p. 48.

(33) Introduction à la critique de la philosophie hégélienne du droit, 1844.

(34) Traduction Rubel in La Nef, N. 43, juin 1948, p. 67.

 

Marxismo libertario. Maximilien Rubel – Karl Marx e il primo partito operaio; da: “Masses (socialisme et liberté)”, n°13, febbraio 1948.

Karl Marx e il primo partito operaio [1]

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Maximilien Rubel

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Il postulato dell’autoemancipazione proletaria attraversa, come un leit-motiv, tutta l’opera di Marx. È l’unica chiave per una giusta comprensione dell’etica marxiana. Ha ispirato tutte le procedure, teoriche e politiche, di Karl Marx, dal 1844, quando, in La Sacra Famiglia, scriveva che “Il proletariato può e deve liberarsi da se stesso”, attraverso le vicissitudini dell’Internazionale operaia la cui massima, proclamata da Marx, era: “L’emancipazione della classe operaia deve essere opera della stessa classe operaia”, sin agli ultimi primi anni della sua vita, quando, preoccupato dalla sorte della rivoluzione russa, pose tutte le sue speranze nella plurisecolare obchtchina e i suoi contadini [2].

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La forza — o la debolezza — dell’etica marxiana, è la sua fede nell’uomo che soffre e nell’uomo che pensa: — nell’uomo medio — tipo umano più numeroso — e nell’uomo eccezionale, pronto a far sua la causa del primo. Tra i due tipi umani si pone la minoranza onnipotente degli oppressori, padroni dei mezzi di vita e di morte, che ha al suo soldo un esercito che si rinnova senza posa di valletti della spada e della penna, che hanno come missione di mantenere lo statu quo o di ristabilirlo ogni volta che coloro che soffrono e coloro che pensano si uniscano per porvi fine, sognando di instaurare non il cielo sulla terra, ma semplicemente la città umana su una terra umana.

L’unione degli esseri sofferenti e degli esseri pensanti non è concepita da Marx come un’alleanza tra degli esseri che si attribuiscono dei compiti differenti, dal punto di vista di una divisione razionale del lavoro, i primi essendo condannati alla miseria e alla rivolta cieca contro la loro condizione inumana, i secondi aventi la vocazione di pensare per i primi, e di fornire a quest’ultimi delle verità bell’e pronte. A questo proposito, Marx si è espresso con una nettezza che esclude ogni ambiguità, sin dal 1843 in una lettera a Ruge: L’intesa di coloro che soffrono e di coloro che pensano è in verità un’intesa tra “l’umanità sofferente che pensa, e l’umanità pensante che è oppressa”. In altri termini i proletari devono elevare l’opinione che essi hanno della loro miseria all’altezza di una coscienza teorica che dia alla miseria proletaria un significato storico e che, allo stesso tempo, permetta alla classe operaia di elevarsi alla comprensione dell’assurdità della sua condizione. Se “l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi”, se “la forza materiale non può essere rovesciata che dalla forza materiale”, non resta tuttavia non meno valido il fatto che “la teoria si muti, essa stessa, in forza materiale, non appena essa ha afferrato le masse”.

L’immagine del movimento rivoluzionario non è quella delle folle sofferenti e prive di coscienza guidate da un’élite di uomini chiaroveggenti, che patiscono la miseria, ma quella di una sola massa di esseri in stato permanente di rivolta e di rifiuto, coscienti di ciò che sono, vogliono e fanno.

Certo le aspirazioni radicali del proletariato nascono, molto spesso, spontaneamente, per il solo effetto di una situazione avvilente. Ma è allora che essi appaiono degli esseri che sentono la degradazione dell’uomo di massa come un’offesa inflitta alla loro propria dignità di uomini pensanti. Essi intravedono e annunciano per primi la possibilità e la necessità di una rivoluzione radicale, che trasformi le fondamenta materiali e il volto spirituale della società. Essi si uniscono al proletariato, di cui sentono i bisogni e gli interessi come i propri, e se ne fanno gli educatori alla maniera socratica, insegnando loro a pensare da sé. Gli insegnano, innanzitutto, che la lotta di classe non è soltanto un fatto storico, e cioè un fenomeno costante della storia passata, ma anche un dovere storico, e cioè un compito da compiere in piena conoscenza di causa, un postulato etico che, coscientemente posto in applicazione, evita all’umanità le miserie ineffabili che una civiltà tecnica giunta all’apogeo della sua potenza materiale non può mancare di generare per quanto a lungo si sviluppi seguendo le sue proprie leggi, e cioè, seguendo le leggi del caso. Mentre i predicatori religiosi o moralizzanti si danno da fare per apportare ai diseredati la consolazione di una redenzione o di una purificazione attraverso la sofferenza volontariamente accettata, i pensatori socialisti insegnano loro che essi sono la vittima di un meccanismo sociale di cui essi stessi sono i principali ingranaggi e che essi possono, di conseguenza, far funzionare per il vantaggio materiale e morale di tutta l’umanità, lo sviluppo storico avendo permesso all’homo faber di accedere a quella “totalità” delle forze produttive che favorisce la comparsa dell'”uomo totale”: “Di tutti gli strumenti di produzione, il più grande produttivo è la classe rivoluzionaria stessa (Anti-Proudhon).

Il carattere etico del postulato dell’auto-emancipazione del proletariato è ampiamente dimostrato dall’idea che Marx si faceva del partito operaio. E’ noto che nessuno dei partiti proletari che Marx ha visto costituirsi o ha aiutato a far nascere gli sembravano corrispondere a quest’idea. Ma ciò che si sa meno, è il fatto, – strano a prima vista – che, anche dopo la dissoluzione della Lega dei comunisti e durante tutto il periodo precedente la fondazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, Marx non ha smesso di parlare del “partito” come di una cosa esistente. La sua corrispondenza con Lassalle e Engels è, a questo proposito, estremamente significativa. In numerose lettere scambiate tra i tre amici, nel corso di questo periodo, si discute del “nostro partito”, mentre nessuna organizzazione politica degli operai esisteva realmente. Ma molto più rivelatrici sono, per il problema evidenziato, le lettere di Marx a Ferdinand Freiligrath, il cantore rivoluzionario degli anni 1848- 1849, al momento dell’affare Vogt. Freiligrath era appartenuto alla Lega dei comunisti e aveva pubblicato i suoi versi incandescenti sulla Nuova Gazzetta Renana diretta da Marx. Viveva, come quest’ultimo, a Londra, dove occupava, in una banca, un impiego “onorevole”. Il suo nome essendo stato associato agli intrighi che si preparavano in rapporto alle calunnie sparsa da Vogt sul conto di Marx e del suo “partito”, Freiligrath intraprese dei tentativi per essere esentato dall’obbligo di figurare come testimone a carico contro contro Vogt, nei processi intentati da Marx a Londra e a Berlino.

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Marx tentò in una lettera il cui tono caloroso non cede in nulla al rigore politico, di convincerlo che i processi contro Vogt erano “decisivi per la rivendicazione storica del partito e per la sua ulteriore posizione in Germania” e che non era possibile lasciare Freiligrath fuori dal gioco, “Vogt”, gli scrisse Marx, “tenta di trarre profitto dal tuo nome e finge di agire con la tua approvazione infangando l’intero partito, si vanta di averti tra i suoi sostenitori… Se abbiamo coscienza entrambi di aver, ognuno a proprio modo e nel disprezzo di tutti i nostri interessi personali, mossi dai moventi più puri, agitato per anni la bandiera al di sopra delle teste dei filistei, nell’interesse della ‘classe la più lavoratrice e la più miserabile’, sarebbe, io credo, un peccato meschino contro la storia, se ci urtassimo per delle bazzecole che poggiano su dei malintesi”.

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Freiligrath, pur assicurando Marx circa la sua amicizia indefettibile, puntualizzerà nella sua risposta che, se egli intendeva rimanere fedele alla causa proletaria, si considerava tuttavia tacitamente disimpegnato da ogni obbligo nei confronti del “partito”, dalla dissoluzione della Lega comunista. “Alla mia natura”, egli scrisse, “così come a quella di ogni poeta, occorre la libertà! Il partito somiglia, anch’esso, a una gabbia, e si può comporre meglio, anche per il partito, dall’esterno piuttosto che dall’interno. Sono stato un poeta del proletariato e della rivoluzione, per molto tempo prima di essere stato membro della Lega e membro della redazione della Nuova Gazzetta Renana! Voglio dunque continuare a volare con le mie ali, non voglio appartenere che a me stesso e voglio io stesso disporre interamente di me!”. Nella parte conclusiva, Freiligrath non mancò di far allusione a “tutti gli elementi dubbiosi e abietti… che si erano accollati al partito” e di evidenziare la sua soddisfazione di non farne più parte, “non fosse che per il gusto della pulizia”.

La replica di Marx, a più di un titolo, presenta un interesse particolare per ciò che costituisce, accanto al Manifesto del partito comunista e alla Critica del programma di Gotha uno dei rari documenti suscettibili di chiarire uno dei problemi più importanti, se non il più importante, dell’insegnamento marxiano, problema sul quale la più grande confusione non smette di regnare negli spiriti marxisti.

Ricordando a Freiligrath che la dissoluzione della Lega comunista aveva avuto luogo (nel 1852) su sua proposta, Marx dichiara che dopo quell’avvenimento non è appartenuto e non appartiene a nessuna organizzazione segreta o pubblica: “Il partito”, egli scrive, ” compreso in senso essenzialmente effimero, ha smesso di esistere per me da otto anni”. In quanto alle discussioni sull’economia politica che egli aveva fatto dopo la pubblicazione del suo Per la critica dell’economia politica (1859), esse erano destinate non a qualche organizzazione chiusa ma a un piccolo numero di operai scelti tra i quali vi erano anche vecchi membri della Lega comunista. Sollecitato da alcuni comunisti americani di riorganizzare la vecchia Lega, egli aveva risposto che dal 1852 non era più in relazione con nessuna organizzazione di alcun genere: “Risposi… che avevo la ferma convinzione che i miei lavori teorici erano più utili alla classe operaia della mia collaborazione con delle organizzazioni, che, sul continente, non avevano più alcuna ragione di essere”. Marx prosegue: “Dunque, dal 1852, non so nulla di un “partito” in senso letterale. Se sei un poeta, io sono un critico e ne avevo veramente abbastanza delle mie esperienze fatte tra il 1849 e il 1852. La Lega, – così come la Società delle stagioni di Parigi e come cento altre società, – non era che un episodio nella storia del partito il quale nasce spontaneamente dal terreno della moderna società [3]”. Poco oltre leggiamo: “La sola azione che ho continuato dopo il 1852 per quanto tempo ciò era necessario, e cioè sino alla fine del 1853…, era il system of mockery and contempt (4)… contro gli inganni democratici dell’emigrazione e le sue velleità rivoluzionarie”… Marx parla allora degli elementi sospetti menzionati da Freiligrath appartenuti alla Lega. Gli individui nominati non erano in realtà mai stati membri di quell’organismo.

E Marx aggiunge: “E’ certo che nelle tempeste, il fango viene agitato, che nessuna era rivoluzionaria profuma di acqua di rose, che in certi momenti si raccolgono ogni genere di rifiuti. Presentemente, quando si pensa agli sforzi giganteschi diretti contro di noi da tutto quel mondo ufficiale che, per rovinarci, non si è accontentato di sfiorare il delitto penale, ma vi si è immerso sino al collo; quando si pensa alle calunnie sparse dalla ‘democrazia dell’imbecillità’ che non ha mai potuto perdonare al nostro partito operaio di aver avuto più intelligenza e carattere di quanto essa non ne avesse mai avuto, quando si conosce la storia contemporanea di tutti gli altri partiti e quando, infine, ci si domanda ciò che si potrebbe realmente rimproverare al partito intero, si deve giungere alla conclusione che questo partito, in questo XIX secolo, si distingue brillantemente per la sua pulizia. Possiamo, con le usanze e i traffici borghesi, sfuggire all’infangamento? E’ proprio nel traffico borghese che essi sono al loro posto naturale… Ai miei occhi, l’onestà della morale solvibile… non è in nulla superiore all’abietta infamia che né le prime comunità cristiane né i club dei giacobini né la nostra defunta Lega non sono riuscite a eliminare dal loro interno. Soltanto che, vivendo nell’ambiente borghese, si prende l’abitudine di perdere il senso dell’infamia rispettabile o dell’infame rispettabilità”.

La lettera, la cui maggior parte è dedicata a delle questioni di dettaglio del processo contro Vogt, termina con queste frasi: “Ho cercato… di dissipare il malinteso a proposito di un ‘partito’: come se, con questo termine, intendessi una ‘Lega’ sparita da otto anni o una redazione di giornale dissolta da dodici anni. Con partito, intendevo il partito in senso eminentemente storico”.

Il partito in senso eminentemente storico, – era per Marx il partito invisibile del sapere reale piuttosto che il sapere dubbio di un partito reale, detto altrimenti, egli non concepiva affatto che un partito operaio, qualunque esso fosse, potesse incarnare, per il semplice fatto della sua esistenza, la “coscienza” o il “sapere” del proletariato [5].

Durante gli anni in cui Marx su teneva ai margini di ogni attività politica dedicandosi esclusivamente a un lavoro scientifico massacrante, non smetteva mai, quando gli si presentava l’occasione, di parlare in nome dell’invisibile partito di cui si sentiva responsabile. Così, nel 1859, ricevendo una delegazione del club operaio di Londra, non temeva di dichiarare loro che si considerava, insieme a Marx, come il rappresentante del “partito proletario”. Lui e Engels diceva, non traevano questo mandato che da se stessi, ma quest’ultimo sarebbe “controfirmato dall’odio esclusivo e generale” che votano loro “tutte le classi del vecchio mondo e tutti i partiti”.

Quando, durante gli anni 60, si assiste alla rinascita del movimento operaio nei paesi dell’occidente, Marx valutava che il movimento era venuto per “riorganizzare politicamente il partito dei lavoratori” e per proclamarne di nuovo apertamente gli scopi rivoluzionari. Nello spirito di Marx, l’Associazione Internazionale dei Lavoratori era la continuazione della Lega dei Comunisti di cui egli aveva, insieme a Engels, definito il ruolo, alla vigilia della rivoluzione di Febbraio. La Lega non doveva essere un partito tra gli altri partiti operai, essa aveva uno scopo più elevato, perché più generale: rappresentare in ogni momento “l’interesse del movimento totale” e “l’avvenire del movimento”, indipendentemente dalle lotte quotidiane condotte su scala nazionale da parte dei partiti operai. L’Internazionale operaia, fondata a Londra nel 1864 in circostanze incomparabilmente più favorevoli nel 1847 della Lega dei Comunisti nella stessa città, doveva essere al contempo l’organo delle aspirazioni comuni dei lavoratori e l’espressione vivente del loro sapere teorico e della loro intelligenza politica. L’Associazione Internazionale dei Lavoratori era, secondo Marx, il partito proletario, la manifestazione concreta della solidarietà degli operai nel mondo. “Gli operai”, scriveva Marx nell’Indirizzo inaugurale, hanno tra le loro mani un elemento di successo: il loro numero. Ma il numero non pesa sulla bilancia se non è unito dall’organizzazione e guidato dal sapere”.

Per Marx, l’Internazionale operaia era il simbolo vivente di quell'”alleanza della scienza e del proletariato” alla quale Ferdinand Lassalle, prima di scomparire, aveva legato il suo nome. L’internazionale non potendo più, dopo la caduta della Comune di Parigi, svolgere il ruolo che gli assegnava il suo protagonista, quest’ultimo preferì una volta di più riprendere il suo lavoro, preso dal desiderio di lasciare alle generazioni operaie future uno strumento perfetto di autoeducazione rivoluzionaria. Marx fu il primo a riconoscere che “le idee non possono mai portare oltre un vecchio stato del mondo” e che “per realizzare le idee, ci vogliono degli uomini che pongano in opera una forza pratica” (La sacra famiglia). Ma se è vero che le idee non possono condurre che “al di là delle idee del vecchio stato del mondo”, ne consegue che la vera metamorfosi del mondo implica al contempo la trasformazione delle cose e quella delle coscienze”, e che il tipo dell’uomo vivente in stato permanente di rivolta e di rifiuto è, in qualche modo, un’anticipazione del tipo umano della città futura, dell'”uomo integrale”.

Maximilien Rubel

[Traduzione di Massimo Cardellini]

NOTE

[1] Articolo di Maximilien Rubel uscito in Masses (socialisme et liberté) N° 13 (febbraio 1948). Il titolo reca una prima nota: Frammento di una Introduzione all’etica marxiana in uscita presso M. Rivière.

[2] Cfr. Karl Marx e il socialismo populista russo, in La Revue socialiste, maggio 1947.

[3] Sottolineato da me (M. R.).

[4] “La beffa e il disprezzo sistematici” (M. R.).

[5] Engels non la pensava d’altronde diversamente, a giudicare dalle lettere che egli indirizzava a Marx durante la crisi attraversata dalla Lega. Eccone un campione: “Cosa abbiamo da cercare in un ‘partito’, noi che fuggiamo come la peste le posizioni ufficiali, che ci importa, a noi che sputiamo sulla popolarità, e che dubitiamo di noi stessi quando cominciamo a diventare popolari – un partito, e cioè una banda di asini che giurano su di noi, perché ci credono nostri simili?” (13 febbraio 1851).

Marxismo libertario. Daniel Guerin – Dall’autogestione alla burocrazia sovietica, 1917-1921; da: “A la recherche d’un communisme libertaire”, 1981.

Dall’autogestione alla burocrazia sovietica, 1917-1921

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Daniel Guérin

Testo dell’intervento di Daniel Guérin durante il colloquio “De Kronstadt à Gdansk”, organizzato nel novembre 1981 e pubblicato in: A la recherche d’un communisme libertaire.

Dopo la rivoluzione di Febbraio 1917, gli operai s’impadroniscono delle fabbriche e si organizzano in comitati o consigli. Essi prendono così alla sprovvista i professionisti della rivoluzione. Per ammissione dello stesso Lenin, le masse operaie e contadine sono allora “cento volte più a sinistra” dei bolscevichi.

Tuttavia il partito bolscevico, benché ancora minoritario, è la principale forza politica rivoluzionaria organizzata. Guarda con sospetto le diverse strutture che gli fanno ombra. La tendenza alla socializzazione è dapprima canalizzata dal controllo operaio. Il decreto del 14 novembre 1917 legalizza la partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese, nel calcolo del prezzo di ricavo, abolisce il segreto commerciale, obbliga i padroni a esibire la loro corrispondenza e i loro conti. I leader della rivoluzione non vogliono andare oltre. Nell’aprile del 1918, prendono in considerazione ancora la costruzione di società miste per azioni, alle quali parteciperebbe, insieme allo Stato sovietico, il capitale russo e straniero.

Tuttavia, sin dalla primavera del 1917, la classe operaia, organizzata nelle sue proprie istituzioni, i comitati di fabbrica, ha affermato concretamente la sua volontà di superare queste misure transitorie e opposte spesso di fatto al controllo operaio dei bolscevichi la sua propria visione dei compiti del momento: la gestione operaia.

Soltanto gli anarchici avanzavano allora delle parole d’ordine di occupazione delle terre e delle fabbriche, di espropriazione della borghesia e di soppressione della proprietà privata.

Il 20 ottobre 1917, alla alla prima Conferenza panrussa dei comitati di fabbrica, una mozione richiede “il controllo della produzione”, precisando: “Le commissioni non devono essere soltanto  delle commissioni di verifica ma […] le cellule del futuro che, sin da ora, preparano il trasferimento della produzione nelle mani degli operai”. In quanto ai capitalisti, essi oppongono la più viva resistenza all’applicazione del decreto sul controllo operaio e continuano  a rifiutare l’ingerenza dei lavoratori nella produzione. Gli operai rispondono a questo boicottaggio impadronendosi della fabbrica e rimettendola in funzione per loro proprio conto. Molto presto il controllo operaio deve cedere il posto alla socializzazione.

Per molti mesi dopo la rivoluzione questo movimento, già impegnato prima di ottobre, va amplificandosi. I lavoratori assumono un ruolo crescente nell’insieme dei problemi di gestione di numerose imprese. In molte di loro, dopo la fuga dei vecchi proprietari o la loro espropriazione, essi sono oramai i soli padroni.

Questo movimento spontaneo della classe operaia è all’opposto dell’ideologia tradizionale di Lenin e del Partito bolscevico. Da lunga data, dopo il Che fare? del 1902, sono degli autoritari, appassionati dalle nozioni di Stato, di dittatore, di centralizzazione, di partito dirigente, di gestione dell’economia dall’alto, tutte cose in contraddizione con una concezione libertaria della democrazia sovietica.

Nel suo libro Stato e Rivoluzione, redatto e non terminato alla vigilia dell’insurrezione d’Ottobre, Lenin prende come modello il capitalismo di Stato tedesco, l’economia di guerra (Kriegswirtschaft). Egli esalta il monopolio delle Poste: “Che meccanismo ammirabilmente perfezionato! Tutta la vita economica organizzata come la Posta […] ecco lo Stato, ecco la base economica che ci occorre”. Fare a meno di “autorità” e di “subordinazione”, sono questi, egli afferma seccamente, dei “sogni anarchici”. Tutti i cittadini diventano “gli impiegati e operai di un solo trust universale di Stato”, tutta la società p convertita in “un grande ufficio e una grande fabbrica”.

Soltanto, dunque, delle considerazioni d’ordine tattico hanno spinto nel 1917 i bolscevichi a sostenere delle pratiche che, come quelle dei comitati di fabbrica, andavano contro le loro convinzioni più profonde. Ma si metteranno contro di loro una volta al potere.

La contraddizione tra il linguaggio formalmente libertario e i tratti autoritari del pensiero leninista è così flagrante che si tradurrà ben presto nei fatti. E’ accelerata dalla disorganizzazione dei trasporti, la penuria di tecnici e, soprattutto, dalle terribili circostanze della guerra civile, dall’intervento straniero. I dirigenti bolscevichi sono spinti ad assumere delle misure eccezionali, la dittatura, la centralizzazione, il ricorso al “pugno di ferro”.

Il potere alla base non durerà di fatto che per qualche mese, dall’ottobre 1917 alla primavera del 1918. Molto presto, i comitati di fabbrica sono spogliati delle loro attribuzioni.

Così, il decreto del 14 novembre 1917, già citato, dopo aver precisato i poteri dei comitati di fabbrica, si affretta di definire i limiti – ristretti –  della loro autonomia. Il controllo operaio “instaurato nell’interesse di una regolamentazione pianificata dell’economia nazionale” (articolo 1) è organizzato su un modello piramidale e gerarchizzato, i comitati di fabbrica sottoposto allo stretto controllo di un “consiglio generale di controllo operaio”, la cui composizione è decisa dal partito.

Nei fatti, le intenzioni dei bolscevichi sono chiare: si tratta per essi di integrare i comitati di fabbrica nell’insieme delle organizzazioni statali, nella loro propria logica di un’economia centralizzata e, di fatto, burocratizzata.

Due concezioni del controllo operaio si oppongono allora: quella dei bolscevichi che pensano a un controllo esercitato dallo Stato, e quello dei comitati di fabbrica che esigono che il controllo sia esercitato dagli stessi operai, e che affermano così la loro volontà autogestionaria.

Il movimento dei comitati di fabbrica è diventato fastidioso. Esso è rapidamente soffocato dai bolscevichi che l’annettono ai sindacati aspettando di sottoporre i sindacati stessi.

Il pretesto invocato è che l’autogestione non terrebbe conto dei bisogni “razionali” dell’economia, che genererebbe un egoismo di impresa che si farebbero l’un l’altra concorrenza, contendendosi magre risorse, volendo ad ogni costo sopravvivere, benché altre fabbriche siano più importanti “per lo Stato” e meglio equipaggiate.

Di fatto i bolscevichi si oppongono a ogni tentativo fatto da parte dei comitati di fabbrica per formare la loro propria organizzazione nazionale, giungendo perfino a vietare, usando i sindacati, che essi già controllavano, la tenuta di un congresso panrussa dei comitati. Questa è l’ipocrisia di un partito che, da una parte, rimprovera ai comitati di fabbrica la loro visione cosiddetta localistica e che dall’altra, vieta loro di federarsi per dedicarsi proprio ai problemi dell’economia su una scala regionale e nazionale.

Ma la centralizzazione non è che un aspetto della concezione bolscevica dell’economia di transizione.  Lenin non tarda a porre in rilievo le sue preferenze per la “volontà di uno solo” nella gestione delle fabbriche. I lavoratori devono obbedire “incondizionatamente” alla volontà unica dei dirigenti del processo del lavoro. Allo stesso tempo preconizza l’introduzione del taylorismo e del salario a cottimo nelle fabbriche sovietiche.

Con il nome di “specialisti”, vecchi membri delle classi sfruttatrici sono reintegrati all’interno delle imprese nelle loro funzioni e loro privilegi.

Si è molto discorso su queste decisioni: per molti, il ricorso agli specialisti borghesi era necessario alla ricostruzione dell’economia. Conviene qui ricordare che il “Manuale pratico per l’esecuzione del controllo operaio nell’industria” una specie di manifesto dei comitati di fabbrica di Pietrogrado, menzionava la possibilità di una partecipazione dei tecnici alle istanze di controllo, con voce consultiva.Ciò che gli operai contestano dunque, non è la presenza di questi specialisti, né l’utilità di alcune loro competenze, ma bensì il ristabilimento delle loro posizioni gerarchiche e dei loro privilegi, soprattutto salariali.

Per di più l’amministrazione è invasa da numerosi elementi piccolo-borghesi, residui dell’antico capitalismo russo, che essendosi adattati velocemente alle istituzioni sovietiche, si sono fatte attribuire dei posti di responsabile nei diversi commissariati in attesa che sia loro affidata la gestione economica.

Si assiste alla crescente immissione della burocrazia di Stato nell’economia. Il Congresso panrusso dei consigli dell’economia (26 maggio – 4 giugno 1918) decide la formazione di direzione d’impresa di cui i due terzi dei membri sono nominati dai consigli regionali o il Consiglio superiore dell’economia e il terzo terzo eletto soltanto sul posto dagli operai. Il decreto del 28 maggio 1918 estende la collettivizzazione all’insieme dell’industria, ma, allo stesso tempo, trasforma le socializzazioni spontanee dei primi mesi della rivoluzione in semplici nazionalizzazioni. È il Consiglio superiore dell’economia che è incaricato di organizzare l’amministrazione delle imprese nazionalizzate. I direttori e quadri tecnici rimangono in funzione in quanto incaricati dallo Stato.

Per la facciata, delle elezioni ai comitati di fabbrica continuano ad aver luogo, ma un membro della cellula comunista dà lettura di una lista di candidati elaborata in anticipo e si procede al voto per alzata di mano, in presenza delle “guardie comuniste”, armate, dell’impresa. Chiunque si dichiara contro i candidati proposti si vede infliggere delle sanzioni pecuniarie (declassamento di salario, ecc.). I rapporti tra gli operai e questo nuovo padrone ridivengono quelli esistiti un tempo tra il lavoro e il capitale.

“Volete diventare le cellule statali di base”, dichiara Lenin il 27 giugno 1918, al Congresso dei comitati di fabbrica. Quest’ultimi non hanno più che l’ombra di un potere. Oramai il “controllo operaio” è esercitato da un organismo burocratico: l’ispezione operaia e contadina.

La classe operaia non reagisce né abbastanza velocemente, né abbastanza vigorosamente. Essa è dispersa, isolata in un immenso paese arretrato e in gran parte rurale, esaurito dalle privazioni e le lotte rivoluzionarie, più ancora, demoralizzata. I suoi migliori elementi l’hanno abbandonata per i fronti della guerra civile o sono stati assorbiti dall’apparato di partito o del governo. Tuttavia, abbastanza numerosi sono i lavoratori che si sentono frustrati dalle loro conquiste rivoluzionarie, privati dei loro diritti, posti sotto tutela, umiliati dall’ignoranza o l’arbitrio dei nuovi padroni, e che cominciano a prendere coscienza, della vera natura del preteso “Stato proletario”.

[Traduzione di Massimo Cardellini]

Marxismo libertario. Maximilien Rubel – Il partito della mistificazione; da: “Le Monde”, 7 maggio 1976.

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Maximilien Rubel

Nel dibattito sull’«abbandono» da parte del partito comunista francese della dittatura del proletariato, nessuno sembra aver menzionato un fatto che meriterebbe tuttavia di essere posto in luce. Esso permette di illuminare, infatti, meglio di ogni altro il senso e la natura di questa procedura: è il partito che si arroga il diritto di decidere se il proletariato deve oppure non esercitare la sua dittatura; è il partito, addirittura il suo segretario circondato dai suoi ideologi, che, sostituendosi alla classe e alla massa dei lavoratori, decide di cancellare con un colpo di penna ciò che, secondo Marx, rappresenta un “periodo”, transitorio certo, ma necessario e inevitabile dell’evoluzione della società e affatto un fenomeno accidentale suscettibile di essere abbandonato o accettato a piacere degli imperativi della nuova strategia politica dettata dal programma comune. Il partito si guarda bene dal rimettere in questione l’essenziale, e cioè le sue prerogative, di rappresentante autoproclamato della classe operaia. E’ sempre lui che, attraverso la voce dei suoi capi, decide al posto della classe operaia, è lui che definisce la natura e la forma che deve assumere l’azione di questa classe; e nulla garantisce che l’abbandono della dittatura del proletariato comporti l’abbandono della dittatura sul proletariato, la sola che importa al partito.

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Il concetto di dittatura del proletariato è parte integrante della teoria dello sviluppo del modo di produzione capitalista e della società borghese, sviluppo di cui Marx afferma di aver rivelato “la legge naturale”. Engels colloca questa teoria tra le due grandi scoperte scientifiche del suo amico, dopo la concezione materialistica della storia comparabile alla scoperta di Darwin: “Così come Darwin ha scoperto la legge dell’evoluzione della natura organica, Marx scoprì la legge dello sviluppo della storia umana”. Il postulato politico della dittatura del proletariato si inscrive nella prospettiva di una società capitalista pienamente sviluppata, terreno dello scontro tra una classe possidente fortemente minoritaria, ma al culmine del suo potere, e una classe operaia ampiamente maggioritaria, espropriata economicamente e socialmente, ma intellettualmente e politicamente matura e adatta a stabilire il suo dominio per la “conquista della democrazia” per mezzo del suffragio universale. Giunta a questa posizione dominante, il proletariato non userà la violenza, soltanto nel caso in cui la borghesia lasciasse il terreno della legalità allo scopo di conservare i suoi privilegi di dominio. La dittatura del proletariato è descritta nella conclusione di Il Capitale come “espropriazione degli espropriatori”, detto altrimenti come “espropriazione di alcuni usurpatori da parte della massa”.

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Pur limitate a una determinata tappa dell’evoluzione globale del genere umano, le leggi e le tendenze dello sviluppo dell’economia capitalista “si manifestano e si realizzano con una necessità di ferro”, i paesi sviluppati industrialmente mostrano ai paesi meno sviluppati “l’immagine del loro proprio futuro”. Donando la parola a un critico russo di Il Capitale, Marx sottoscriveva senza riserva una interpretazione che poneva del tutto l’accento sul determinismo implacabile della sua teoria sociale: essa “dimostra”, dichiarava questo critico, “al contempo la necessità dell’attuale organizzazione, la necessità di un’organizzazione nella quale la prima deve necessariamente passare, che l’umanità vi creda creda oppure non, che ne abbia oppure non coscienza”. Marx stesso non è meno categorico: “Quando una società è giunta a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (…) essa non può superare con un salto né abolire attraverso dei decreti le fasi del suo sviluppo; ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i mali del loro parto”. (Il Capitale).

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Cosa si dovrebbe pensare di una società di scienziati che oserebbe proclamare la “rinuncia” alla legge newtoniana dell’attrazione universale o alle leggi mendeliane della ibridazione delle piante e dell’ereditarietà nei vegetali? E chi invocherebbe, per giustificare la sua decisione, il carattere “non dogmatico” di queste leggi, senza preoccuparsi di confutarle con dei metodi scientifici, ma pretendendo un profondo cambiamento dei modi di pensiero nelle classi non intellettuali? Questa società “sapiente” si ricoprirebbe di ridicolo. Questo è tuttavia l’atteggiamento della compagnia sapiente che si proclama comunista e marxista che, pur richiamandosi ad una teoria di cui non cessa di proclamare il carattere scientifico, ne respinge l’insegnamento maggiore, quello stesso che interessa l’esistenza della maggioranza degli uomini: agendo in nome del “socialismo scientifico”, i suoi dirigenti e ideologi non dichiarano che l’evoluzione delle società capitaliste ha reso caduco l’imperativo della dittatura del proletariato, il che equivarrebbe a rimettere in questione una tesi che Marx stesso considerava come il suo principale apporto al socialismo scientifico.

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Importa poco di sapere se “l’abbandono della dittatura del proletariato” risponde a degli imperativi di tattica elettorale o rinvia ad altre preoccupazioni: perché questo “abbandono” significa in fondo che i responsabili della politica del partito eliminando dal dibattito il principale interessato, il proletariato, il solo che abbia come “missione storica” di liberare le società dalla schiavitù del denaro e dello Stato, dunque di esercitare la sua dittatura. Così lo esige la scienza di Marx così come il semplice buon senso non marxista: la dittatura del proletariato non potendo essere altro che affare degli sfruttati – dunque della quasi totalità della specie umana, – la decisione di un partito, qualunque esso sia, di cancellare un postulato la cui portata etica la contende al rivestimento scientifico non potrebbe non avere il minimo effetto sull’evoluzione della società e la vocazione rivoluzionaria ed emancipatrice dei moderni schiavi. Perché se il movimento operaio è, secondo il “Manifesto comunista“il movimento dell’immensa maggioranza”, la dittatura del proletariato può essere definita come il dominio dell’immensa maggioranza nell’interesse dell’immensa maggioranza, detto altrimenti, l’autodeterminazione del proletariato. Insomma, essa è destinata a realizzare le promesse di una democrazia integrale, l’autogoverno del popolo, contrariamente alla democrazia parziale (borghese) di cui le istituzioni assicurano la dittatura dei possidenti – del capitale che controlla il potere politico, dunque di una minoranza di cittadini – sui non possidenti, dunque sull’immensa maggioranza dei cittadini. In queste condizioni, come spiegare che un partito che si richiama a Marx e al comunismo abbandona una concezione della dittatura del proletariato che – a torto o a ragione – annuncia l’avvento della democrazia integrale?

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Quando prima del 1917 Lenin sognava per la Russia un autogoverno degli operai e dei contadini, dopo la presa del potere, si orienterà verso la concezione di una dittatura del proletariato suscettibile di essere esercitata dalla “dittatura di alcune persone”, addirittura “dalla volontà di uno solo”; questa concezione corrispondeva perfettamente allo stato economico e sociale di un paese che poteva tutto “sviluppare” tranne il… socialismo, la dittatura del partito avendo come obiettivo la creazione del proletariato “sovietico” e non l’abolizione di quest’ultimo. Dunque la creazione di rapporti sociali compatibili con lo sfruttamento del lavoro salariato e il dominio dell’uomo sull’uomo. E’ a questa scuola e non a quella di Marx che i dirigenti dei partiti comunisti hanno preso le loro lezioni di uomini politici. E’ essi stessi che condannano prendendo la distanza con un regime che ha saputo costruire per milioni di contadini proletarizzati un arcipelago di gulag la cui descrizione non ha eguali che nell’Inferno di Dante.

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L’imperativo della dittatura del proletariato implica la visione dell’abbreviamento e dell’addolcimento dei mali del parto della società infine umana. Le rivoluzioni “marxiste”, russa e cinese, non hanno fatto che suscitare il male che esse ritenevano di aver soppresso. Questa è la mistificazione della nostra epoca. E se i partiti detti operai possono decretare “l’abbandono della dittatura del proletariato”, non è perché il proletariato non ha (ancora?) questa coscienza rivoluzionaria che la concezione materialista della storia considera come il risultato fatale del divenire-catastrofico del modo di produzione capitalista in piena espansione mondiale?

[Traduzione di Massimo Cardellini]

Marxismo libertario. Yvon Bourdet – Karl Marx e l’autogestione – da: “Autogestion et socialisme”, n°15, marzo 1971.

Karl Marx e l’autogestione

Yvon Bourdet

Prima parte di un articolo uscito su “Autogestion et socialisme” (n° 15, marzo 1971), e ripreso come paragrafo in Pour l’autogestion, (Anthropos, 1974).

La parola autogestione è di uso corrente che da una decina di anni e sembrerebbe anacronistica associarla al nome di Marx [1]. Tuttavia – per coloro che lo ignorassero non vadano ad immaginare che stiamo per dedicarci a non so quale esercizio di scolastica di accostamento artificiale del genere: “Cosa ne penserebbe oggi Platone della televisione?” – precisiamo subito che se Marx non impiega la parola autogestione si interessa (lo proveremo con numerosi testi) a ciò che la parola designa e che si chiamavano allora “le cooperative di produzione”.
Certo, il fatto che questo termine “autogestione” non sia comparso che recentemente non manca di significato. Esso testimonia, sicuramente da una parte, l’ignoranza del passato e possiamo capire che alcuni anarchici, fourrieristi o proudhoniani, ad esempio, si irritino per il fatto che molti “consiliaristi” o “autogestionari” credono di aver trovato qualcosa di nuovo con una nuova parola. Non resta tuttavia meno, in compenso che il bisogno di una nuova terminologia segna almeno l’esigenza di una delimitazione con le dottrine esistenti. Anche se, ora, la maggior parte degli anarchici si mostrano interessati all’azione di massa e dei mezzi economici di transizione per molti, a torto o a ragione, il termine anarchismo evoca soprattutto la volontà di distruggere i poteri esistenti piuttosto che l’esigenza di costruire, a livello nazionale o internazionale, un’organizzazione di nuovo tipo. Sul piano politico, la loro azione appare soprattutto negativa e i loro tentativi di realizzazioni positive sembrano limitarsi alla concentrazione libera di piccoli gruppi che cercano di realizzare in modo marginale, “un aumento immediato del godimento”. Non si tratta qui, tuttavia, sempre, della ricerca di una salvezza egoista; essi credono di essere il fermento o i “detonatori” della rivoluzione universale; ma la loro procedura, fosse anche “esemplare”, resta l’attività di alcuni pionieri.
Il termine autogestione, al contrario, sembra designare un’organizzazione più ampia, più tecnica e che, in tutti i casi, è legata più alla produzione che al godimento. Così, la rivendicazione dell’autogestione sembra più vicina al progetto dei marxisti benché tra di loro si scavi, agli occhi di quasi tutti, un abisso quasi infinito, perché di solito con “autogestione” si intende la concertazione delle autonomie, e con “marxismo” il sin troppo famoso centralismo democratico di Lenin che le sue anomalie, da più di cinquant’anni, non pongono in alcun modo in questione poiché tutti i vizi del sistema sono infaticabilmente spiegati con i pretesi difetti della personalità dei dirigenti. Anche coloro che accettano di dissociare il marxismo dallo stalinismo, dal leninismo o dal trotskysmo non insistono non di meno a ritenere che gli appelli che Marx fa ai “violenti parti della storia” e alla “dittatura del proletariato” sono incomprensibili con i metodi e gli scopi dei sostenitori dell’autogestione.
Per vederci chiaro, è dunque necessario liberare i testi di Marx dallo spesso strato accumulato non tanto dalle glosse dei teorici quanto dalle “ricadute” – per mezzo secolo – della prassi dei partiti comunisti che pretendono di incarnare la teoria di Marx. Quanto ci riproponiamo è dunque, come per altri, una rilettura, ma non per proiettare, tra le righe, ciò che Marx non ha scritto. È al contrario, per dare o ridare a vedere i testi dimenticati, trascurati, respinti o semplicemente mai letti.

I. I mezzi della rivoluzione secondo Marx

L’opera di Marx è una critica della società capitalista e la sua vita una lotta per affrettare l’ora dell’espropriazione degli espropriatori. Tuttavia, per molti il passaggio dalla teoria all’azione politica costituisce un problema. Nel capitolo XXII del libro primo di Il Capitale, si può leggere: “La produzione capitalista genera la sua propria negazione con la fatalità che presiede alle metamorfosi della natura” [2]. Con ciò, d’altronde non faceva che riprendere la conclusione della prima parte di Il manifesto del partito comunista che dava per “inevitabile l’eliminazione della borghesia e il trionfo del proletariato” [3]. Da quel momento il “Che fare?” sembra sprovvisto di senso come è stato spesso notato: “i marxisti che annunciano l’avvento ineluttabile del regime postcapitalista fanno pensare a un partito che lotterebbe per provocare un eclissi di luna” [4]. Allo stesso modo Lenin metteva in bocca ai populisti degli anni 1894-1895 questa riflessione: “Se i marxisti considerano il capitalismo in Russia come un fenomeno inevitabile (…), Si deve far loro aprire un negozio di alcolici…” [5]. Questa “obiezione” non era sfuggita a Marx che l’aveva egli stesso introdotta ad esempio di bufala [6] in una bozza di articolo su Il Capitale che Engels doveva incaricarsi di far pubblicare, sotto un nome fittizio, in un giornale diretto da Karl Mayer: “Quando egli (Marx) dimostra che l’attuale società (…) porta in sé i germi di una nuova forma sociale superiore, non fa che mostrare sul piano sociale lo stesso processo di trasformazione che Darwin ha stabilito nelle scienze della natura (…). L’autore ha, con lo stesso colpo, (…) forse malgrado lui (sottolineato da Marx) suonato la campana a morto di tutto il socialismo professionale…” [7]. La “confutazione” di questa “obiezione” si trovava già nella prefazione di Il Capitale quando Marx spiegava che una società che è giunta “a scoprire la pista della legge naturale che presiede al suo movimento (sottolineato da Marx) (…) non può né superare con un salto né abolire con dei decreti le fasi del suo sviluppo naturale, ma può abbreviare il periodo della gestazione e attenuare i dolori delle loro doglie” [8]. Troviamo qui il celebre tema della violenza concepita come la “levatrice di ogni vecchia società al lavoro” [9], o, come la vulgata della violenza levatrice della storia. Di fatto, precisa Marx, “la forza è un agente economico”. Equivale dunque ad appiattire “il marxismo” ridurlo sia a un’azione politica che ignorasse le fasi dello sviluppo naturale, sia all’economicismo beato del laisser-faire. Certo la forza non può “far girare alla rovescia la ruota della storia” [10], ma i comunisti non dichiarano meno “apertamente che non possono raggiungere i loro obiettivi che distruggendo con la violenza il vecchio ordine sociale” [11]. Ritroviamo così la famosa e controversa questione della “dittatura del proletariato”. Sappiamo che Kautsky, per criticare i bolscevichi, affermò che Marx non aveva mai, per così dire, preconizzato una tale dittatura, che si trattava qui di una battuta, scritta, “di sfuggita” in una lettera [12].
Di fatto, Marx ha parlato diverse volte del ruolo e della necessità di una tale dittatura [13], ma il semplice esame critico e contabilità dei testi non serve a gran cosa se non ci si intende sul senso, in Marx, della parola “dittatura”. In una nota del 20 ottobre 1920, Lenin caratterizza la dittatura come un potere che non riconosce “nessun altro potere, nessuna legge, nessuna norma, da qualunque parte essi provengano (…) il potere illimitato, extralegale, che si appoggia sulla forza, nel senso più stretto della parola, è questa la dittatura” [14]. Ed è una bella dittatura che deve esercitare il proletariato, che esso sia minoritario o maggioritario nella nazione. Max Adler, al contrario distingue accuratamente tra “dittatura maggioritaria” e “dittatura minoritaria” [15]: quando una minoranza opprime una maggioranza, si è in presenza del dispotismo che Marx ha sempre combattuto, in tutte le sue forme; se Marx preconizza la dittatura del proletariato è perché essa non può essere altra cosa che la forza della maggioranza: “Tutti i movimenti del passato sono stati opera delle minoranze o sono andati a vantaggio delle minoranze. Il movimento proletario è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza nell’interesse dell’immensa maggioranza” [16]. Per Marx, la rivoluzione proletaria sarà l’ultima possibile; infatti, quando il proletariato, classe universale, avrà preso il potere, non vi saranno presto più nessuna classe e di conseguenza nessuna lotta tra di esse: “La vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi conflitti, lascia il posto a un’associazione in cui la libera espressione di ognuno è la condizione della libera espressione di tutti” [17]. Facciamo notare di sfuggita che Marx dà così la definizione esatta di una società autogestita. In quanto alle vie e mezzi per il passaggio a questo dominio immensamente maggioritario del proletariato, essi saranno vari a secondo delle circostanze; la violenza, come abbiamo visto, sarà spesso necessaria ma non sempre; nel suo discorso dell’8 settembre 1872 agli operai di Amsterdam, Marx dichiarò che “l’America e l’Inghilterra (potevano) giungere al socialismo attraverso mezzi pacifici” [18]. Nella prefazione all’edizione inglese di Il capitale, nel 1886, Engels assicura che non fu questa una dichiarazione di circostanza, e che Marx aveva espresso il suo vero pensiero. D’altronde, Engels scrisse egli stesso, un po’ più tardi nel 1991, che “si può concepire che la vecchia società potrà evolvere pacificamente verso la nuova nei paesi in cui la rappresentazione popolare concentra in essa tutti i poteri” e anche più esplicitamente, che “la repubblica democratica (…) è la forma specifica della dittatura del proletariato” [19]). Precisando il suo pensiero, nella Introduzione, scritta nel 1895, a Le lotte di classe in Francia, Engels affermava che l’uso illegale della forza armata non era più un buon mezzo per il proletariato di impadronirsi del potere e che anche “la borghesia e il governo” erano un po’ giunti “ad aver più paura dell’azione legale che dell’azione illegale del partito operaio” [20].
Dicendo ciò, Engels aveva indubbiamente dato troppa importanza alla celebre dichiarazione di Odilon Barrot: “La legalità ci uccide!” e all’esperimento della Comune di Parigi che era terminata con una catastrofica carneficina del proletariato. Il suo punto di vista fu in seguito generalmente abbastanza contestato dai marxisti [21].
Sia quel che sia, resta dalla lettura di tutti questi testi che Marx e Engels non hanno sempre avuto la stessa teoria per quel che riguarda i mezzi di passaggio al socialismo e meglio ancora che essi avevano sostenuto esplicitamente che ci si doveva adattare alle circostanze.
Ciò non vuol dir affatto che basta secondo loro aspettare, come abbiamo già detto e come la polemica di Marx contro Bakunin l’ha dimostrato. Non si tratta qui di trattare a fondo la comparazione tra marxismo e anarchismo [22], ma soltanto nella prospettiva della presente messa a punto. Ciò che ci interessa, infatti, è di precisare come Marx concepisce la società, una volta spezzata l’oppressione capitalista, e con quali mezzi si può accelerare questa liberazione. Ora, le note scritte nel 1874 da Marx, in margine al libro di Bakunin Stato e Anarchia, sono, a questo riguardo, molto chiarificatrici [23]. A partire da queste note, si può restituire il seguente dialogo (senza cambiare una parola, naturalmente, al testo dell’uno e dell’altro):

Bakunin. – “I Tedeschi sono circa 40 milioni. Tutti i 40 milioni, ad esempio, saranno membri del governo?”.

Marx. – “Certainly! Perché la cosa inizia con il self-governement della comune”.

Bakunin. – “Allora, non vi sarà nessun governo, nessun Stato, ma, se vi è uno Stato, vi saranno dei governi e degli schiavi (…). Questo dilemma nella teoria marxista si risolve facilmente. Con governo del popolo essi (i marxisti – no! interrompe Marx, è Bakunin che lo pretende) intendono il governo del popolo con l’aiuto di un piccolo numero di dirigenti eletti dal popolo”.

Marx. – “Asino! Si tratta di sproloquio democratico, di chiacchiera politica! L‘elezione è una forma politica (…) che dipende (…) dai rapporti economici tra gli elettori; non appena le funzioni hanno cessato di essere politiche: 1. – non esiste più funzione governativa; 2 – la ripartizione delle funzioni generali è diventata una cosa di mestiere e non conferisce nessun potere; 3 – l’elezione non ha nulla del carattere politico attuale.”.

Bakunin. – “Il suffragio universale di tutto il popolo. …”.

Marx. – “Tutto il popolo nel senso attuale della parola è una pura chimera”.

Bakunin. – “La nozione di «rappresentanti del popolo» costituisce «una menzogna sotto la quale si nasconde il dispotismo della minoranza governate (sottolineato da Bakunin) tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo»”.

Marx. – “Sotto la proprietà collettiva, la sedicente volontà del popolo fa posto alla volontà reale del cooperativo”.

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest’ultimo ammette molto bene che l’organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, – attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo”.

D’altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l’autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un’inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (…) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla…, che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Come si vede, da questo dialogo, che trattandosi dei fini ultimi, Bakunin fa una cattiva polemica a Marx; quest’ultimo ammette molto bene che l’organizzazione sociale attraverso tecniche di autogestione (cooperative) rileva di un mestiere ma non conferisce alcun potere. Si deve tuttavia riconoscere a Bakunin una visione profetica, perché malgrado le negazioni di Marx, i marxisti-leninisti hanno, – attraverso il centralismo democratico – realizzato esattamente le funeste predizioni di Bakunin: “dispotismo di una minoranza tanto più pericolosa quanto più appare come l’espressione della sedicente volontà del popolo”.

D’altra parte, Marx resta indirettamente la causa della deformazione bolscevica attraverso la sua teoria della fase di transizione. Se, infatti, ciò a cui si deve mirare è l’autogoverno della società nel suo insieme e se con questo fatto, come scrive Marx nella stessa nota su Bakunin: “lo Stato popolare di Liebknecht (…) è un’inezia”, rimane il fatto che il proletariato secondo Marx, “durante il periodo della lotta per il rovesciamento della vecchia società, agisce ancora sulla base di questa vecchia società e, di conseguenza (…) durante questo periodo di lotta, impiega per la sua liberazione dei mezzi che spariranno dopo questa liberazione”. Sono questi mezzi – imposti dalla società di classe e che si pretendono provvisori – che Bakunin rifiuta prudentemente, perché con il pretesto di liberare il proletariato dal dominio borghese, si istituisce un nuovo dominio politico, in senso peggiore del precedente. Allora che fare? Secondo Marx, ecco la risposta di Bakunin: “Da qui, il signor Bakunin conclude che deve piuttosto non fare assolutamente nulla…, che deve aspettare il giorno della liquidazione universale (sottolineato da Marx), il giudizio universale”.

Va da sé che Bakunin, a sua volta, griderebbe allo scandalo davanti a questa deduzione di Marx [24].

Sono queste le leggi della polemica. Ciò che ci interessa soltanto qui, è la contraddizione evidenziata da Bakunin tra lo scopo ultimo di Marx (società omogenea senza classi) e i mezzi spuri che egli crede indispensabili utilizzare per distruggere la macchina oppressiva della borghesia. Le colombe non possono né convincere né vincere gli avvoltoi con la violenza degli avvoltoi. Colui che conserva le mani pulite non ha mani. Marx si pone così all’opposto dell’assioma evangelico: i mansueti erediteranno la terra che è stato ripreso dagli attuali sostenitori della non-violenza, coloro che non hanno che fiori (amore e pace) come armi o che, radunati intorno al Pentagono, speravano farlo espellere dalla terra con i loro pensieri associati nella fede che solleva le montagne. Sono questi, si dirà, dei sognatori gentili, ma resta il fatto che Marx non era nemmeno lui, soddisfatto dall’obbligo politico di lottare contro i borghesi con delle armi simili alle loro. È per questo, d’altronde, che egli non raccomandava esattamente una tale imitazione. Non voleva che il suo “partito” fosse un partito come gli altri, né la sua azione un insieme di piccole astuzie architettate nel segreto degli apparati “direttivi”. I lavoratori dovevano, secondo Marx, autogestire le loro lotte.
È un tema costante che riaffiora, ad intervalli, nei suoi scritti e nei suoi atti. Si giudichi attraverso questi brevi richiami: nel 1848, “il movimento proletario è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza” [25]; nel 1864, “l’emancipazione della classe operaia deve essere opera degli stessi lavoratori” [26]; nel 1866 “l’opera dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori è di generalizzare e di unificare i movimenti spontanei della classe operaia, ma non di prescrivere loro o imporre loro un sistema dottrinario qualunque” [27]; nel 1868 “l’Associazione Internazionale dei Lavoratori (…) non è figlia né di una setta né di una teoria. Essa è il prodotto spontaneo della classe proletaria [28]; nel 1871, dopo la Comune, “sarebbe disconoscere del tutto la natura dell’Internazionale parlare di istruzioni segrete provenienti da Londra (…) di qualche centro pontificale di dominio e d’intrigo (…). Di fatto, l’Internazionale non è affatto il governo della classe operaia, è un legame, non è un potere” [29]. Il 17 settembre 1879: “Abbiamo formulato, durante la creazione dell’Internazionale, la massima della nostra lotta: l’emancipazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa. Non possiamo, di conseguenza, far rotta comune con della gente che dichiarano apertamente che gli operai sono troppo incolti per liberarsi da sé, e che devono essere liberati dall’alto, e cioè da grandi e piccolo borghesi filantropi” [30].
Marx non ha mai voluto essere alla testa di un partito settario che non rappresentasse che una parte della classe operaia; sin dal 1848, precisava: “I comunisti non formano un partito distinto di fronte agli altri partiti operai. Non hanno interessi distinti da quelli del proletariato nel suo insieme” [31]. In una lettera a Freiligraph, Marx aggiunge: “con il termine partito, intendo partito nel grande senso storico”, e cioè la causa dell’insieme del proletariato. Non si tratta di pavoneggiarsi sui podi o durante i convegni, ma di comprendere, di far comprendere, e, con questo, sollecitare il movimento storico della società di classe verso il suo superamento. I pettegolezzi e i piccoli intrighi della vita politica dei partiti sono sempre risultati sgraditi da Marx; come scriveva a Engels, l’11 febbraio 1851, era irritato di essere portato ad avallare indirettamente delle prese di posizione, a sentirsi legato da delle dichiarazioni ‘di somari’ e a subirne il ridicolo. Due giorni più tardi, il 13 febbraio 1851, Engels risponde: “Abbiamo l’occasione di mostrare che non abbiamo bisogno né di popolarità né del ‘sostegno’ di qualunque partito (…). Come potrebbero delle persone come noi, che fuggono come la peste dalle situazioni ufficiali, essere di un partito? Cosa importa a noi di un partito, noi che sputiamo sulla popolarità?”. Non si vuole spesso vedere, in queste lettere, che il segno di un’irritazione passeggera. La prova si dice, che non si tratta che di accessi di cattivo umore, è che Marx ha aderito in seguito, nel 1864, all’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ecco appunto ciò che ne pensava Marx, in una lettera a Engels, del 26 dicembre 1865: “In quanto all’Associazione Internazionale, essa mi pesa come un incubo e sarei contento di potermene sbarazzare”. Marx non assiste al congresso di Bruxelles del 1868, pensando di essere più utile alla classe operaia continuando la sua opera teorica. Applicava così la consegna data da Engels, diciasette anni prima: “l’essenziale è di farci stampare” [32]. Non verrà in mente a nessuno che, così dicendo, Marx o Engels miravano a una gloria letteraria qualunque. Ma il movimento autonomo dell’emancipazione proletaria è, allo stesso tempo, una prtesa di coscienza e quest’ultima diventa presto un fattore complementare del movimento di emancipazione. Certo, “l’arma della critica non potrebbe sostituire la critica delle armi, la forza materiale deve essere rovesciata dalla forza materiale. Ma la teoria si trasforma, anch’essa, in forza materiale non appena afferra le masse” [33]. È dunque sui luoghi di lavoro stessi che gli operai devono capire concretamente le modalità di sfruttamento della loro forza lavoro da parte della classe dominante. Il ruolo del teorico è di rendere visibile quest’invisibile quotidiano così come Galilei ha spiegato il movimento apparente del sole, scardinando per sempre al contempo la mitologia religiosa precedente. Chi non capisce, da allora, che per Marx, militare non è giocare allo stratega negli stati maggiori del comitato federale o del comitato centrale, con la pretesa di comandare, dall’esterno, la manovra. Sono i lavoratori i soli capaci non soltanto di organizzare, autogestire le loro lotte, ma anche d’instaurare, all’interno stesso della vecchia società, le nuove strutture di una cooperazione egualitaria e fraterna che non ha nulla a che fare con capi e dirigenti. Nel suo Speech on the Anniversary of the People’s Paper, il 19 aprile 1856, Marx metteva in risalto che le rivoluzioni risultano dia da cause economiche e scoperte scientifiche e tecniche che dall’azione dei cosiddetti “agitatori”; diceva, infatti: “Vapore, elettricità e macchine tessili avevano un carattere altrettanto pericoloso quanto gli stessi cittadini Barbès, Raspail e Blanqui” [34].
Quindici anni più tardi, a Kugelmann che contestava, in una lettera del 15 aprile 1871, lopportunità dell’insurrezione della Comune perché la sconfitta priverebbe “di nuovo gli operai dei loro capi”, Marx rispose, il 17 dello stesso mese: “La smobilitazione della classe operaia sarebbe stata una sciagura ben più grande della perdita di un qualunque numero di ‘capi’”. (le virgolette sulla parola capo sono di Marx). Così non si può insistere ulteriormente sul fatto che Marx non lo faccia sulle capacità di auto-emancipazione della classe operaia che può, non soltanto autogestire la sua lotta, ma autogestire la produzione, il che è inoltre il mezzo più radicale di sopprimere l’alienazione e lo sfruttamento. Così, in questa dialettica, la realizzazione dello scopo finale non si separa dalla creazione di mezzi specifici per raggiungerlo. L’autogestione delle lotte è una condizione dell’autogestione della produzione e viceversa. Certo questa conquista dell’autonomia attiva non può essere che progressiva e spuria come Marx spiegava a Bakunin, ma il compito del rivoluzionario è di chiarire quest’impresa, di “aderire” e di “aderirvi”. Non appena l’organizzazione ha pretesa liberatrice diventa una specie di istituzione esterna, che funziona in quanto strumento di lotta per gli operai invece di essere una bozza di nuova organizzazione della produzione stessa, Marx se ne disinteressa e soffre di farne parte. Non vi è nemmeno da distinguere tra autogestione delle lotte e autogestione della produzione perché queste due forme di emancipazione si condizionano reciprocamente.
Ma si obietterà, forse, che queste non sono che deduzioni a partire dal “montaggio abile” di alcuni testi. Si deve dunque vedere, più precisamente ciò che Marx dice egli stesso dal fondo del dibattito poiché egli lo ha affrontato in un gran numero di testi che le interpretazioni dei diversi apparati dei partiti politici marxisti hanno lasciato nell’ombra.

NOTE

[1] Eppure, Pero Damjanovic ha già pubblicato sulla rivista Praxis (1962, 1, pp. 39-54) un articolo intitolato: “Le concezioni di Marx sull’autogestione sociale”. L’autore sostiene che “L’autogestione è immanente alla classe operaia me al suo movimento di liberazione”. Si riferisce a Marx che gli sembra – dai suoi scritti di giovinezza in cui denuncia l’individuo astratto livellato dallo Stato – aver sempre pensato che soltanto le associazioni autonome dei produttori potranno realizzare la vera libertà. Sfortunatamente, nel suo articolo, Pero Damjanovic rimane allusivo e non dà dei riferimenti precisi dei testi sui quali dice di appoggiarsi. Ci sembra anche che egli abbia lasciato da parte degli aspetti importanti.

[2] Editions Sociales, Libero I, tomo III, p. 205. Vedere anche 1.1, p.19.

[3] Bibliothèque de la Pléiade, Économie, I, p. 173.

[4] Boukharine, L’Économie mondiale et l’impérialisme, p. 131. Va da sé che Bucharin presenta questo “argomento” come un sofisma.

[5] L’impérialisme, stade suprême du capitalisme, œuvres complètes, t. XXII, p. 291.

[6] “Per quel che riguarda questa chiacchiera” sveva, sarebbe un colpo divertente ingannare l’amico di Vogt, questo Mayer svevo” (Lettera di Marx a Engels del 7 dicembre 1867).

[7] Ibid.

[8] Pléiade, t. I, p. 550.

[9] Ibid., (cap. XXXI) p. 1213.

[10] Manifeste communiste. Pléiade, p. 171. (…) 204-205. Per questo fatto le forze, dette reazionarie, non possono svolgere chje un ruolo di freno.

[11] Ultimo paragrafo di Il Manifesto comunista. Vedere anche la lettera di Engels a Marx del 23 ottobre 1846.

(12) Karl Kautsky, Die Diktatur des des Proletariats, Vienna, 1918, p. 20. La “lettera” di cui parla Kautsky designa 

« lettre » dont parle Kautsky désigne les « Gloses marginales au programme du Parti ouvrier allemand », dit Programme de Gotha, envoyées à W. Bracke le 5 mai 1875.

(13) H. Draper a rassemblé onze textes – et même quatorze si on compte à part les variantes – qui se rapportent à cette question (« Marx and the Dictatorship of the Proletariat », in Cahiers de l’ISEA, série S (6) sept. 1962, pp. 5-73).

(14) Contribution à l’histoire de la question de la dictature, œuvres complètes, Moscou, 1961, t. 31, p. 363.

(15) Max Adler, Démocratie politique et démocratie sociale, Paris, Ed. Anthropos, 1970, p. 140.

(16) Manifeste communiste, Pléiade, p. 172

(18) Lénine fait allusion à ce texte dans sa polémique contre Kautsky et il essaye de l’expliquer par l’absence « du militarisme et de la bureaucratie », dans les années 70, en Angleterre et en Amérique (…)

(20) Ed. sociales, p. 17.

(21) Voir Rosa Luxemburg dans Le programme de la ligue Spartacus ; Kautsky, dans Le chemin du pouvoiréd. Anthropos, 1969, p. 162 ; Otto Bauer divers textes, in : Otto Bauer et la Révolution Paris.

(22) Pour un aperçu d’ensemble voir notre livre : Communisme et marxisme, chapitre 3.

(23) Konspekt von Bakunin Buch, « Staatlichkeit und Anarchie», in Marx . Engels Werke, Dietz, Berlin, t. 18, p.634 et sq., partiellement traduit par Rubel dans Pages de Karl Marx… Paris, Payot, 1970, t. 2.

[24] Zola mette in bocca a Souvarine una delle possibili “risposte” degli anarchici, “Il vostro Karl Marx vuole ancora lasciar agire le forze le forze naturali. Niente politica, niente cospirazione, non è così? [Tutto alla luce del giorno, e unicamente attraverso l’aumento dei salari… Lasciatemi in pace con la vostra evoluzione! Incendiate i quattro angoli delle città…”, Emile Zola, Germinal.

(25) – (29) note mancanti.

[30] Lettera circolare indirizzata da Marx e Engels ai dirigenti della socialdemocrazia tedesca (citata da Rubel, in Cahiers de l’ISEA., nov. 1970, p. 2013.)

[31] Le Manifeste communiste, La Pléiade, p. 174

[32] Lettera del 13 febbraio 1851, Costes, Parigi, t. 2, p. 48.

[33] Introduzione a Per la critica della filosofia hegeliana del diritto.

[34] Traduzione di Rubel in “La Nef”, n.43, giugno 1948, p. 67.

Marxismo libertario. L’agonia postuma di Karl Marx – Maximilien Rubel intervistato da Olivier Corpet e Thierry Paquot, Le Monde dimanche, 10 aprile 1983.

L’agonia postuma di Karl Marx

In quest’anno (1983), del centenario della morte di Marx, le commemorazioni, colloqui, pubblicazioni, fioriscono, sia a Parigi che sulla piazza Rossa. Ma cosa si sta per celebrare esattamente: l’opera di Marx o ciò che ne hanno fatto dei marxismi differenti? Qual è, di fronte a questo nuovo funerale, la reazione di un marxologo, familiare dell’opera in questione, ma che si riconosce anche nel progetto etico e rivoluzionario di Marx di una autoemancipazione delle classi oppresse?

Quando avremo fatto il bilancio delle manifestazioni e delle mascherate di ogni genere alle quali questa celebrazione avrà dato luogo, in quest’anno memorabile, potremo constatare che il messaggio rivoluzionario dell’autore di Il Capitalesarà stato soffocato in tre diversi modi: Primo, attraverso la glorificazione eccessiva del preteso fondatore del marxismo, fandazione alla quale i fedeli del culto marxista associano, come regola generale, l’alter ego di Marx: Friedrich Engels. Secundo, attraverso la messa a morte postuma del pensatore le cui dottrine, lungi dall’essere scientifiche, sarebbero state comprovate o smentite dalla storia economica, politica e sociale degli ultimi cento anni e sarebbero erronee da capo a piedi. Tertio, attraverso l’apprezzamento detto oggettivo che sa separare il grano dall’oglio degno, il primo, di essere immagazzinato per l’arricchimento delle scienze umane.

Di queste tre maniere di evacuare la sostanza emancipatrice dell’opera marxiana, la terza mi sembra la meno riprovevole. Essa può rendere giustizia allo spirito scientifico che impregna la teoria sociale di Marx, senza deformare sistematicamente la sua opera. Il marxologo che mi sforzo di essere assume un compito difficile: far rispettare l’ultimo desiderio di Marx che protestava contro l’usurpazione del suo nome a fini ideologici e politici, ma che si solleva anche contro l’identificazione quasi religiosa della coscienza supposta degli schiavi moderni con una teoria abusivamente battezzata “marxismo”.

Un difensore “borghese” dei diritti dell’uomo.

Questa doppia usurpazione ha finito con l’assumere la forma di un vero culto onomastico. E’ la ragione dell’insistenza che pongo nel ricordare l’ultimo avvertimento di Marx: “Ciò che vi è di certo, è che io non sono marxista”. Non si tratta di una battuta, ma di un divieto assoluto, conforme a un insegnamento scientifico e a una convinzione etica che hanno la loro fonte nel movimento emancipatore autonomo del proletariato moderno, e non nell’opera di quell’individuo cosmo-storico come gli ammiratori di Hegel, quell’anti-Marx, chiamavano  Marx quando egli era ancora vivo.

Da qualche anno, vediamo numerosi intellettuali dedicarsi a una critica severa di Marx e del marxismo. Alcuni hanno creduto vedere in Marx un “borghese tedesco”, prigioniero dello “spirito” del suo tempo; per altri, Marx non avrebbe pensato il politico. Da cui il gulag. L’opera di Marx vi sembra totalmente innocente da tutte queste derive, deviazioni, peggio, da questi crimini di cui la si rende responsabile?

– La vostra domanda riguarda soprattutto i due ultimi modi di soffocare l’appello rivoluzionario e emancipatore di Marx. Il primo consiste nell’opporre alla sua teoria la smentita dell’esperienza storica. Da questo punto di vista, quest’ cento anni sarebbero stati segnati da un progresso immenso, inimmaginabile per i più grandi pensatori del diciannovesimo secolo, compreso Marx. Malgrado terribili catastrofi e regressioni di ogni ordine, il bilancio sarebbe “globalmente positivo”, La storia del ventesimo secolo avrebbe dunque sventato tutte le speculazioni di Marx sulla sparizione del capitalismo e la sua sostituzione con il socialismo nei paesi industrialmente sviluppati; in compenso, dei paesi industrialmente e politicamente arretrati sarebbero riusciti ad avviarsi sulla via del comunismo. In breve: naufragio della teoria dell’uomo di scienza, inefficacia totale della politica dell’uomo di partito!

In quanto agli affossatori accademici, va fatta una distinzione netta. Non è questione, infatti, di rifiutare di ascoltare coloro la cui critica utile, necessaria, prende in conto lo stato di incompiutezza dell’opera scientifica di Marx per separare gli elementi teorici, la cui validità permanente deve essere riconosciuta, dagli errori storicamente e psicologicamente spiegabili. Al contrario! Ma cosa dire quando quelli che, ieri, non giuravano che sul padre fondatore lo rendono oggi responsabile degli errori di una posterità intellettuale e politica la cui perversità rileva della patologia più elementare?

Questi apostati del marxismo sospettano il padre ripudiato di aver di proposito omesso o sottovalutato il “politico” e di non aver risposto alla domanda essenziale del perché della messa in tutela della società civile da parte del potere dello Stato. Altri lo accusano di “accecamento di fronte ai diritti dell’uomo”. Ora, i fatti parlano da sé: Marx ha passato i quattro decenni della sua carriera di comunista militante a vituperare, come difensore “borghese” dei diritti dell’uomo, le tre maggiori forme del “totalitarismo” del suo tempo: il bonapartismo, lo zarismo e l’assolutismo prussiano.

È questo nemico accanito del Leviatano moderno che tutta questa letteratura accademica antimarxista assocerà al “gulag”! Aggiungiamo che è per scelta che egli si è collocato nel campo della democrazia “borghese”: vittima sin dai suoi esordi letterari della violazione dei diritti dell’uomo in Germania, in Francia e in Belgio, si è rifugiato in Inghilterra, questa metropoli del capitale che gli ha offerto un rifugio sicuro dove poteva non soltanto continuare a scrivere liberamente, ma anche condurre campagna per il diritto di associazione e il suffragio universale.

Su questo Marx democratico e liberale, ma anche democratico rivoluzionario, mi è stato dato di dire l’essenziale nei miei lavori come nei miei commenti degli scritti di Marx pubblicati nella Pleiade: mi applico a demolire la leggenda di Marx costruita sia da degli adepti zelanti che da avversari ottusi. In questo stesso momento, preferisco tenermi lontano dalla mischia e dal baccano provocati dalle celebrazioni ufficiali e ufficiose. Ho in cantiere un opuscolo dedicato a questa leggenda, di cui i misfatti ideologici, tanto intollerabili possano essi essere, sono poca cosa in confronto alla miseria reale del mondo, che nessuna teoria, fosse essa marxiana o marxista, non potrebbe far scomparire. Sarà il mio contributo a un omaggio di cui il defunto celebrato e maledetto può certo fare a mano, ma che si collocherà fuori dalla triplice impresa di sotterramento ricordato.

Ma riaffermando che si deve considerare Marx come il primo – e il più efficace – critico del marxismo, ci si può domandare se, a vostra volta, non contribuite anche a una certa mistificazione di Marx, ad esempio scaricandolo totalmente dal peso dei suoi “discepoli”, caricando Engels di tutti i mali e in particolare quello di aver inaugurato il culto del suo amico, il giorno stesso del suo funerale?

– Mi sono accontentato di mostrare che una intelligentsia affetta da ideologia consolatrice si sforza nel ridurre, spesso per pura piccola gloria, in qualche specie come l’investimento più redditizio del suo capitale intellettuale, la potenza demistificatrice dell’opera di Marx. Soltanto la sua carriera di autore marginale e privo di mezzi ha impedito Marx di elaborare sistematicamente il progetto di una triplice critica scientifica delle istituzioni borghesi.

Ma basta leggere la sua opera per capire che, lungi dal rifiutare di “pensare il politico”, egli ha posto il “politico” al centro delle sue preoccupazioni. Sicché la sua Economia è rimasta incompiuta, che non ha potuto che a fatica porre l’ultima mano all’unico libro del Capitale, mentre l’insieme dei suoi scritti storico-politici, di fatto, la sua critica del politico, appariva come un insieme relativamente compiuto. Essa si impone oggi alla nostra riflessione con più pertinenza convincente della Critica della filosofia e la Critica dell’economia politica, come l’opera del primo teorico dell’anarchismo, dunque del critico e denunciatore senza concessione sia del vero capitalismo quanto del falso socialismo.

È su questo punto essenziale che dovrebbe aver luogo il dibattito riguardante il ruolo di Engels. Contrariamente a ciò che si pretende a volte, non lo ritengo affatto come responsabile di tutte le metamorfosi e distorsioni subite dal pensiero marxiano – soprattutto dopo l’istituzione del marxismo-leninismo come religione di Stato – nella fondazione di ciò che ha vincolato, suo malgrado, sotto il concetto di “marxismo”.

Ma come rimanere indifferenti di fronte alle conseguenze, oggi chiaramente percettibili, di questo gesto di consacrazione elevato presto alla dignità di un dogma indiscutibile? Come disconoscere il fatto che specializzandosi nelle questioni militari Engels ha lasciato, senza sospettarlo, alla posterità marxista un’eredità ambigua e alienante che, battezzato “marxismo-leninismo”, costituirà la negazione assoluta della causa emancipatrice per la quale Marx ha vissuto e combattuto?

Tuttavia, quest’ambiguità può volgersi contro gli eredi alienati: Engels avrebbe senza difficoltà riconosciuto in loro i continuatori arrabbiati e ciechi della politica zarista. Non dimentichiamo che Marx stesso non ha cessato di predicare “la guerra rivoluzionaria”. A prezzo di una concessione volgarmente “riformista” alla vocazione civilizzatrice dell’Occidente borghese, contro il dispotismo asiatico, e specialmente contro la Russia, questo “ultimo bastione della reazione europea”.

Siamo seri! Engels sarebbe stato l’ultimo a farsi prendere in trappola da una ideologia politica accomodata in salsa “marxista”, e nulla di ciò che ha detto o fatto, in quanto legatario spirituale del suo amico, può servire a legittimare quel marxismo.

Il monopolio della Mecca marxista

In quali condizioni e in quale spirito avete intrapreso la pubblicazione delle opere di Marx nella “Pléiade”? Con quali ostacoli e critiche, sopratutto politiche, vi siete dovuto confrontare? Non pensate di essere oggi meglio recepito e capito? In fin dei conti, vi è, a vostro parere, un uso possibile, fecondo, di Marx? O si tratta di un pensiero superato?

Accettando la pesante responsabilità di un’edizione delle opere di Marx nella “Bibliothèque de la Pléiade”, conoscevo i rischi di un’impresa concepita a controcorrente di una tradizione radicata. Essa urtava un’usanza editoriale diventata per così dire una legge non scritta, affrontando il mito della doppia fondazione di una scienzia nova chiamata “marxismo”. Inoltre, essa spezzava il monopolio che la Mecca marxista possiede nel campo delle edizioni che si pretendono scientifiche dei “classici del marxismo”.

Se oggi ho la convinzione di essere riuscito, malgrado le difficoltà e gli ostacoli che è facile immaginare, in compenso, ho fallito in una simile impresa, ma molto più ambiziosa: il progetto di un’edizione del giubileo delle opere di Marx nel testo originale. La storica di questo scacco formerà indubbiamente un capitolo della Leggenda di Marx che ho in cantiere. Il mio progetto doveva conformarsi al desiderio dell’autore di far udire un appello sempre ricominciato e sempre attuale, una requisitoria eticamente giustificato.

L’edizione del giubileo doveva soprattutto far apparire perché quest’opera, non appena essa si afferma in simbiosi con le sue fonti apertamente o tacitamente riconosciute, ripugna a presentarsi come un tutto compiuto, il compimento non essendo concepibile in questo continuo processo di teoria e di prassi, orientato verso una fine chiaramente enunciata: la generazione della società umana o dell’umanità sociale, compimento delle concezioni degli utopisti, dei riformatori e dei rivoluzionari.

Non avendo mai ricercato l’approvazione o brigato il verdetto della confraternita degli specialisti, la disapprovazione dei Magister scholarum della teologia marxista non è affatto riuscita ad ostacolare la ricezione più che favorevole del mio lavoro di editore e di commentatore dell’insegnamento marxiano. Ciò che mi importava innanzitutto, è che questa edizione possa raggiungere gli ambienti ai quali Marx destinava le sue opere.

La classe operaia è rivoluzionaria o non è nulla“, ha dichiarato Marx, cosciente che tutti i prestigi del verbo dialettico rimangono vani davanti all’atteggiamento di rassegnazione o di sottomissione degli iloti moderni. A rischio di urtare l’opinione universalmente ammessa, affermo che la vita postuma dell’autore di Il Capitale è lungi dall’aver cominciato. Se è vero, come credeva Nietzsche, che “alcuni individui nascono postumi”, questa proposizione non si applica ancora a Marx.

In verità, i cento anni di marxismo trionfante dimostrano il contrario di una resurrezione spirituale di questo pensatore che si riconosceva essenzialmente nella sua attività di educatore in situazione di apprendimento permanente. Il trionfo del marxismo come ideologia del socialismo realmente inesistente dissimula di fatto una sconfitta flagrante: la carriera postuma del pensatore e pratico dell’etica proletaria somiglia a una lunga agonia piuttosto che a una presenza rivoluzionaria.

[Traduzione di Massimo Cardellini]

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BUON NUOVO SECOLO DI VITA KARL MARX

Tra poche settimane ricorrerà il 200° anno della nascita di Karl Marx, una figura senz’altro molto controversa e non soltanto tra i suoi detrattori quanto soprattutto, e peggio ancora, tra i suoi ancor più numerosi sostenitori nel corso delle varie epoche storiche che si sono succedute da quanto questa concezione è nata.
 
Poiché il nostro paese, come d’altronde tanti altri in Europa e nel mondo, ha avuto storicamente dei cosiddetti partiti e organizzazioni sindacali e leghe di cooperative “di sinistra”, che si dicevano addirittura marxisti, (e che forse nel loro piccolo, in origine lo sono anche stati per un poco), questo blog, attraverso presentazione di materiale storico e critico, vorrebbe che si giungesse infine ad una conoscenza adeguata di ciò che genericamente è stato chiamato “marxismo”, e cioè essenzialmente una mera strategia ideologica elettoralistica nel corso della sua storia primitiva o un totalitarismo in una successiva fase leninista.
Ribadire ancora una volta, e in modo meticoloso e circostanziato, cosa sia e ancor più cosa sia stato realmente il “marxismo” o se si preferisce la concezione materialistica della storia, per distinguerlo dalle ideologie collaborazionistiche con il sistema capitalistico avanzato occidentale oppure dalla prassi totalitaria delle ex semicolonie, come la Russia zarista o la Cina imperiale, che sbarazzandosi del dominio occidentale hanno creduto di poter instaurare dall’alto, gerarchicamente e militarmente il “comunismo”, è uno dei compiti di Marx201.
Un’altra esigenza, anch’essa di natura storica ma anche di critica ideologica autenticamente marxiana, sarà quella di contribuire alla conoscenza delle organizzazioni e delle figure teoriche che mantenendosi fedeli allo spirito del pensiero marxiano si sono opposte alle derive politiche e ideologiche dello pseudomarxismo imperante e lo hanno combattuto senza tanti compromessi e giri di parole, come invece è stato per la frazioni dissidenti all’interno sia della socialdemocrazia (revisionismo) sia del bolscevismo leninismo (Trotskysmo; bordighismo e altre derivazioni leniniste).
 
Il blog quindi presenterà molto materiale reperibile in rete e non, adatti a delineare una critica storica e ideologica dello pseudomarxismo e dei suoi crimini, e soprattutto adatti a far un bilancio storico e portare alla conoscenza di molti la grandezza di eventi, figure e concezioni che si sono mantenuti al livello del creatore del loro ispiratore che è stato un uomo e non certo un icona.
Massimo Cardellini