Creato da lab79 il 05/02/2010

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a place called home

 

Messaggi di Novembre 2016

E tu, sei felice? (Una conversazione privata)

Post n°463 pubblicato il 24 Novembre 2016 da lab79

-"La felicità è un'illusione. Non si vive per raggiungerla, ma per inseguirla. Ma la si insegue come il fiume insegue il mare, un'ansa per volta, un ostacolo per volta. Se la insegui come si inseguono le farfalle, quando sarà finita la primavera ti troverai soltanto polvere tra le mani."

-"Io l'ho sempre vista come qualcosa che incontri per la strada, ma non insegui, se la insegui perdi la gioia dell'inaspettato."

-"(Ci inciampi nella felicità, a volte, come qualcuno diceva si inciampasse nella verità. Ma la maggior parte di noi si rialza e prosegue la propria strada.)"

-"Non può essere uno stato prolungato o una costante..."

-(Non ho mai capito molto della vita, ma da quel poco che ho intuito la felicità , più che uno stato d'animo, o un sentimento, è una motivazione.)

-"[...] E' un bel po' difficile ultimamente... le cose cambiano ed è difficile accettarlo. il passato è sempre più distante. questi pensieri si radunano la notte e mi si poggiano sul petto."

-"Il difficile è che bisogna essere felici non perché si vive, ma nonostante la vita. La felicità è un atto di ribellione contro la vita. Per questo è così difficile, e alcune volte fa persino male."

 

 
 
 

Nella nebbia del mattino

Post n°462 pubblicato il 20 Novembre 2016 da lab79

 

 

Ho guidato piano nella nebbia, come cammino incerto i miei passi di ogni giorno, tra le foglie morte con le scarpe bagnate dalla pioggia. Un solo pensiero, oppure mile, tutti da adagiare sul cuscino nel buio di una stanza che non vede quasi più il sole, in cui la notte si fa lunga e materna. Un grembo che accoglie i miei sogni e li rende indistinguibili dal mondo che là fuori intanto sogna a sua volta, nascosto sotto la coperta della nebbia.

Ho guidato  e devo aver sognato, per qualche metro almeno tra le curve strette dalle mura di pietra che quasi abbracciano, nascosto nel guscio di metallo in cui percorro i chilometri che separano il mio lavoro dalla mia casa. E mi sorprendo a pensare che forse spesso la viviamo così la vita, al riparo dal mondo, incapaci di sopportare una goccia di pioggia fredda, un alito di vento gelido. Incapaci di respirare la nebbia densa, di insozzare le suole delle scarpe nelle pozzanghere delle strade bagnate. Ed è come se il mondo là fuori non esistesse: esiste solo quello che c'è dentro il bozzolo.

E con questo pensiero chiudo le palpebre, e nei miei sogni ogni intuizione svanisce, e diventa orrore, e meraviglia.

 

 
 
 

Blockbuster

Post n°461 pubblicato il 16 Novembre 2016 da lab79

*NdA: Una piccola premessa. Questo testo è vecchio. Ma l'avevo scritto per un altro blog, che per motivazionI varie è stato cancellato. Siccome ho il vizio di rimestare di tanto in tanto nel cestino della mia memoria (non fatelo, non è igienico) ho ritrovato il link che porta alla memoria esterna in cui conservo queste cose. Quindi lo posto qui, perché avevo voglia di scrivere qualcosa di diverso senza fare fatica. 

Per Blockbuster si intende generalmente un successo cinematografico imponente. Il termine pare derivare dall’ambito teatrale della Broadway anni 40, preso in prestito a sua volta dall’ambito bellico (Pare fosse il nome con cui venivano colloquialmente chiamate le bombe ad alto potenziale, in grado di far saltare interi isolati –detti appunto “Block”- ) ma sono tutte informazioni di cui sono sicuro a voi non frega un granché. Per noi che siamo nati nei pressi degli anni ’80, il Blockbuster era la catena di negozi di vendita e noleggio video, fine della discussione.

Ora, dato che come di mia abitudine parlerò del contrario di quello di cui sto parlando (Si capisce di cosa sto parlando, vero?), non vi parlerò di grandi successi cinematografici, o non necessariamente di questi, almeno. Parlerò di quei film presenti nella mia personale cineteca che, se la Blockbuster Inc. esistesse ancora, vi consiglierei fortissimamente di noleggiare. E per un motivo preciso. Sono film molto belli, alcuni bellissimi. Potreste acquistarli, certamente. Ma la verità è che non li riguarderete più, perché il vostro legittimo istinto di conservazione vi spingerà a proteggere la vostra psiche da ulteriori sofferenze. Quindi perché spendere i vostri soldi in un film che non rivedrete di proposito MAI PIU’? Il punto è che si tratta di quei film i cui registi sono delle legittime carogne: costruiscono una storia basata sui sentimenti più basilari, vi fanno amare i protagonisti cercando di risvegliare quel poco di umanità che rimane al pubblico cinematografico, per poi pugnalarvi alle spalle. O in pieno petto, che tanto a loro che gli frega della vostra salute emotiva. La lista non è ovviamente esaustiva: non tutti questi film toccheranno un vostro nervo scoperto, e non sono tutti i film che possono toccare i nervi scoperti di chiunque. Ed è, dopotutto, una mia personale piccola lista:

La tomba delle lucciole (Di Isao Takahata, 1988): Cominciamo con il film che riassume l’intero significato di questa lista. Si tratta di un film d’animazione giapponese (Si, un cartone. E si chiamano Anime, e non manga. Non fatevi bacchettare sulla punta delle dita), e non è un cartone qualunque. Prodotto dallo storico studio Ghibli, e nato in contemporanea a uno dei capolavori più dolci del Maestro Miyazaki (Il mio vicino Totoro), La tomba delle lucciole è uno dei più lucidi pugni nello stomaco che mi sia capitato di prendere davanti alla tv. Adattamento di un romanzo semibiografico (Il cui autore lo scrisse per cercare di lenire il dolore per essere sopravvissuto alla sua sorellina), il film narra le vicende di due bambini rimasti orfani durante i bombardamenti incendiari degli americani sul Giappone, durante la Seconda Guerra Mondiale. (Piccola nota a margine: se non lo sapete, le bombe atomiche di Nagasaki e Hiroshima non sono state i peggiori bombardamenti fatti dagli americani sul Giappone. Fatevi un’idea.) Il film narra le peripezie dei due orfani, senza risparmiarvi dettagli anche crudi delle conseguenze della guerra, soprattutto nell’animo delle persone che la soffrono. I due bambini vanno avanti grazie alle arguzie e alla forza di volontà del fratello maggiore, dandoci uno spaccato della meraviglia che i bambini possono vedere anche in un mondo devastato dall’orrore. Non fatevi illusioni. Imparerete ad amare i protagonisti e la loro infantile forza giusto in tempo per vedere la bimba più piccola morire di malattia e stenti, venire cremata dal fratello stesso per poi vederlo morire di inedia nella miseria dell’androne di una stazione dei treni, mentre i loro fantasmi si allontanano tra le lucciole nel prato, consapevoli della pena che hanno dovuto vivere su questa terra. Spegnerete la tv pensando che i cartoni animati dovrebbero far ridere i bambini, non far piangere dei cinici come voi.

Hachiko (Di Lasse Hamstrom, 2008): Se avete mai avuto un cane, avrete esperimentato quel senso di fiducia assoluta e incondizionata che un cane vi può donare, insieme alla gioia, al calore e alla certezza di una fedeltà e amicizia che chissà fin dove può arrivare. Ecco, questo film vi fa ammirare che cosa è in grado di fare il vostro cane anche quando voi avrete smesso di soffrire su questa terra. Anche questo film è l’adattamento di una storia vera, e anche in questo caso la storia viene dal Giappone. Che il protagonista sia Richard Gere e il film sia ambientato in America, beh: misteri di Hollywood. (Un americano mi ha grossolanamente spiegato una volta che un film senza protagonisti americani “non si capisce”. Cioè non concepiscono che una storia possa accadere senza che accada a un americano. Ed è questo il motivo per cui esistono diversi remake di pellicole estere, girate letteralmente fotogramma per fotogramma, soltanto sostituendo gli attori stranieri con attori americani. ) Si tratta di un melodramma quasi fiabesco, cosa non insolita per questo regista. I personaggi sono semplici, buoni, manichei. Ma chissenefrega, perché il protagonista è il cane, che recita da cane: cioè nel modo più sincero e tenero possibile, tanto che alla fine diventa palpabile il legame di amicizia che nemmeno la morte del padrone spezza, nemmeno col passare del tempo che infine, una sera d’inverno, si porterà via anche Hachiko. Insieme alla vostra voglia di rivedere un bel film dover però alla fine il cane muore.

Un ponte per Therabithia ( di Gaspor Csupo, 2007) Un bambino sensibile e dotato per il disegno, figlio di una famiglia distratta a dir poco, conosce una bambina estroversa ed espansiva, praticamente il suo contrario. E infatti diventano amici. Il film è un racconto sull’amicizia più limpida e disneyana che riuscite a concepire: un inno alla capacità di immaginazione e di fedeltà che un’amicizia vera può donare, fino ad immaginare un mondo fantastico da condividere con quella persona speciale che il destino ti ha fatto trovare lungo la strada. Finché un giorno il protagonista si fa tentare da una visita al museo con la sua maestra di musica, forse l’archetipo della prima cotta preadolescenziale di ogni maschio occidentale, mentre la sua amica lo attende sulla riva del torrente che devono attraversare per andare nel lato del bosco in cui si trovano a sognare il loro mondo fantastico. Lei, probabilmente stanca di aspettarlo e magari delusa di non vederlo arrivare, tenta di attraversare il fiume da sola: scivola nel torrente e muore. Lui imparerà , nel dolore di aver perso la sua prima amica vera, che la meraviglia di quel mondo la si può regalare anche ad altri, e accompagna dunque la sua sorellina, che fino ad allora aveva voluto tenere fuori, nel mondo meraviglioso (e immaginario) che aveva costruito con la sua amica. Alla fine del film vi resterà una domanda: Da quando la Disney uccide i bambini?

Schindler’s List (di Steven Spielberg, 1993): Suvvia, che questo lo conoscete. E comunque: il prequel lo si trovava nelle edicole qualche mese fa, allegato a “Il Giornale”, se vi interessa. Comunque, torniamo al film. La premessa la sapete: il mondo è impazzito, si rinchiudono quelli che non sono come noi nei ghetti, si mette in piedi un meccanismo di smaltimento del problema, e insieme a burocrati, gente che esegue ordini e vittime, ci sono imprenditori che approfittano del momento per fare un po’ di grano. Più o meno come oggi, insomma, solo che in bianco e nero, che fa più chic. Tra questi imprenditori, il nostro protagonista: Schindler è un intrallazzatore, opportunista, donnaiolo e viveur. Un tizio simpatico e guascone, cinico abbastanza da fregarsene della follia che lo circonda, finché un giorno un difetto nella pellicola gli fa vedere un barlume di colore rosso in mezzo a tanto bianco e nero. E’ la nascita del Technicolor nella sua coscienza: si fa prendere da scrupoli e continua a fare quello che ha sempre fatto, ma con uno scopo diverso. Diventa amico di uno dei cattivi più terrificanti della storia del cinema (Ralph Fiennes riesce a sottrare così tanta anima dal suo personaggio da dare l’impressione di poter vedere l’ingresso alle Malebolge nei suoi occhi) Senza rendersene conto diventa una pecora travestito da lupo, ma un bel giorno in cui il male sembra in procinto di finire, lui si accorge di essersi dimenticato di disdire la sua iscrizione al club dei cattivi. Gli tocca scappare, ma coloro che ha aiutato lo trattengono per la manica della giacca, e gli mettono in mano un anello con una scritta sopra. Se come me siete fan della saga di Tolkien, mi verrete a dire che in un anello non si può scrivere niente di più potente di “Un anello per domarli, un anello per trovarli, un anello per ghermirli, e nel buio incatenarli.” Ora ve lo dico: cazzate. Perché questi poveracci cavano l’oro dal dente di un loro compagno di disgrazie, ci fanno un anello, e scrivono forse l’unica frase che in tutta la storia delle religioni di noi poveri uomini abbia un senso: “Chiunque salva una vita, salva il mondo intero”. Finito il film vi resterà nello stomaco il dubbio di aver vissuto una vita senza aver fatto niente che faccia davvero la differenza.

La Vita è bella (di Roberto Benigni, 1997): La vita è bella un corno. Benigni vuole insegnarci che si può ridere anche nei momenti meno opportuni. L’effetto che fa però, più che comico, è ridicolo. Almeno fino a un certo punto del film in cui vi assale il sospetto che lo scemo del villaggio non sia tanto scemo. Perché più che ridicole, le trovate comiche diventano grottesche. La storia è questa: Un padre ingenuo e ottimista trova l’amore e la felicità nel posto e nel momento sbagliato. Che poi sarebbe Arezzo nel 1939. Gli va male: gli portano via quello che è riuscito a racimolare e anche la famiglia, incluso il bimbo troppo piccolo per affrontare un tale orrore. Lui, da buon padre qual è, fa quello che farebbe qualunque padre. Gli racconta balle. Ma le racconta talmente bene che il bimbo ci crede e attraverso quelle riesce a vivere, e a sopravvivere, in quello che per altri è l’inferno. E infatti è l’inferno, perché neanche qui c’è il finale felice. La guerra finisce, lui si salva, la sua innocenza si salva, gli altri si salvano, il mondo diventa luminoso, la vita più bella. Solo, si porta via, senza che quasi se ne renda conto, il suo papà. Che gli ha regalato una delle cose più belle che un figlio possa ricevere: la voglia di vivere, nonostante il mondo faccia schifo.

Poi ripenserete a quella volta in cui vostro padre vi ha regalato un paio di scarpe del numero sbagliato, e vi chiederete chi fra quel bimbo e voi sia stato più fortunato.

 

Questi sono alcuni dei miei film “Da guardare una volta, e mai più”. Quali sono i vostri?

 

NdA bis: Ah, dimenticavo. SPOILER ALERT.

 
 
 

Il diavolo nei dettagli

Post n°460 pubblicato il 13 Novembre 2016 da lab79

 

 

 

(Ne parlo anche se dopo un paio di giorni ne ho già la nausea. Come al solito quando parlo di cose serie, sarò lungo e noioso, quindi siete liberi di ripassare un altro giorno. Chissà che non mi metta a parlare di internet e gattini.)

 

Il tema dei prossimi mesi sarà, come ogni volta ogni quattro anni, la presidenza degli Stati Uniti.  E non c'è da sorprendersi: l'influenza delle decisioni prese da chi siede su quello scranno toccano tutti noi, inutile illudersi del contrario. Non è una questione di provincialismo, quanto di connessioni. Gli Stati Uniti sono e restano la nazione con più interessi investiti nel resto del mondo, ragione per cui si interessano del resto del mondo e al resto del mondo fanno presente, in modo più o meno pressante, questi interessi.

La vittoria del candidato repubblicano arriva si a sorpresa, ma non così tanto a sorpresa come fanno capire ora i media. Dato che abbiamo la memoria corta, basta tornare ad alcuni giorni prima del voto: tre giorni prima del voto circolavano cifre su sondaggi on-line che davano alla candidata democratica poco più del 3% di vantaggio. Che non è molto, se consideriamo un fisiologico margine di errore e l'esiguo campione utilizzato rispetto ad una massa votante che già non è certa al momento dei sondaggi. Dettagli, ma il diavolo si trova proprio lì, seduto sulle apparentemente scomode seggiole dei dettagli.  L'imprecisione dei sondaggi elettorali è legata al fatto che la maggior parte degli elementi che si utilizzano per fare i calcoli sono varianti, sui cui volumi vanno fatte a loro volta le dovute previsioni. Come non è possibile sapere con certezza chi vincerà, così non è possibile sapere quante persone andranno a votare, e se voteranno alla stessa maniera di chi, simile per ceto economico e sociale, è stato scelto per fare parte del campione. Alla stessa maniera non è possibile sapere se chi ha partecipato ha dichiarato il vero, e se tutte le persone a lui paragonabili (e di cui lui è idealmente una rappresentanza) voteranno alla sua stessa maniera.

Le proiezioni sono infatti una generalizzazione: se estrapolo un campione dalla totalità, e lo sottopongo ad un determinato trattamento, è probabile che il risultato ottenuto sia ripetibile anche per quella parte del totale su cui non ho lavorato. E' un metodo scientifico: se prendo una rana e la butto nel lago, la rana nuoterà. Posso dunque immaginare che tutte le rane che abitano nel bosco, se buttate nel lago, nuoteranno. A patto che siano tutte rane. Cosa che non si può dire del popolo degli Stati Uniti. Orwellianamente, il popolo degli Stati Uniti  è composto da tanti animali diversi con diversi interessi, diversa natura e diversa capacità di reazione agli eventi.

Questo però spiega l'incongruenza delle previsioni con i risultati, non i risultati stessi.

La vittoria repubblicana è, questa volta, figlia del populismo. Che non è detto con intento denigratorio: il populismo ha una lunga storia, specialmente negli Stati Uniti. Dove per populismo si intende il promettere di concedere a chi vota la legittimità delle proprie paure, e dei propri desideri. Non per forza di cose di soddisfarli. E' un po' come consolare l'amico quando questi scopre di non passare più dalla porta. Lui si arrabbia, si indigna. Tu gli batti la mano sulla spalla e ripeti: hai ragione, ti capisco. Ma la verità è che probabilmente tu sai che in fondo l'amico se le merita le propaggini sulla testa, ma sai anche che non è il momento per dirglielo. E' arrabbiato e sconsolato. Va confortato e consolato, perché tu sei un amico. Ci sarà tempo, poi, per spiegargli i suoi errori.

Nel caso delle elezioni, ci sono di mezzo interessi maggiori di quello di tenerti buono l'amico cornuto. Il potere di per sé, e la pressione della propulsione economica che finanzia le candidature possono forzare, e forzano, la direzione della visione del mondo dei candidati. Quest'ultimo elemento è quello che ha impedito il ripetersi dell'esperimento della prima elezione di Barack Obama: Secondo presidente eletto direttamente dal seggio del senato, senza passare dalla precedente presidenza, vicepresidenza o almeno dalla poltrona di governatore di qualche stato. (Il primo è stato JFK).  Il segreto è stato proprio la sua palese diversità: nero, giovane, apparentemente estraneo al politichese. E quasi in contrasto: eloquente e dal linguaggio forbito, istruito e capace di trasmettere una sensazione di efficienza tipica dei nuovi guru delle industrie informatiche. Un misto di visionarietà e capacità tecnica. Insomma, risultava difficile dargli dell'incompetente. Piaceva, infatti, in larga parte ai giovani e a chi vantava titoli di studio, cosa che lui aveva capito tanto da cercare i suoi finanziamenti proprio lì, in quella sacca che si fidava di lui. Guadagnandosi, per questo gesto, sia fondi consistenti che ulteriore fiducia.  L'unico candidato che offrisse un profilo in qualche modo simile (In maniera diversa, ma anche lui "alternativo") era Bernie Sanders, affossato forse dall'uso della parola "Socialismo" in un dibattito che, seppure già infuocato, non sembrava ancora possibile diventasse così sregolato. Nonché dai consolidati appoggi dalla navigata ma controversa (e non proprio limpidissima) Hillary Clinton.

Con questo va evidenziato che a vincere le elezioni è stato Donald Trump e nessun altro. Non il partito repubblicano, in una crisi di forza che va avanti dai tempi del secondo mandato di Bush Jr. Già allora i venti populisti che rispondevano al nome di Tea Party ne scompigliavano i capelli, tanto da costringerli a presentare come candidata alla vicepresidenza una tale Sarah Palin, governatrice dell'Alaska e forse non meno controversa di Trump. Il partito democratico ne esce forse ancora più sconfitto: incapace di credere nel ripetersi dell'anomalia Obama, soggiogato al potere dei nuovi establishment che sembrano essersi slegati dalla tradizionale fedeltà al partito repubblicano e per nascondersi questa verità, affidatosi all'influenza della dinastia Clinton e al labile sogno di portare per la prima volta una donna alla presidenza, sacrificando un candidato che seppur più radicale di quanto siano abituati, abbastanza outsider e "underdog" da combattere una campagna segnata dal radicale populismo di Trump. Insomma, forse questa battaglia andava combattuta tra i due populismi che ormai hanno sostituito gli ideali dei maggiori partiti.

Ora, se la domanda è "Cosa farà il presidente Trump?" la risposta molto probabilmente è: niente di tutto quello di cui ha farneticato. Non sarà una rivelazione né una sorpresa per chi lo ha votato. Nessuno si aspetterà davvero espulsioni di immigrati in massa, costruzioni faraoniche lungo sconfinate frontiere, violente repressioni di chi lo ha contestato e contrastato. Probabilmente lavorerà per affievolire o spegnere l'energia propulsiva che otto anni di presidenza democratica hanno imposto al paese, in nome di un neo-reaganesimo approssimativo e ideologico, che in fondo non è mai davvero sparito dal cuore (e specialmente dalle menti) degli Usa. Forse la vera novità sarà un'insolita (per gli Usa moderni) autarchia e tendenza all'isolazionismo, con al massimo qualche sortita di maggior vigore nel "cortile di casa", altrimenti chiamato America Latina. In ambito economico, un neo-liberismo non tanto diverso da quello che ha portato alla grande crisi del 2007, i cui semi vengono ancora insegnati nelle università americane come se il grande crack finanziario dei mutui subprime non fosse mai avvenuto.

A conclusione di questo papiro, ci tengo a dire che ho delle opinioni mie personali, che però mi tengo per me. Non differiscono tanto da queste premesse, ma ci sono una serie di sensazioni e timori che prendono forma e che viaggiano sotto pelle, sotto forma di presagi che nulla a che fare con quel minimo di razionalità con cui cerco di vivere tutti i giorni, e che per questo vi risparmio.

 

 

 

 

 
 
 

Poche parole

Post n°459 pubblicato il 10 Novembre 2016 da lab79

Sono di poche parole, ultimamente. Non solo qui, dove ho sempre centellinato la mia presenza, ma anche nella mia vita di tutti i giorni. E così facendo scopro come le parole si esauriscano se non vengono usate, si prosciuga la fonte e non si ha più nulla da dire, semplicemente. La vita si riduce a gesti meccanici: sveglia, rivestiti, mangia, pulisci, metti in ordine, apri le finestre, esci, rientra, cucina, chiudi le finestre, spegni le luci, rivestiti, esci, guida, lavora, spegni le luci, resta sveglio, lavora, accendi le luci, lavora, alzati, timbra, guida, fai colazione, metti in ordine, svestiti, richiudi le finestre, spegni le luci, dormi, sogna, sveglia.

E le parole a malapena spiegano: piuttosto descrivono , una passo per volta il ritmo circadiano del mondo, come l'ago dei secondi racconta il tempo nell'orologio. Scandiscono e non fanno nient'altro che scandire il consumarsi del tempo che ci rimane.

Ma le parole non servono solo a questo.

E allora che sia tempo di scaldarle, di dar loro energia sotto forma di calore, perché siano pronte a produrre significato.

 

 
 
 

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